Speciale
Poesia. Saluto e Augurio
Sono trascorsi quarant’anni dalla notte tra il 1° e il 2 di novembre in cui Pier Paolo Pasolini è stato assassinato a Ostia, un tempo lungo e insieme breve. La sua figura di scrittore, regista, poeta e intellettuale è rimasta nella memoria degli italiani; anzi, è andata crescendo e continua a essere oggetto di interesse, non solo di critici e studiosi, ma anche di gente comune. Pasolini è uno degli autori italiani più noti nel mondo. In occasione delle celebrazioni promosse dal Comune di Bologna, dalla Fondazione Cineteca di Bologna, e all’interno del progetto speciale per il quarantennale della morte, che si articola in un vasto e ricco programma d’iniziative nella città dove Pasolini è nato e ha studiato, doppiozero, media partner, ha scelto di realizzare uno specifico contributo. Si articola in tre parti. Insieme alla pubblicazione d’interviste disperse, di lettere di scrittori e saggisti indirizzate a PPP, proseguiamo con la ripubblicazione di una serie di testi poetici particolarmente attuali scelti curati e introdotti da Marco A. Bazzocchi
Saluto e Augurio
A è quasi sigùr che chista a è la me ultima poesia par furlàn; e i vuèj parlàighi a un fassista prima di essi (o ch’al sedi) massa lontàn.
Al è un fassista zòvin, al varà vincia un, vincia doi àins: al è nassùt ta un paìs, e al è zut a scuela in sitàt.
Al è alt, cui ociàj, il vistìt gris, i ciavièj curs: quand ch’al scumìnsia a parlàmi i crot ch’a no’l savedi nuja di politica
e ch’al serci doma di difindi il latìn e il grec, cuntra di me; no savìnt se ch’i ami il latin, il grec - e i ciavièj curs. Lu vuardi, al è alt e gris coma un alpìn.
"Ven cà, ven cà, Fedro. Scolta. I vuèj fati un discors ch’al somèa un testamìnt. Ma recuàrditi, i no mi fai ilusiòns
su di te: jo i sai ben, i lu sai, ch’i no ti às, e no ti vòus vèilu, un còur libar, e i no ti pos essi sinsèir: ma encia si ti sos un muàrt, ti parlarài.
Difìnt i palès di moràr o aunàr, in nomp dai Dius, grecs o sinèis. Moùr di amòur par li vignis. E i fics tai ors. I socs, i stecs.
Il ciaf dai to cunpàins, tosàt. Difìnt i ciamps tra il paìs e la campagna, cu li so panolis, li vas’cis dal ledàn. Difìnt il prat
tra l’ultima ciasa dal paìs e la roja. I ciasàj a somèjn a Glìsiis: giolt di chista idea, tènla tal còur. La confidensa cu’l soreli e cu’ la ploja,
ti lu sas, a è sapiensa santa. Difìnt, conserva prea. La Repùblica a è drenti, tal cuàrp da la mari. I paris a àn serciàt, e tornàt a sercià
di cà e di là, nass’nt, murìnt, cambiànt: ma son dutis robis dal passàt. Vuei: difindi, conservà, preà. Tas: la to ciamesa ch’a no sedi
nera, e nencia bruna. Tas! Ch’a sedi ’na ciamesa grisa. La ciamesa dal siun. Odia chej ch’a volin dismòvisi e dismintiàssi da li Paschis...
Duncia, fantàt dai cialsìns di muàrt, i ti ài dita se ch’a volin i Dius dai ciamps. Là ch’i ti sos nassùt. Là che da frut i ti às imparàt
i so Comandamìns. Ma in Sitàt? Scolta. Là Crist a no’l basta. A coventa la Gl’sia: ma ch’a sedi moderna. E a coventin i puòrs.
Tu difìnt, conserva, prea: ma ama i puòrs: ama la so diversitàt. Ama la so voja di vivi bessòj tal so mond, tra pras e palàs
là ch’a no rivi la peràula dal nustri mond; ama il cunfìn ch’a àn segnàt tra nu e lòur; ama il so dialèt inventàt ogni matina,
par no fassi capì; par no spartì cun nissùn la so ligria. Ama il sorel di sitàt e la miseria dai laris; ama la ciar da la mama tal fì.
Drenti dal nustri mond, dis di no essi borghèis, ma un sant o un soldàt: un sant sensa ignoransa, un soldàt sensa violensa.
Puarta cun mans di sant o soldàt l’intimitàt cu’l Re, Destra divina ch’a è drenti di nu, tal siùn. Crot tal borghèis vuàrb di onestàt,
encia s’a è ’na ilusiòn: parsè che encia i parons, a àn i so paròns, a son fis di paris ch’a stan da qualchi banda dal momd.
Basta che doma il sintimìnt da la vita al sedi par diciu cunpàin: il rest a no impuàrta, fantàt cun in man il Libri sensa la Peràula.
Hic desinit cantus. Ciàpiti tu, su li spalis, chistu zèit plen. Jo i no pos, nissun no capirès il scàndul. Un veciu al à rispièt
dal judissi dal mond; encia s’a no ghi impuarta nuja. E al à rispièt di se che lui al è tal mond. A ghi tocia difindi i so sgnerfs indebulìs,
e stà al zoùc ch’a no’l à mai vulùt. Ciàpiti su chistu pèis, fantàt ch’i ti mi odiis: puàrtilu tu. Al lus tal còur. E jo ciaminarai lizèir, zint avant, sielzìnt par sempri
la vita, la zoventùt. |
Traduzione
È quasi sicuro che questa è la mia ultima poesia in friulano: e voglio parlare a un fascista, prima che io, o lui, siamo troppo lontani.
È un fascista giovane, avrà ventuno, ventidue anni: è nato in un paese ed è andato a scuola in città.
È alto, con gli occhiali, il vestito grigio, i capelli corti: quando comincia a parlarmi, penso che non sappia niente di politica
e che cerchi solo di difendere il latino e il greco contro di me; non sapendo quanto io ami il latino, il greco - e i capelli corti. Lo guardo, è alto e grigio come un alpino.
"Vieni qua, vieni qua, Fedro. Ascolta. Voglio farti un discorso che sembra un testamento. Ma ricordati, io non mi faccio illusioni
su di te: io so, io so bene, che tu non hai, e non vuoi averlo, un cuore libero, e non puoi essere sincero: ma anche se sei un morto, io ti parlerò.
Difendi i paletti di gelso, di ontano, in nome degli Dei, greci o cinesi. Muori d’amore per le vigne. Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi.
Per il capo tosato dei tuoi compagni. Difendi i campi tra il paese e la campagna, con le loro pannocchie abbandonate. Difendi il prato
tra l’ultima casa del paese e la roggia. I casali assomigliano a Chiese: godi di questa idea, tienla nel cuore. La confidenza col sole e con la pioggia,
lo sai, è sapienza sacra. Difendi, conserva, prega! La Repubblica è dentro, nel corpo della madre. I padri hanno cercato e tornato a cercar
di qua e di là, nascendo, morendo, cambiando: ma son tutte cose del passato. Oggi: difendere, conservare, pregare. Taci! Che la tua camicia non sia
nera, e neanche bruna. Taci! che sia una camicia grigia. La camicia del sonno. Odia quelli che vogliono svegliarsi, e dimenticarsi delle Pasque...
Dunque, ragazzo dai calzetti di morto, ti ho detto ciò che vogliono gli Dei dei campi. Là dove sei nato. Là dove da bambino hai imparato
i loro Comandamenti. Ma in Città? Là Cristo non basta. Occorre la Chiesa: ma che sia moderna. E occorrono i poveri
Tu difendi, conserva, prega: ma ama i poveri: ama la loro diversità. Ama la loro voglia di vivere soli nel loro mondo, tra prati e palazzi
dove non arrivi la parola del nostro mondo; ama il confine che hanno segnato tra noi e loro; ama il loro dialetto inventato ogni mattina,
per non farsi capire; per non condividere con nessuno la loro allegria. Ama il sole di città e la miseria dei ladri; ama la carne della mamma nel figlio
Dentro il nostro mondo, dì di non essere borghese, ma un santo o un soldato: un santo senza ignoranza, o un soldato senza violenza.
Porta con mani di santo o soldato l’intimità col Re, Destra divina che è dentro di noi, nel sonno. Credi nel borghese cieco di onestà,
anche se è un’illusione: perché anche i padroni hanno i loro padroni, e sono figli di padri che stanno da qualche parte nel mondo.
È sufficiente che solo il sentimento della vita sia per tutti uguale: il resto non importa, giovane con in mano il Libro senza la Parola.
Hic desinit cantus. Prenditi tu, sulle spalle, questo fardello. Io non posso: nessuno ne capirebbe lo scandalo. Un vecchio ha rispetto
del giudizio del mondo: anche se non gliene importa niente. E ha rispetto di ciò che egli è nel mondo. Deve difendere i suoi nervi, indeboliti,
e stare al gioco a cui non è mai stato. Prenditi tu questo peso, ragazzo che mi odii: portalo tu. Risplende nel cuore. E io camminerò leggero, andando avanti, scegliendo per sempre
la vita, la gioventù. |
Saluto e augurio è un testamento, anzi un testamento paradossale. È l’ultimo componimento dell’ultima raccolta di Pasolini, potremmo anche pensare che sia l’ultima poesia da lui scritta, o almeno questo è l’effetto che l’autore aveva pensato pubblicando (pochi mesi prima di morire, nel maggio 1975) una raccolta di versi italiani e friulani che riprendeva, a cominciare dal titolo, la sua prima organica raccolta: La nuova gioventù è il titolo del 1975, La meglio gioventù quello del 1954 (dove confluivano le opere giovanili dagli anni quaranta in poi). Ma il rapporto tra questi due titoli è complesso: “meglio gioventù” è un’espressione che viene da una canto alpino dove si dice “la meglio zoventù che va sot’tera”, con riferimento alla morte dei giovani soldati, ma anche – in senso simbolico – all’atmosfera funebre che domina nelle prime poesie dell’autore, al tema del “bambino morto” che Pasolini usa in forme variate fino ad arrivare al famoso “feto adulto” del 1963. Inoltre, per complicare le cose, Pasolini farà cantare la canzone al gruppo dei soldati collaborazionisti e dei signori in una delle prime scene di Salò: nella Villa del terrore e del male, risuona l’eco della gioventù sacrificata dalla guerra, che si ricollega alla gioventù che ora viene sacrificata dal sistema del Neocapitalismo. Come diceva Foucault, tutta l’opera di Pasolini può essere letta come l’epica del sacrificio delle giovani generazioni nella moderna storia europea.
Scegliendo “nuova gioventù” Pasolini allude esplicitamente a due cose: il suo desiderare una “nuova” giovinezza, secondo il mito della fenice che rinasce di continuo dalle proprie ceneri, e il suo voler parlare a una “nuova” gioventù, cioè ai giovani di una nuova generazione. Sulla copertina della prima edizione Einaudi, viene riprodotta la fototessera di un Pasolini giovane militare.
Per questo, la strategia retorica del discorso è fondata sull’antico motivo di Socrate che parla a Fedro. Figura capitale nella concezione pedagogica di Pasolini, Socrate (che il poeta ricongiunge alla figura materna, in quanto prima donatrice di un amore/sapere) doveva essere al centro di un film mai realizzato: il valore simbolico del personaggio poi viene spostato su Totò negli anni sessanta, e sul rapporto tra Totò e Ninetto nei film di una ipotetica trilogia (Uccellacci e uccellini, La terra vista dalla luna, Che cosa sono le nuvole?).
Ora, però, nel momento del “congedo” (che caratterizza anche le canzoni delle origini romanze), Pasolini/Socrate si rivolge a un allievo che appartiene a una scuola opposta, cioè a un giovane di destra. Il ragazzo è descritto con le caratteristiche di un borghese di città (“un fascista giovane”, “alto, con gli occhiali, il vestito grigio, i capelli corti”), uno studente che ama ancora il sapere antico (“il latino, il greco”), quello che i contestatori di sinistra hanno rifiutato. Per questo Pasolini lo sceglie a interlocutore: non può più parlare con i ragazzi di sinistra, non crede più nei marxisti che esibiscono un desiderio di adeguamento ai valori di una nuova epoca, quella che Pasolini ha battezzato, già da un decennio, come Nuova Preistoria. E dunque, questa “ultima poesia in friulano” si rivolge per paradosso a chi non dovrebbe essere un interlocutore adatto, o lo può essere solo per poco. Le condizioni del dialogo sono problematiche, instabili, forse impossibili: è la costante della poesia di Pasolini dagli anni sessanta, quando ogni enunciato va messo tra virgolette, interpretato secondo un filtro che lo deforma, lo sottopone a torsioni (Pasolini manierista, secondo la vecchia intuizione di Fortini).
Il colore del ragazzo è il grigio: colore spento, colore della non vita, colore delle divise militari, colore del sonno: Pasolini chiede al ragazzo di non svegliarsi alla “modernità”, di non seguire il presente. La condizione del dormiveglia è quella giusta per ascoltare la voce di colui che ora gli parla per iniziare “un discorso che sembra un testamento”.
Qual è la sostanza di questo discorso? L’ultima sezione della raccolta si intitola Tetro entusiasmo, una espressione che viene da Dostoevskij (come spiega il commento di Siti). Ed è ancora una volta una voce doppia, dal momento che riprende e ritraduce la “disperata vitalità” di dieci anni prima, quella che Pasolini aveva desunto da Longhi (guarda caso: il saggio sui manieristi) per intitolare uno dei suoi poemetti più belli e complessi, nella raccolta Poesia in forma di rosa. Il sentimento di “tetro entusiasmo” sta ora alla base della scelta dell’autore. Dove appunto si uniscono due forze contrapposte, una che spinge verso la fine, verso la morte, e una che invece va a cercare l’origine di nuova energia vitale. Gli insegnamenti donati al giovane Fedro sono il concentrato delle idee di Pasolini sulla difesa dei valore della tradizione, qui naturalmente amplificati, e espressivamente rafforzati dal fatto che molte espressioni sembrano ricalcate su versi dei Cantos di Ezra Pound (un autore che Pasolini assume come nuovo “padre”, nel momento in cui anche i nemici della neoavanguardia lo stavano consacrando). Pasolini ha già elencato questi insegnamenti, questa specie di nuovo decalogo, alla fine di un’opera teatrale che non riesce a concludere, Bestia da stile, dove cerca di raccontare, sotto una forma nuova, la propria vicenda di poeta, utilizzando la maschera di Jan Palach, il giovane ceco che si era dato fuoco per protesta contro i russi durante la primavera di Praga. Questo stesso decalogo, Pasolini legge nella conferenza che tiene a Lecce il 21 ottobre 1975 (dieci giorni prima di morire) e che esce col titolo Volgar’eloquio. Dunque sono una vera e propria ossessione di Pasolini in questi mesi, e rimbalzano in luoghi diversi, dal teatro alla poesia all’intervento pubblico di fronte a giovani studenti. Ancora una volta, la voce vera di Pasolini qual è? Qual è l’accento da dare a queste parole? Pasolini consiglia al ragazzo di difendere il passato (i paletti che vengono utilizzati per delimitare i terreni, i casali di campagna, gli Dei dei campi), cioè tutti i valori che appartengono a quel mondo agricolo che ormai non esiste più. Come li deve difendere, il ragazzo di destra? Non nella realtà – credo – ma proprio nel sogno, nell’immaginazione, nella volontà di non dimenticarli (la sua camicia grigia diventa appunto la camicia “del sonno”, cioè il segno di chi sta dormendo e sognando). Deve fare del suo sogno l’origine di una vera rivoluzione. Tutto questo, i padri, cioè la generazione precedente, lo hanno cancellato, cercando altre vie, altre soluzioni. Invece – afferma Pasolini – la Repubblica (cioè la nuova Polis che dovrebbe sorgere) deve stare “dentro, nel corpo della madre”. Da questo luogo santo deve nascere una nuova idea di comunità, una comunità che non sia più “borghese” (cioè paterna, dominata dall’unico ideale del progresso) ma materna, cioè comprensiva di tutto quello che i borghesi tendono a lasciar fuori: “ama i poveri, ama la loro diversità”. Il corpo della madre è la Tradizione, e dentro la Tradizione si collocano gli esclusi con i loro corpi e le loro voci, i dialetti che ogni giorno rinascono diversi (il volgar’eloquio di cui Pasolini parla con gli studenti di Lecce).
Il gesto più esplicito di questo congedo Pasolini lo compie alla fine, quando ormai ha elencato al ragazzo quali sono gli impegni che gli chiede. Hic desinit cantus, scrive Pasolini usando il latino della tradizione, che sembra improvvisamente riaffiorare sotto il friulano della poesia. Come una voce arcaica che non si è cancellata, ma risorge dentro un’altra voce arcaica, evitando con cura il ricorso a quell’italiano ormai medio che non consente più espressività poetica. E quando il canto finisce, il poeta afferra il suo sapere e lo porge al ragazzo, perché lo prenda sulle spalle. Se ne deve liberare. È un peso eccessivo per le spalle di un vecchio, e viene fuori la parola che definisce l’intera operazione letteraria di Pasolini: “scandalo”. Quel sapere è uno “scandalo”. Non per la sua consistenza o per la sua complessità. Già da tempo Pasolini denuncia il fatto che ormai il suo essere poeta ha perso di valore, che il suo aver accumulato ricchezza intellettuale ha la stessa orribile impronta dei borghesi che accumulano ricchezze materiali. Dunque anche il suo sapere di poeta è poca cosa, è materia ormai desueta. “Ciò che hai saputo hai saputo”, urla il verso di Shakespeare che dà titolo a un poema precedente. Ancor prima, Pasolini aveva identificato nel simbolo della rosa il dono di sapere ricevuto dalla madre. Ora, come Socrate vecchio, passa questo dono al ragazzo che lo odia (lo odia in quanto uomo di sinistra, lo odia in quanto il dono sarà difficile da accettare, e il peso da sopportare). Ma a Pasolini interessa soprattutto liberarsi di questo peso, deve farlo per riuscire nell’operazione di adattamento al presente, per “stare al gioco a cui non è mai stato”. Questo stare al gioco (accettare il presente per metterlo in gioco) spiega, contemporaneamente, le due opere impossibili, Petrolio e Salò, che andrebbero lette a partire di qui, come contenitori dell’ultimo sapere da rendere pubblico, da buttare sul tavolo da gioco con i propri rivali. La terapia necessaria sta nel mandar fuori tutto per potersi alleggerire. E l’aggettivo “leggero” diventa centrale negli ultimi versi della poesia, con un gioco di suoni che si ripercuotono nelle parole chiave: “lizèir”, “zint avant” (andando avanti), “sielzìnt par sempri” (scegliendo sempre), “zoventùt” (gioventù). Solo il volgar’eloquio può consentire quest’ultimo soffio poetico.
Rispondendo pochi mesi dopo aver composto la poesia a uno studente di Lecce, che intona un elogio della cultura popolare contro la cultura di massa borghese, Pasolini si mostra indispettito: perché quel ragazzo ha recitato quel “mea culpa della nostra coscienza piccolo-borghese?” perché ha utilizzato dei luoghi comuni (di origine pasolinana!) per difendere valori che ormai sono scomparsi? Pasolini ha di fronte un Fedro in carne e ossa. Ma anche in questo caso non accetta la soluzione più facile. Riapre il discorso. Contraddice quello che sembra appartenergli. Riscrive il testamento.
Marco A. Bazzocchi