Pasolini e Warhol, una mostra

28 Gennaio 2025

Entusiasta e ottimista all’inizio, poi, perse tutte le illusioni, deluso da ogni aspettativa e finanche scettico. Il rapporto di Pasolini con gli Stati Uniti si erose presto in una parabola consumata lungo un arco di due anni e mezzo, quando la sua visione nei confronti del paese mutò di segno dal primo e più compiuto viaggio oltreoceano nel settembre 1966 a quello del marzo 1969. Con una coda, il 1975, a poca distanza dalla morte del poeta e regista. L’itinerario viene ripercorso nella mostra “Pasolini America Warhol”, curata da Giada Centazzo e Alessandro Del Puppo e allestita al Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia fino al 23 febbraio.

A portare Pasolini negli Stati Uniti non fu però la letteratura. Egli amò poco Faulkner e Hemingway, di cui in questa occasione espositiva viene presentata la prima traduzione italiana di Oggi si vola (1937) e Addio sconosciuto (1946), entrambe pubblicate a Milano da Mondadori. Piuttosto le stelle di riferimento furono, come lui stesso dichiarò, Melville e Ginsberg, testimoniate in mostra dal libro Benito Cereno, uscito per Einaudi nel 1940 e Mantra del Re di Maggio, dato alle stampe nel 1973 sempre da Mondadori. D’altro canto la ricezione della prosa di Pasolini da parte del pubblico anglofono poté prendere avvio nel 1968, l’anno dell’edizione in inglese di Ragazzi di vita (Groove Press, New York) che diventò The Ragazzi. Eppure al panorama statunitense egli dedicò alcune sue prove già dal 1962. All’indomani della dipartita di Marylin Monroe compose per la diva un testo in versi, quasi un epitaffio, affidandolo alla voce di Laura Betti che lo recitò nel suo spettacolo al Teatro Gerolamo di Milano nel novembre dello stesso anno: quella “figlia di piccola gente” – commentava Pasolini – era sparita insieme alla propria bellezza come “un pulviscolo d’oro”. Più tardi, invece, la lirica venne letta da Goffredo Parise nel video sperimentale La Rabbia. Quando poi nel 1973 lo scrittore produsse il film La ricotta, scelse Orson Welles, perfettamente nella parte, per recitarvi il ruolo del regista.

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Dopo un breve passaggio a chiusura dalla rassegna cinematografica di Montreal che si tenne nell’agosto 1966, a stretto giro Pasolini fece ritorno a New York durante la quarta edizione del Film Festival, dove il 16 settembre fu proiettato Accattone insieme a Uccellacci e uccellini. Invitato a un dibattito organizzato all’interno della cornice festivaliera, egli finì con tutti i protagonisti della tavola rotonda sulla fotografia di copertina del numero speciale della rivista «Film culture». Tra di loro, però, fu Agnès Varda a voler quasi ritagliare un altro momento di incontro con PPP realizzando un breve video su pellicola 16mm recentemente riscoperto e restaurato dalle cure di Cine-Tamaris e di L’Immagine Ritrovata e ora fruibile in mostra. Nei quattro minuti di girato, eccolo sulla Quarantaduesima tra le insegne scintillanti e il traffico, seguito da vicino dall’occhio della cinepresa che alterna primi piani del suo volto alla fiumana brulicante di gente che si intrattiene o cammina. Interrogato da Varda, Pasolini raccontò del rapporto tra l’immagine e la realtà, tra il mondo e la rappresentazione che se ne dà, e dell’importanza della cultura figurativa sul proprio immaginario: luci e colori, forme, volumi e soluzioni compositive offerte dalla storia dell’arte erano stati modelli con cui confrontarsi da vicino, prima ancora che con una conoscenza diretta del cinema. A un certo punto l’inquadratura si sposta su una coppia, ferma davanti a un negozio con la scritta “sale” in vetrina. Lui verosimilmente in giacca e camicia, lei vestita con un abito floreale mentre tiene in mano e porta alla bocca un fiore. Chissà se in quella posa Pasolini avrebbe potuto riconoscersi, lui che così si era atteggiato in un noto autoritratto del 1947. Fiori, sì. «Ieri sera ti ho sentito dire tutto quello che ti veniva in mente su New York e San Francisco, coi loro fiori» scrisse Pasolini a Ginsberg nell’ottobre 1968 quando i due si erano incontrati a Milano, come Giada Centazzo ha ricostruito. Ma con una punta di amarezza, aggiungeva subito PPP, in Italia «fiori solo dai fiorai».

Ad accogliere il poeta friulano della metropoli ci fu poi tra gli altri il fotografo Duilio Pallottelli, conosciuto in precedenza a Roma. La serie di scatti che ne nacque – alcune parti della sequenza sono presenti attualmente a Casarsa – lo riprende mentre percorreva le ampie strade lungo la città. Si trattò di un servizio per l’Europeo del 13 ottobre, che accompagnava l’intervista a firma di Oriana Fallaci, Un marxista a New York. La realtà che si dischiuse agli occhi di Pasolini era qualche cosa da divorare: «mi sento come un bambino di fronte a una torta da mangiare, una torta di tanti piani», confessava lui stesso su quelle pagine. Con lo slancio di un nuovo adolescente sentiva pulsare la «voglia di fare, affrontare, cambiare» le cose in uno spirito di azione. Egli ascoltò un sindacalista che rifiutava gli ideali di Martin Luther King per sostenere la lotta violenta; solidarizzò con i familiari di chi era morto sul lavoro; si interessò di un membro eletto al Congresso che per opporsi alla guerra in Vietnam non era mai potuto entrare in parlamento; e provò dolore per chi era stato ucciso dal Ku Klux Klan. Fu quindi vicino all’impegno politico dei ragazzi dello Student Non-violent Coordinating Committee al punto che in loro vedeva l’adempimento, il completamento laico nei secoli della storia, dell’azione di Paolo di Tarso. Pensò così di ambientare a New York un film sul Santo, di cui tutt’oggi è conservata una stesura che data tra maggio e giugno 1968. Della città lo affascinò poi la vitalità dei giovani, i loro abiti sgargianti e dai colori saturi. «Vestiti nel modo più sincero, più anticonformista – dichiarò a Fallaci – non gliene importa nulla delle regole piccolo-borghesi o popolari. […] Non si vestono mica, si mettono in maschera […]. E così mascherati se ne vanno, orgogliosi, coscienti della loro eleganza che non è mai un’eleganza mitica o ingenua».

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Pasolini tornò a New York nel marzo 1969. Su invito del MoMA assistette alla proiezione del film Teorema; in seguito raggiunse il Queens College dove Julian Beck, a cui avrebbe assegnato la parte di Tiresia nell’Edipo re, dava uno spettacolo con il Living theatre. Seduto invece su una sedia di fortuna con il volto serio e pensoso, Pasolini posò in un vicolo buio della città. A ritrarlo fu Duane Michals, tra casse di legno accostate e impilate quasi quelle di un Combine di Rauschenberg, come in mezzo alle cataste di rifiuti che Dine o Oldenburg rovistavano per le loro opere, o in un Environment di Kaprow, fisso e immobile quasi una scultura di Segal. La fotografia, esposta ora in mostra, faceva parte di una serie da pubblicare sulla patinata Vogue ed aveva la stessa destinazione degli scatti che Richard Avedon realizzò a Pasolini all’interno del proprio studio nel precedente viaggio del poeta, il 29 settembre 1966. Stessa rivista, stessa sorte. Di entrambi i servizi non si fece alcunché.

Presto però ogni entusiasmo di Pasolini nei confronti dell’America fu frenato: gli sembrò che ogni opposizione critica e contestataria fosse svanita, sopita e anestetizzata. Ne è una ultima conferma il testo che egli scrisse per il noto ciclo di ritratti di travestiti realizzato da Andy Warhol, Ladies and gentlemen nel 1975 su cui Alessandro Del Puppo ha recentemente fatto luce (Pasolini Warhol 1975, Mimesis, Milano 2019). Commissionato da Luciano Anselmino, direttore della Galleria Il Fauno e titolare di un proprio spazio espositivo in via Manzoni a Milano, si componeva di 105 dipinti e 10 serigrafie esposte nella mostra che Palazzo Diamanti a Ferrara dedicò all’artista nel novembre di quell’anno. A PPP spettò il testo a catalogo per le serigrafie di quella suite esposte invece a Milano (250 esemplari nel formato di 95x65 cm), cinque delle quali sono ora visibili a Casarsa. Ladies and gentlemen non era un’opera di denuncia da intendersi nel senso di una rivendicazione sociale, per il riscatto da un ruolo subordinato e schiavizzato, come intese la critica d’arte italiana di allora. E a nulla valse al poeta informarsi dei nomi di chi vi era effigiato per poterne cogliere l’identità. Il trucco che quegli uomini applicarono al loro volto con meticolosa cura li rendeva a suo giudizio irrimediabilmente anonimi, in una maschera spersonalizzante e alienante. Tutto suggeriva solo “omogeneità”, “compattezza”, “entropia” entro l’“unità sclerotica dell’universo”. Pasolini e Warhol, che mai si conobbero, rappresentano “una endiadi difficilmente componibile” come ha scritto Del Puppo. Ciò che in sostanza il primo non colse del secondo fu il fatto che «la sfocatura delle identità di genere non era altro che la naturale conseguenza del disfacimento delle identità di classe. Era il modo in cui il mimetismo piccolo borghese si dava come dato di fatto empirico, o se si preferisce, come carnevalizzazione della mobilità sociale nella finzione festosa dei ruoli». Prima che Anselmino inaugurasse a Milano, gli eventi fecero il loro corso, PPP era già sulle prime pagine della cronaca.

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