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Pasolini: “Tutto è santo”. Tre mostre a Roma
«Guarda con attenzione in fondo a destra»: così mi invita Michele Di Monte, curatore di una delle tre mostre romane riunite sotto il titolo “Tutto è santo”. Questa, alla Galleria Barberini, si intitola “Il corpo veggente”, e ruota intorno all’idea di ricostruire lo sguardo di Pasolini: lo sguardo che si rovescia nell’immagine, l’immagine come centro del desiderio e quindi come fissazione dello sguardo.
E a destra dello schermo dove si proietta il frontespizio del saggio di Roberto Longhi sui “Fatti di Masolino e di Masaccio” (il saggio che fa da controcanto al corso universitario seguito da Pasolini nell’autunno inverno ’41-’42) compare una mosca. Musca picta, il tema della pittura barocca della vanitas. La mosca che indica il rovesciarsi del cibo nello sterco, il precipitare della forma nella materia. La mosca ricompare, qualche metro dopo (nella sala dedicata al “corpo popolare”) nei Mangiatori di ricotta di Vincenzo Campi, dove il tema del cibo funziona da polo d’attrazione per la fantasia sacrante-dissacrante della Ricotta, il film del ’63 che si apre con una tavola imbandita dove al centro convoglia luminosità candida proprio una forma di ricotta, circondata da frutta che sembrano dilatare e straniare il Canestro caravaggesco.
Di Monte ha lavorato con acutezza e intelligenza: non ha cercato i riscontri diretti dei fotogrammi pasoliniani, ma ha voluto scavare nei bordi delle immagini, là dove un particolare può far intravedere il buon Dio (o il buon Satana) come diceva Aby Warburg. Si inizia a osservare la Primavera di Botticelli a cominciare dalle involuzioni dei capelli attraversati dal vento, dai lembi delle vesti che ondeggiano. Così faceva Warburg, che poi, con movimenti di approssimazione progressiva, arrivava a leggere l’immagine. Ma lì, nei capelli, c’è già un occhio che desidera. E qui, nella fame dei mangiatori, c’è la fame atavica di Stracci, fotografato sul set mentre trangugia bocconi di ricotta, esattamente come quattrocento anni prima di lui facevano gli ignoti popolani di Campi.
La bocca piena è dunque una “formula di pathos”: gesto, contrazione delle mani, deformazione del volto. La ricotta è il cibo (il basso-corporeo) che desacralizza il set su cui si sta girando la crocifissione. Non a caso il pasto tribale di Stracci, che si dilata in una visione pantagruelica, avviene in una grotta, là dove non entra la luce che invece serve al regista per girare. La ricotta, cibo del popolo, può allora rovesciarsi in “ostia” desacralizzata con cui Stracci entra nel regno dei cieli, dove nessun padre in realtà può accoglierlo. E mentre Welles da sotto la Croce lo incalza a pronunciare la sua battuta, vediamo una mela che rotola sul tavolo del banchetto preparato per l’illustre produttore del film nel film. La natura morta perde la sua compostezza, la storia subisce un tremito.
Dunque si può “scartare” evitando di aggredire il film al cuore, là dove tutti guardano ai tableaux vivants ricavati da Rosso Fiorentino e Pontormo, e leggerlo con una suggestione che non tiene al centro il libro di Giuliano Briganti ma lo guarda indirettamente, con un’attenzione laterale, in tralice. Esattamente come secondo Garboli Longhi guardava i quadri, sempre di lato, come se li inclinasse davanti al suo occhio. Del resto Longhi spesso tralasciava la figura umana e andava verso le forme degli oggetti, i vuoti, le impostazioni dello spazio.
E qui, attraverso la presenza della fotografia (la riproducibilità tecnica), la mostra riesce a ravvicinare in modo esemplare una linea longhiana e una linea warburghiana, che forse possono anche convivere. Necessario è guardare nel modo giusto. E la fotografia, in quanto riproduzione, crea la vertigine di queste sale: opere d’arte originali e fotografie di fotogrammi o di scene che devono diventare film. Immagini di immagini. Raddoppiamenti narcisistici (qui si ferma il bel saggio di Andrea Cortellessa in catalogo). E sul fondo color “petrolio” di ogni sala i raggi visivi che si incrociano sono molteplici, creano una rete fitta che ricorda quella invisibile identificata da Michel Foucault negli sguardi che si incrociano nelle Meninas di Velasquez, proprio all’inizio di quel libro, Le parole e le cose, qui esposto insieme a tanti altri libri che costellano le sequenze visive.
Indicativo e magnifico è il gesto della giovane comparsa di colore che tiene sulle ginocchia il libro di Briganti sui manieristi, facendo intravedere (di sguincio) il Pontormo della Deposizione. Un cortocircuito fulminante, una folgorazione: il libro del colto regista (in senso duplice: Pasolini-Welles) tenuto in mano da un ragazzo a torso nudo che potrebbe essere uscito dal quadro stesso, e che infatti entra nel tableau cinematografico in sovrappiù rispetto alla pala originale. L’occhio del desiderio di Pasolini può posarsi sul corpo del ragazzo e contemporaneamente sulle immagini pontormesche. Come se ci fosse solo circolazione del desiderio, e il reale non potesse essere separato dalla finzione. “Aumento di vitalità” definiva Bernard Berenson l’effetto prodotto da un’opera d’arte. E l’immagine del giovane popolano trasfonde vitalità nel libro, che a sua volta viene rivitalizzato nel film.
La ricotta e la natura morta, la mosca che non c’è nel film ma proprio perché non c’è costituisce l’inconscio della scena può indicare la prima pista con cui attraversare le cinque sezioni della mostra. Vanitas potrebbe essere il titolo ideale che tiene insieme trasversalmente questa complessa serie di “nature morte” sotto forma di fotografia.
Quando si entra nella stanza delle croci però si capisce che c’è un secondo motivo figurale, ed è proprio quello della formula di pathos connessa alla crocifissione. Croce come postura del corpo, croce come struttura della pagina scritta, croce come soglia di passaggio tra vita e morte, nodo che lega insieme in figlio e il padre. Pasolini pratica infinite varianti del motivo: Ettore sul letto di contenzione, Stracci morente per indigestione, Cristo stesso, la croce rudimentale nel sacrificio iniziale di Medea, di cui resta una foto con Pasolini che si mette in croce. E poi, nella raccolta Poesia in forma di rosa, Il libro delle croci, che potrebbe risalire, come notò Padre Giovanni Pozzi, alla poesia figurata secentesca, qui rappresentata da una pagina di Venanzio Fortunato (citato da Pasolini stesso nel suo dramma Nel ’46). E si potrebbe arrivare alla croce-ruota delle visioni di Carlo in Petrolio, ispirate a lacerti junghiani.
Con molta accortezza questo “corpo visione” può essere allargato a documenti antropologici veri e propri, quando è la fotografia ad accompagnare le parole in funzione allora sussidiaria (almeno così pensava Ernesto de Martino) ma oggi portata al centro dell’attenzione. Non a caso la sezione del pianto viene chiamata “il corpo cordoglio”, con la ripresa del concetto di De Martino stesso. Le foto di Franco Pinna del Mandrione precedono di pochissimi anni il servizio fotografico che Cartier-Bresson realizza con Pasolini inquadrato sui luoghi stessi che entrano nei suoi romanzi romani (ne parla la mostra friulana “Pasolini sotto gli occhi del mondo” curata a Villa Manin di Passariano da Silvia Martìn Gutierrez).
L’autore si iscrive così nei luoghi, il suo corpo prende consistenza attraverso le mura popolari e i tuguri, con gente che si muove dietro di lui, fantasmi di un sottoproletariato destinato a sparire. Fotografie come quadri, quadri di secoli passati che innescano processi memoriali attraverso la loro riproduzione tecnica: la memoria funziona sempre in due sensi, e affiorano così quelle che Didi-Huberman chiama le “anacronie” che spezzano le continuità della storia dell’arte.
Dunque Pasolini è un autore auratico e insieme non auratico? Usa le riproduzioni per ritrovare sacralità nelle immagini e nello stesso tempo desacralizza le immagini riducendole al grado zero dei modelli reali? Di qui a pensare a un Pasolini che rinveste con la propria discesa a Roma la mossa di Caravaggio (come sosteneva Garboli) il passo è breve. Ma la mostra ci fa capire che tutto avviene attraverso un gioco di simulacri che si corrispondono. Così, come spiega Cortellessa, il corpo di Pasolini che a Chia si inchina sui disegni del profilo di Longhi è una ripetizione del corpo di Narciso che si inchina sul fonte (Caravaggio o Spadarino non importa).
E a pochi metri da Palazzo Barberini, alla GAM, possiamo anche vedere il pastello del ’47 dove Pasolini rifà Narciso, con colori espressionisti, linee esasperate, contorni che si incidono sulla carta. “Pasolini pittore”, l’esposizione curata da Claudio Crescentini, Silvana Cirillo e Federica Pirani, crea un percorso che a ragione può essere dedicato a un “pittore”, cioè a un autore che ha praticato, lungo tutta la vita, un particolare gusto per la creazione di immagini con materie povere, con colori ricavati dalla natura, con le dita che strisciano le carte. Se De Pisis e Carrà sono i suoi modelli, la sua riduzione di una lingua pittorica ufficiale a “dialetto” è lampante.
Quasi commovente vedere i disegni giovanili sul cellophane che anticipano le tecniche artistiche del figlio Pietro in Teorema, quando la pittura diventa l’ossessione che insegue, strato su strato, l’azzurro degli occhi dell’ospite. E Di Monte mi fa notare che nella famosa sequenza in cui l’Ospite e il figlio sfogliano il libro con le immagini di Francis Bacon quel libro, tenuto in grembo da Terence Stamp, ha uno spessore che non può corrispondere al volume originale esposto in mostra. A Bologna invece, nell’esposizione “Folgorazioni figurative”, dove pur c’era lo stesso libro, si è preferito creare un gioco di dissolvenze visive per cui i corpi dei personaggi del film lentamente prendevano la forma fantasmatica delle figure disumane di Bacon.
Tutto è santo, niente è naturale: la frase del centauro Chirone rivolta a Giasone è il ritornello che si sviluppa lungo tutte le esposizioni romane, declinato in varie accezioni. A Palazzo delle Esposizioni lo sguardo di Pasolini sulla realtà (lo sguardo del desiderio) si ribalta nello sguardo della realtà su Pasolini. La voluttà di essere mangiati: una frase scritta da Pasolini sul “Tempo” potrebbe fare da guida alla mostra “Il corpo poetico”, che aggrega documenti cartacei (giornali, stampe, copertine di dischi, e tante fotografie) accompagnandoli da una “banda” sonora costituita dalle dichiarazioni di Pasolini stesso.
Questa incarnazione di Pasolini nei documenti che parlano di lui (lo attaccano, lo offendono, lo dileggiano, oppure al contrario ne fanno emergere una bellezza di pensiero e di corpo) risuona con l’incarnazione multipla della Galleria Barberini. Qui vediamo un “montaggio” che ricorda il film documentario La rabbia, con ritagli che sembrano aggregarsi in un gigantesco, abnorme, corpo dello scrittore prodotto dall’industria culturale, che lo aveva fatto a pezzi e distorto esattamente come avviene al poeta che si sottopone, nel poemetto Una disperata vitalità, allo sguardo infido della giornalista che lo sta interrogando, definita non a caso “il cobra col biro”.
Dopo Vanitas e Croce è infatti Incarnazione la terza parola chiave che circola attraverso i corpi veggenti/poetici delle esposizioni romane. Incarnazione implica l’atto del toccare. E infatti ecco il Cristo che mostra la ferita nel costato dello Spadarino che domina nella sala del “corpo epifanico” (sempre Barberini). Di fianco, ironicamente e in modo irriverente, una foto di Angelo Pennoni dal Fiore delle Mille e una notte, dove una ragazza allunga la mano per toccare il sesso di Nurredin. Tattilità erotica, arcaica, gioiosa, che fa da controcanto alla scena inquietante del Cristo che tocca se stesso. E che a sua volta risuona con la foto di Roberto Villa (sempre dalle Mille e una notte) dove una giovane donna sembra piegarsi amorevolmente sul corpo nudo dello stesso ragazzo.
Gli sbandamenti dell’occhio sono continui, il gioco delle corrispondenze appassionante. Sempre stando ai lati dell’immagine, e non nel centro, Di Monte mi indica il ragazzo seminudo, steso, che accarezza un gatto rosso. Potrebbe esserci dietro il ragazzo nudo con il gatto di Lanfranco? Siamo nei Racconti di Canterbury. Lo stesso gatto compare in braccio a Pasolini-Chaucer che scrive, nello studiolo, la parola fine al suo libro di racconti: “raccontati per il solo piacere di raccontare. Amen”. Il desiderio circola così, da un frammento all’altro di immagini riprodotte. Così ritornano a parlare, coagulano e costruiscono decine di racconti diversi.
E allora, forse, l’ultima parola in questo “tour” di quadri e fotografie potrebbe essere transustanziazione, parola sacra che Pasolini usa proprio a proposito della trasformazione di un corpo vero in un corpo riprodotto, diventato cioè desiderio. La materia si innalza nell’immateriale, e l’immateriale prende corpo nella materia. Così si costruisce lo sguardo dei due burattini Totò e Ninetto, che scoprono le nuvole nel momento in cui, morti, sprofondano nell’immondezza. Lo stesso gesto compie Pasolini pittore quando prende la materia (il gesso, il vino, l’erba) e la trasforma nei profili della Callas, di Zanzotto o di Longhi esposti alla GAM, dove si intravede, negli anni settanta, un Pasolini attratto dalla serialità delle immagini, forse proprio sulla scia dell’attenzione che presta, in limine, ai ritratti delle Drag Queen esposte a Ferrara nel 1975.
I corpi, attraverso la transustanziazione, prendono uno statuto diverso sia dalla carne che dall’immagine. Diventano pellicole su cui scorre il desiderio, e come tali sono inconsumabili. Il movimento opposto avviene invece nelle fotografie giornalistiche che inseguono spasmodicamente il volto di Pasolini, quelle che vediamo a Palazzo delle Esposizioni, dove si tenta di ancorarlo al presente, di farne un oggetto da consumare. “Fotogramma” era il termine usato da Longhi per definire l’operazione di Caravaggio. E Pasolini, nel suo saggio più bello, parla del “diaframma luminoso” che fissa le figure caravaggesche alla eternità, “come appese a uno specchio cosmico”. La pittura antica è una anticipazione figurale del cinema, il cinema diventa film attraverso la sacralità della tecnica che consente sopravvivenza alle immagini. In questo lungo rimbalzare del desiderio dagli occhi alle immagini “tutto è santo”.