Sacro

10 Novembre 2022

Il termine “sacro”, o meglio “il sacro”, attraversa tutta l’opera di Pasolini. Forse potremmo anche ipotizzare che tutta l’impalcatura di quest’opera, o tutti i concetti che la sorreggono, possano essere riconducibili a versioni diverse e cronologicamente differenziate del “sacro”. 

Provo a ipotizzare una tipologia:

1. Il termine “sacro” come attributo esplicitamente presente nella poesia, dalle Ceneri a Trasumanar. “Sacro” in questo caso specifica una condizione di distanza dell’autore da un oggetto da lui osservato con attenzione ma a lui esterno. Anche se non nominato, il sacro caratterizza un fenomeno esterno, una condizione carnale (creaturale) tipica di un mondo ancora primitivo e alle soglie della Storia. Si crea così un’opposizione: chi è nel buio della Storia, cioè fuori da essa, ha ancora in sé tracce del sacro, chi è nella luce della Storia è già fuori dal Sacro. In questo caso “sacro” è molto vicino ad arcaico, a “barbaro”. Quest’ultimo termine, dirà Pasolini, è uno dei più cari del suo universo lessicale (come per la Morante). 

Esiste anche una versione simmetrica e opposta a questa, e si fa luce pressappoco agli inizi degli anni sessanta, quando Pasolini scrive le “Poesie mondane” sul set di Mamma Roma. Il poeta immagina un film da fare dedicato a un santo medievale dal nome Bestemmia. Nello stesso momento, con un velocissimo passaggio, ipotizza la sua condizione di corpo morto nel futuro, quando i suoi detrattori, che a loro volta sono “morti” (privi di un valore vitale) nel presente, non ci saranno più. In questo futuro il suo corpo ridotto a scheletro avrà ancora una vita grazie all’intensità del suo amore presente. L’amore perdura al di là della morte (un motivo che viene dalla lettura di Foscolo). Dunque il suo corpo morto sarà “sacralizzato” in absentiam, la sua “sopravvivenza” sarà “sacra”.

2. Il “sacro” come particolare emergenza di porzioni della realtà (in particolare facce, corpi) rappresentati nel cinema di PPP, in forme diverse e con modalità diverse. In questo caso “sacro” non è più un fenomeno linguistico ma è transitato nella forma dell’immagine: la macchina da presa è lo strumento che può trovare il sacro, coglierlo, trasmetterlo. Pasolini ha scelto il cinema soprattutto per questo: grazie alla tecnica può trovare nel mondo ciò che la tecnica sta distruggendo.

3. Il sacro in quanto fatto esplicitamente erotico, o genericamente sessuale. Fin dall’inizio della sua attività di scrittura, Pasolini individua in un ricordo infantile il rapporto tra sacralità e desiderio sessuale. In particolare, è una parte del corpo maschile, l’incavo interno del ginocchio, che Pasolini definisce con un’invenzione linguistica che poi si porterà dietro per tutta la vita: teta veleta. Questa invenzione viene da lui poi ricondotta a una improbabile radice greca del termine “tetis”, che viene usata fino a Petrolio per indicare la sessualità senza freni, un desiderio puro e quasi impossibile. Tetis porta nel presente la forza mitica di Eros, è un amore ricondotto al corpo e al sesso. O anche alle origini della vita.

Questa accezione inizia con il film-libro Teorema, dove un giovane senza nome, l’Ospite, compare in una famiglia borghese e la distrugge attraverso il desiderio sessuale. Pasolini scrive esplicitamente: “il sesso sacro dell’Ospite”. Qui il sacro, che pur è scomparso dal mondo borghese (almeno nell’accezione che abbiamo visto per prima) ritorna fuori come forza non elaborata né cancellata, una forza incontrollabile e brutale che può distruggere ma che è collegata alle origini dell’esistenza, e che può riemergere al di là delle trasformazioni irreversibili di una società neocapitalistica. Il discorso di Pasolini sull’aborto non si può capire se non si capisce il suo difendere la sacralità del coito contro la tolleranza imposta dal nuovo potere. 

Procederò cercando di illustrare questi tre aspetti, in realtà profondamente innervati l’uno nell’altro.

Il rapporto tra parola e immagine è fondamentale. Possiamo estendere a tutto Pasolini l’affermazione che lui fa intorno alla parola scritta in una sceneggiatura, definendola “struttura che vuol diventare un’altra struttura”. Dunque le parole poetiche sono sempre, a iniziare dal friulano, una forma espressiva che però tende fuori da se stessa, è spinta verso l’esterno, vuole diventare un’altra cosa. Questo procedimento fa delle parole forme che portano in sé il buio di un’origine profonda, non distinta, e si protendono verso la luce. Non si tratta solo di un’acquisizione di senso ma di un’acquisizione di visività. Il valore di ogni parola poetica è espressivo e performativo, con vari livelli a seconda delle epoche. Forse è più espressivo nelle prime raccolte e a mano a mano diventa sempre più performativo. 

Lo stesso avviene per il sé di Pasolini, un sé corporeo che prende forma solo attraverso un mezzo di contrasto capace di mostrarcelo mentre sta sdoppiandosi in un altro sé. Pasolini non è mai intero, non sta mai dentro un confine, ma è sempre diviso tra lo star dentro e lo star fuori. Pasolini – come dice una famosa intervista rilasciata a Jean Duflot – è “uomo-centauro”. I quattro grandi centauri della letteratura italiana sono Machiavelli, nel mondo antico, Pavese, Primo Levi, Pasolini nella letteratura moderna. “Centauro” significa per ognuno di loro una cosa diversa, e Pasolini in un certo senso li concentra in sé tutti e quattro attraverso una serie di opposizioni: il bestiale e l’umano, il razionale e l’irrazionale, il pensatore e il poeta. Nel film Medea Pasolini mette in scena un centauro, Chirone.

Questo centauro insegna al giovane Giasone, da lui allevato, che “tutto è santo”. Non esiste cioè niente di realmente naturale ma ogni aspetto del mondo nasconde una presenza divina. Ma Giasone non impara. Per questo andrà a rubare il vello d’oro là dove c’è ancora una cultura sacra, barbarica, e per riuscire nella sua impresa sedurrà la maga Medea. Medea, portata da Giasone nel mondo della razionalità (Corinto, il mondo greco) perderà il suo potere. Giasone è un distruttore del sacro. Ma quando il sacro risorge, e Medea riacquista il suo potere di maga, la forza terribile del sacro si esercita sui figli da lei avuti da Giasone, che lei stessa uccide per gettare Giasone nella sofferenza e nella solitudine. Dunque l’intero film è un mito che mette in scena l’allegoria del mondo moderno: perdita del sacro, e possibilità di rinascita del sacro. 

Torniamo ora sulla parola poetica, con un esempio dai poemetti delle Ceneri. Il poemetto L’Appennino è costruito secondo una tecnica che usa il sacro sia come involucro che come contenuto. L’involucro è costituito dalla statua di Ilaria del Carretto, giovane morta dormiente, come Silvia, e contenuta nella Cappella di S. Lucia a Lucca. Ilaria è un fantasma di marmo, per Pasolini un corpo addormentato che contiene in sé la notte italiana del centro sud. È un corpo-cripta, ma anche un corpo-paesaggio. Dietro le palpebre di Ilaria Pasolini vede l’apparire del sacro nella sua forma storica e a-storica: Ilaria è stata nella storia, la sua statua lo è ancora, ma per Pasolini è attraverso gli occhi di Ilaria, che sono rovesciati nel buio, che lui riesce a scorgere il popolo che vive nel buio di una notte italiana. Questo popolo è proteso verso l’attesa di una luce, cioè di una redenzione che lo porti dentro la storia, ma ancora non lo è. Il corpo umile dei pastori dell’appennino è incastonato nel fango e negli escrementi, è un corpo-escremento, un corpo che deve ancora liberarsi dalla sua condizione impura ma sacra: là dove c’è animalità c’è anche sacro.

Questo mi sembra abbastanza chiaro. Però consideriamo che Pasolini può parlare del sacro solo “attraverso” la forma compiuta del poemetto che mette in scena la postura corporea di Ilaria dormiente. Si tratta di una forma artistica, un capolavoro dell’Italia del ‘400. Il marmo lavorato con la finezza di un ricamo è l’esatto opposto della materia di cui è fatto il corpo popolare. Una materia bassa, non nobile, eppure messa al centro di un’attenzione costante: il fango, le feci, gli stracci, gli odori sgradevoli. Questo è l’universo sensoriale delle Ceneri, che appunto evocano nel titolo un corpo putrefatto e nobile nello stesso tempo, il corpo di Gramsci. La statua di Ilaria e il cippo funebre di Gramsci hanno la stessa funzione. Sono segnali di una sacralità che è nascosta in un mondo non più praticabile ma visibile grazie alla loro presenza fisica. Sono residui di vita ma anche conservatori di vite. In loro si incarna ciò che è destinato a scomparire, la “forza del passato”, dirà Pasolini, cioè il passato come forza e come sopravvivenza. L’ombra che ci fa, che ci rende noi stessi, dice James Hillman.

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Passiamo alla prima immagine del primo film, Accattone. Si tratta di un viso, brutto: è Scucchia che parla in romanesco reggendo un grande mazzo di fiori sotto braccio, lanciando una frase ironica su un gruppo di uomini che stanno oziosi ai tavoli di un bar. Questo volto è un’immagine, cioè la realtà come la intende Pasolini. La realtà fissata dalla macchina da presa quindi resa immobile, eterna, dalla luce e dall’ombra, dal loro rapporto che divide e spacca in due l’immagine. Un’immagine che esce dalla realtà, si trasforma in qualcos’altro. Questo qualcosa è il “sacro”. Il “sacro” che si distribuisce tra due mondi, che cerca di svincolarsi dal buio tendendo verso altro.

Tutto Accattone è il racconto di una forza del sacro che si muove tra le borgate, che si incarna in alcuni corpi, come in quello di Vittorio, creando conseguenze tragiche e comiche, cioè spingendo verso il basso o verso l’alto. Ogni volto, in Accattone, ogni gesto, ogni frase è sacralità. Non c’è un confine che divida ciò che è sacro da ciò che non lo è. La morte è il passaggio della vita, e tutto il film è uno scorrere tra la vita e la morte, tra due mondi, tra due dimensioni che confinano ma non si mescolano mai. Accattone è colui che si muove tra i due mondi, o meglio in una fessura che sta tra una vitalità mortuaria e la morte vera e propria. 

Cerco di andare al di là di quest’ultima affermazione. Nel rapporto tra le immagini, nella costruzione di un singolo oggetto-film Pasolini individua la sacralità che tiene legati i due estremi della vita e della morte. La vita che compare in un film, cioè l’espressione della vita, il racconto in quanto energia del desiderio che sorregge una vita, si sviluppa al di sopra di uno strato arcaico di morte, uno strato non dicibile direttamente se non attraverso l’insieme delle immagini che noi vediamo nel film. Questo strato arcaico viene definito in un primo momento da Pasolini come “base onirica” dalla quale derivano le immagini del film reale. Il sacro è insito anche in questo strato profondo che si rende percepibile dall’insieme delle immagini. La morte è sempre immanente su quanto si svolge alla superficie del racconto. 

Pasolini ha offerto varianti continue di questo contrasto. Nei tre film mitologici, il contrasto si incarna sempre nel passaggio tra una situazione di anomalia, un breve periodo di stasi e poi l’improvviso presentarsi di un esito catastrofico, dove resta aperta una debolissima possibilità di redenzione. 

Edipo scopre il segreto della sua vita, la madre Giocasta si uccide, lui si acceca ma un piccolo residuo di salvezza si incarna nel flauto grazie al quale l’uomo esecrando può ricodificare il suo scandalo in alcuni luoghi oltre il tempo, i luoghi che fuoriescono dal passato mitico e portano in scena il presente. In questi tre luoghi (il centro di Bologna, una fabbrica, il prato dell’allattamento iniziale) il sacro è stato rielaborato e convertito nella condizione della poesia e del sogno: Edipo ritrova grazie al flauto ciò che sembrava aver perduto accecandosi.

Il caso di Medea lo abbiamo già visto. Con Orestiade africana il sacro prende un nuovo aspetto. Oreste si incarna in un giovane africano che si svincola dai rituali tribali e dopo avere vendicato la morte del padre si avvia a un’educazione moderna, liberandosi dal peso della colpa. Nel mito antico la colpa è rappresentata dalle figure delle Furie, che perseguitano Oreste come la proiezione esteriore collegata al matricidio di Clitennestra. La dea Atena aiuterà Oreste a vincere l’assalto delle Furie. Un tribunale di cittadini lo dichiarerà innocente.

In questi tre film Pasolini ha affrontato il sacro riprendendone tre forme di affioramento: la colpa di Edipo, la vendetta di Medea, la redenzione di Oreste. Si tratta di tre racconti mitici. Lo stesso racconto mitico sottostava al Vangelo secondo Matteo. Il tema è lo stesso: cosa avviene quando un essere umano si trova a superare i limiti dell’umano stesso, spingendosi in un territorio dove non esiste ancora una Legge? 

Edipo diventa re di una polis aggredita dalla peste ma poi si ritrova a essere lui stesso la causa del ritorno della peste. In lui si incarna la salvezza che poi si ribalta in un secondo peccato, ancora più terribile. A questo punto Edipo si è spinto al di là dei limiti dell’umano, in quella che Pasolini chiama “anomia” cioè il terreno dove non c’è più legge. Edipo diventa esecrabile, deve lasciare Tebe e cercare un luogo di redenzione. 

Medea incarna in modo ancor più evidente il conflitto. Rinnega la propria religione, offre a Giasone il vello d’oro, cioè il centro sacro su cui ruota il mondo arcaico a cui lei stessa appartiene. Usa poi la sua forza per uccidere il fratello Apsirto, le cui membra vengono disseminate per fermare l’esercito che insegue lei e Giasone. Arrivata in un nuovo mondo, dove non ci sono più regole sacre, Medea perde se stessa, diventa una donna temuta e costretta a vivere fuori dalle mura di Corinto, la città della Legge e della ragione, di cui Giasone diventerà re sposando la principessa Glauce. Medea a questo punto vive una riconversione religiosa e viene di nuovo posseduta dalle forze mitiche del Sole, che le danno la forza per compiere il terzo omicidio, dopo quello della vittima sacrificale e del fratello, l’omicidio dei figli.

Ora Medea è di nuovo una creatura sacra, nessuno la può toccare. Nell’inquadratura finale il volto della Callas è scontornato dalle fiamme che bruciano la sua abitazione. Il fuoco rappresenta la forza mitica che si è impossessata di lei rendendola di nuovo maga e togliendole il ruolo di madre o di moglie. Il sacro si ripresenta nel momento in cui il film finisce. Ma l’intero film è un insieme di membra disseminate e tenute insieme dalla tecnica del montaggio. Il corpo di Giasone, nella sua interezza erotica può essere osservato solo in pezzi che il montaggio tiene uniti. Il corpo di Medea è un insieme dominato dalla passione amorosa e dalla rabbia vendicativa. Il sacro non può essere concepito nel mondo della razionalità. Se ricompare provoca disordine. E dopo il disordine?

Pasolini si interroga sullo stesso nucleo mitico trasportandolo anche nel mondo borghese moderno, attraverso l’allegoria di Teorema. In Teorema il sacro si incarna nel sesso dell’Ospite, cioè in un potere dionisiaco o diabolico che porta il vuoto là dove sembrava esserci coesione. La bellezza dell’Ospite scatena nei borghesi il desiderio senza freni che li fa entrare nello spazio anomico del deserto. Il deserto rappresenta nel film e nel libro lo spazio aperto prodotto dall’emergere del sacro. Ma il deserto è anche, biblicamente, lo spazio uniforme dal quale gli ebrei e San Paolo ricavarono l’immagine di un Dio onnipotente e di una Legge voluta da questo Dio.

Il deserto è dunque uno spazio reversibile: può produrre l’idea di un Dio Padre ma anche accogliere la fine di questa idea. La Legge di un Dio Padre: Pasolini immagina che questa Legge sia scardinata da un dio figlio, l’Ospite, colui che possiede tutti coloro che si credevano in possesso di un’identità, cioè i borghesi. Per questo, alla fine del film, vediamo il Padre che cammina nudo nel deserto e urla. Si tratta, come per Edipo e per Medea, dell’ultimo effetto del sacro sull’uomo. E per ogni personaggio il sacro interrompe un destino, lo ferma sull’orlo della sparizione. Ma, almeno in questo caso, Pasolini pensa che questo urlo possa annunciare una riapertura del tempo della storia, o forse di una nuova storia. Una nuova storia d’amore che possa legare di nuovo i padri ai figli. Ma non sappiamo cosa potrà avvenire. Non c’è una nuova Legge.

La nuova Legge compare invece in Orestiade africana. Qui il sacro è a un livello di assoluta primordialità. Pasolini lo vede incarnato nei secolari baobab africani o nella pigra digestione di una leonessa. Le Furie sono esseri della natura. E come tali non sono dominabili. Sono prima del tempo. L’unica possibilità è che l’uomo riesca a trovare uno spazio adatto per collocarle all’interno della polis. Lo spazio da cui il loro effetto sarà riconvertito, da Furie a Eumenidi, da Erinni a Benevole.

Pasolini conosce molto bene questa ipotesi sull’origine della civiltà, fin da quando ha tradotto Eschilo nel 1960. Ha letto con attenzione i testi di ispirazione marxista (Thompson) dove si spiega il passaggio voluto dalla dea Atena, che è una dea femminile ma anche maschile, in quanto prodotta dalla mente di Zeus. Atena è una divinità dei passaggi, del transito verso la vita, la dea del parto. In quanto vergine, in lei non c’è pietà femminile ma un elemento freddo e razionale. Non è una divinità pasoliniana ma Pasolini non può ignorarla: è l’aspetto del femminile che contiene in sé il maschile, e non ha caratteri materni. La storia inizia quando Atena colloca le Furie nella Polis. Le rende cioè figure che la mente umana può concepire senza terrore. Per Pasolini questo è l’unico modo in cui la Storia può progredire: tenere vicino il sacro, sapere che c’è, che può ritornare, non ignorarlo né tanto meno annullarlo.

Nella tragedia Pilade (una allegoria politica che descrive l’Italia della modernizzazione) Pasolini immagina una variante ulteriore del mito, cioè che le Eumenidi possano ritornare ad agire come Furie, portando le forze rivoluzionarie dentro la città e creando disordine. In questa tragedia a provocare il disordine è proprio Pilade, l’amico fraterno di Oreste, il suo doppio, colui che lo accompagna nell’intera avventura ma poi si sottrae a lui. Pilade è il “diverso” da Oreste, la sua parte oscura, quella che rifiuta l’adeguamento alla Legge. In quanto diverso, Pilade proclama l’esigenza di un ritorno al passato per la polis che si sta trasformando, mentre Oreste vorrebbe applicare le regole della nuova dea, di Atene. 

C’è un legame intenso tra Atena, dea della luce, e Oreste, che a causa di quella luce non riesce a vedere nel buio della sua origine, cioè nel ventre materno, là dove lui ha esercitato la sua vendetta. Dunque Atena lo ha aiutato ma nello stesso tempo lo ha reso cieco. Atena ha eliminato la forza del sacro dal suo destino, ha ricollocato le Furie nei luoghi da dove non riescono più a produrre danni alla città. Per questo, alla fine della tragedia, Pilade rinnega Atena, rifiuta la forza consolatrice della Ragione. La Ragione può produrre un blocco storico, può rivelarsi una restaurazione. Diventare cioè una giustificazione per chi vuole un progresso senza la presenza del sacro. Qui Pasolini pensa a un potere di sinistra miope, che non riconosce l’irrazionalità e l’oscurità, che non capisce l’azione del sacro. «Va nella vecchia città la cui nuova storia non voglio conoscere»: così dice Pilade ad Atena. E maledice ogni Dio, ogni forma di Dio incarnato. 

Ma può esistere ancora il sacro? 

Credo sia necessario risalire all’enunciazione del sesso sacro dell’Ospite, cioè al momento in cui Pasolini crea l’ipotesi che sia possibile una forma d’amore diversa che ancora deve mostrarsi. Un amore che si crea dopo la distruzione, attraverso la distruzione. Un amore che fa i conti con il sacro. Ma che non necessariamente si manifesta tragicamente. Penso che Pasolini andasse verso la direzione di un oltrepassamento del tragico che implica proprio una nuova forma di erotismo, liberandosi dall’eccesso di densità e di implicazioni che avevano accompagnato la sua vita di autore. 

Ma se non ci può essere conciliazione, Pasolini rimane “centauro”, o meglio il suo pensiero resta sempre duale, mai dialettico, allora non possiamo considerare mai concluso il suo rapporto con le Furie. Per questo Pasolini è anche Edipo, che ritrova nell’origine del canto l’esile speranza della salvezza, è Pilade, che va al di là della religione di Atena per capire quanto Atena ha nascosto sotto la sua Ragione maschile. Spinto da questa forza, egli si pone sempre sul confine tra due mondi, là dove la luce si distacca dal buio, là dove si esce da un sogno per cadere nel risveglio. Là dove la ragione cerca di circoscrivere le zone del sacro, di riconoscerlo, di renderlo visibile e praticabile attraverso parole e immagini.

Venti incontri, venti parole, venti biblioteche, venti oratori, venti podcast: cento anni di Pasolini. Un ciclo di incontri e di testi affidati a scrittori e esperti per attraversare l'immaginario pasoliniano, un progetto Doppiozero in collaborazione con Roma Culture. 

L’incontro di mercoledì 11 novembre sarà con Marco Antonio Bazzocchi, presso la Biblioteca Laurentina di Roma alle ore 11.  Qui il programma completo.

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