Speciale

Intervista. Se nasci in un piccolo paese sei fregato

19 Settembre 2015

Sono trascorsi quarant’anni dalla notte tra il 1° e il 2 di novembre in cui Pier Paolo Pasolini è stato assassinato a Ostia, un tempo lungo e insieme breve. La sua figura di scrittore, regista, poeta e intellettuale è rimasta nella memoria degli italiani; anzi, è andata crescendo e continua a essere oggetto di interesse, non solo di critici e studiosi, ma anche di gente comune. Pasolini è uno degli autori italiani più noti nel mondo. In occasione delle celebrazioni promosse dal Comune di Bologna, dalla Fondazione Cineteca di Bologna, e all’interno del progetto speciale per il quarantennale della morte, che si articola in un vasto e ricco programma d’iniziative nella città dove Pasolini è nato e ha studiato, doppiozero, media partner, ha scelto di realizzare uno specifico contributo. Si articola in tre parti. Proseguiamo oggi con la prima: la pubblicazione d’interviste disperse, o poco note, di Pasolini con giornalisti, critici, saggisti italiani e stranieri.

 

 

Se è possibile scrivere un capolavoro? È sciocco chiederselo. Il problema non esiste. E comunque, chi potrebbe saperlo?

È una domanda pretesto. Considerala come un punto di partenza. D’altra parte è pur vero che si scrivono molti libri tutti abbastanza modesti. Come mai?

Un piccolo Paese non può dare un grande scrittore. Lo ha detto Goldmann.

 

Tu sottoscrivi?

Sì. Ogni libro è in rapporto al suo background culturale. Se questo è mediocre anche il libro lo sarà. Possono esserci delle eccezioni, è vero, ma allora si tratta di persone culturalmente apolidi, che vivono in Italia e scrivono in italiano per combinazione. Scrittori che hanno un taglio europeo, cresciuti in un circuito culturale più vasto. L’Italia è una piccola nazione, meschina. Lo ripeto: non può dare un grande libro.

 

Ma chi ti obbliga a vivere nella meschineria del tuo Paese? Puoi benissimo restare in Italia in ‘terra di pipe’, come si dice, e infischiartene della sua cultura, del suo ambiente, dei suoi problemi, e della sua società letteraria. Certo che se invece di osservare la realtà e la vita, vivi in mezzo alle chiacchiere dei letterati, sei per forza condizionato dalla cultura, chiamiamola così, del tuo Paese.

Certo, ci si può estraniare. Ma in Italia questo è stato possibile solo dopo la Resistenza. Prima si viveva in un mondo chiuso, provinciale, fortemente condizionato da un regime poliziesco, da un costume piccolo borghese; non ci si poteva muovere: oggi puoi stare con un piede a Parigi e con un altro a New York, respirare un’aria più vasta… Prima uno scrittore italiano, era necessariamente italiano, e quindi condannato alla mediocrità…

 

Non nego che sia molto meglio vivere a Parigi o a New York, piuttosto che a Roma. Oggi si viaggia molto più facilmente di prima. Ma non è certo che prima della guerra si vivesse all’oscuro di quello che accadeva fuori. Si era abbastanza informati. Tutti i miei amici a vent’anni avevano già letto Joyce, Lawrence, Proust, Kafka, Freud, Eliot, Eluard, Rilke, Trakl, Heidegger, Jaspers, ecc. Tale e quale come ora. Forse con maggiore serietà. C’era allora chi credeva che la ‘Ronda’ fosse stata una gran cosa. C’è chi è indipendente e chi è legato al gruppo. E se uno è gregario, o ha i paraocchi, lo resta anche se passa sei mesi all’anno a New York. Fra il Babuino e il Village non farei poi tanta differenza… Ma voglio farti una domanda. Dal momento che si dice che culturalmente si va in un’epoca di confusione, di crisi, o addirittura di sfacelo, non ritieni che sia un vantaggio viverne il più estraneamente possibile, standosene alla periferia, e che da questo punto di vista stare in Italia sia un privilegio?

Non penso affatto che il nostro sia un secolo culturalmente infelice. Al contrario, da Rimbaud a Pound, mi pare che sia un grandissimo secolo. Non ce n’è altri, che mi piacciano altrettanto, che abbiano prodotto opere così attraenti. Mai la letteratura ha circolato tanto, è stata così viva, come dalla seconda meta dell’Ottocento a oggi.
 

Ma si dice comunemente che si tratta di una produzione incoerente, priva di un denominatore comune come è stato per altre culture, quella romantica, o illuministica tanto per dare un esempio.
Anche il nostro secolo può essere culturalmente ben definito. Te ne posso riassumere con una parabola la storia. C’era nel mondo una società molto potente, decisa a conservare il potere con tutti i mezzi. Ma che cosa c’è di più colpevole che detenere il potere? È naturale perciò che la borghesia, è di lei che si parla, si sentisse in colpa. E quando uno si sente in colpa che cosa desidera? Desidera punirsi. La borghesia oppressa dal senso di colpa, voleva suicidarsi. E l’ha fatto. Ma indirettamente, colpendosi nella cultura, cioè nella ragione. La cultura borghese infatti era all’insegna della ragione; la ragione era era il grande mito della borghesia ottocentesca. Attraverso l’uccisione della ragione, la borghesia si è suicidata espiando la sua colpa, la colpa di detenere il potere.

 

Non ho mai pensato che chi comanda si senta in colpa. Al contrario, ho sempre avuto la sensazione che ne goda; il potere va alla testa di chi comanda, lo fa sentire importante, vivo.

E in questo suicidio la borghesia ha trovato anche il suo carnefice: Hitler. Hitler è stato il Dio dell’irrazionalismo. Tutta la poesia europea da Rimbaud a oggi è irrazionale.

 

In questo modo si mettono sullo stesso piano Rimbaud e Hitler, il simbolismo e il nazismo… Le idee mi si confondono.
La ragione, il culto della ragione è borghese.


Ma anche la civiltà greca è nazionalista, vuoi dire che era anch’essa borghese? Allora bisogna dire che tu intendi per borghesia la classe al potere. Se è così tutta la storia del mondo è borghese, da Atene alla Cina di Mao.

Le civiltà del passato erano religiose, non razionaliste. 

 

Tu contrapponi religione e ragione. Ma allora dove lo metti il cattolicesimo? Il cattolicesimo, nell’epoca della sua pienezza, quando si può parlare di una civiltà improntata da esso, il Medioevo, è una delle più grandi costruzioni razionaliste (basta pensare a san Tommaso) di tutta la filosofia occidentale.
Questo vuol dire che l’essenza religiosa del cristianesimo è stata razionalizzata dalla classe al potere.

Così tu pensi che la forza vitale della storia sia di natura religiosa e che la ragione sia lo strumento col quale le classi al potere piegano e utilizzano queste forze. Per un marxista è un’affermazione direi un po’ eterodossa. E la scienza?
Anche la scienza appartiene, nella sua essenza, più al mondo religioso che a quello della razionalità. Guarda lo scienziato. È un uomo religioso, non ha senso pratico, è disinteressato; è a suo modo un mistico, che supera, con l’intuito, con la fantasia, con la totalità del suo potere conoscitivo, la semplice ragione. L’errore della borghesia è di identificare l’intelligenza con la ragione, mentre essa è qualcosa di più.


Ebbene, noi viviamo in un’epoca scientifica; è la scienza oggi che domina nella cultura; si dovrebbe concluderne che viviamo in un’epoca religiosa…

No, perché oggi trionfa l’applicazione della scienza, cioè la tecnica, non la scienza. Il razionalismo borghese, che vede solo l’utilizzazione pratica delle cose, non ha nulla a che vedere con il vero spirito scientifico.

 

Ho capito. Per te ragione è l’utilizzazione pratica delle scoperte fatte dall’intelligenza, sia religiosa, sia scientifica.

Sì, l’intelligenza come poesia, saggezza, fantasia, intuito, è la capacità di capire. La ragione la limita, perché esclude tutto ciò che non si può capire rigettandolo nell’inconoscibile. Esclude per esempio l’inconscio. Nell’inconscio non vale il principio di non contraddizione che è il pilastro di ogni logica razionalistica, e quindi la ragione borghese rifiuta l’inconscio.

 

Veramente l’inconscio è proprio una scoperta della nostra civiltà che tu chiami borghese…

Appunto.  Appartiene a quella cultura irrazionalista che caratterizza il nostro tempo e che, come ti dicevo all’inizio, rappresenta il simbolico suicidio della borghesia…

 

Ogni classe al potere, tu dici, è necessariamente razionalista perché deve mettere ordine nel mondo dei fenomeni, e quindi fa violenza alle migliori capacità conoscitive dell’uomo. Io non mi illuderei molto su queste capacità, che fra l’altro avrebbero, dove esistono, mille possibilità di esprimersi. D’altra parte tu riesci a immaginare una società senza potere, e quindi senza razionalità?

Sì. Sono marxista proprio perché Marx diceva che la rivoluzione avrebbe portato al deperimento e alla scomparsa del potere così come viene concepito dalla società borghese. Il potere, insisto su questo punto, è orrendo: sia quando lo si detiene, sia quando lo si vuole conquistare. È sempre corruttore.


È una vecchia storia, credo ormai relegata dagli stessi marxisti nell’arsenale dei robivecchi. In Russia lo Stato non risulta che sia molto deperito. E in Cina… Chi ne sa nulla di come viene effettivamente esercitato il potere? Conosci comunque un esempio nella storia che si avvicini maggiormente a questo ideale di società che si autogoverna?
La polis greca.

 

La ‘polis’ era uno Stato. Piccolo ma sempre Stato; a volte tirannico, non sempre democratico.

Comunque permetteva che Socrate svolgesse il suo insegnamento. Comunque siamo andati fuori strada. Il punto fermo è quello che ho detto, quando mi chiedevi se fosse possibile definire la cultura del nostro tempo. È possibile: è l’irrazionalismo, che da un lato è contestazione, scandalo, violenza contro l’ordine, i codici, la società, la morale corrente, da Rimbaud a Ginsberg, tanto per intenderci; e dall’altro è autopunizione, vedi Hitler.

 

Bene ma con questa esplosione della cultura non vedo come vada a finire il background culturale di cui parli e che faceva dell’Italia una provincia. Per una tradizione borghese ottocentesca, eravamo periferia; ma per una cultura irrazionale non vedo più un centro e una periferia, e infatti letteratura e arte fioriscono un po’ dappertutto, ribollono in un unico calderone.

Già, ma è differente se un poeta o artista partecipa di questo irrazionalismo, di questa rivolta, se ti opponi a una grande società, o a una piccola. Nel primo caso potrai fare delle cose grandi, nel secondo delle cose piccole. Ginsberg si oppone a Johnson che è un gigante (perché rappresenta l’imperialismo americano) e quindi anche lui lo è. Da noi a che cosa serve polemizzare con la polizia locale?

 

Infatti, me lo sono sempre chiesto.

Prendi il caso della nuova sinistra americana, che io considero uno dei fenomeni culturali più importanti del nostro tempo. È un fenomeno interamente nuovo perché affronta una realtà nuova che lo obbliga a inventarsi un linguaggio rivoluzionario, fuori dalle formule. Ginsberg quando attacca l’America  come un poeta, un creatore, che esplora un mondo nuovo. Noi invece in Italia, e in Europa, abbiamo tutto già fatto. Dobbiamo ripeterci. C’è già pronto il linguaggio liberale-radical-marxista, da cui non si scappa. Si diventa per forza conformisti.

 

Ti contraddici. Prima parlavi di background culturale che fa grandi quelli che hanno la fortuna di possederlo. Ora vieni a dire che il background rivoluzionario in possesso della cultura europea ci indebolisce. Negli Stati Uniti sarebbero più liberi e più efficaci perché non hanno alle spalle lo storicismo sia liberale che marxista. Io sono d’accordo. Ma pensavo che tu partissi da una posizione opposta.

Voglio dire che quando un treno va a cento all’ora, tutti quelli che ci sono sopra vanno alla stessa velocità, anche se sono degli zoppi; se il treno come in Italia va a trenta, i passeggeri, per quanto facciano, non possono correre di più. Ma stiamo di nuovo allontanandoci dall’argomento. Hai cominciato col chiedermi che cosa è un capolavoro. Ebbene la mia risposta è questa: è un’opera piena di imperfezioni. Più grandi sono le imperfezioni e più grandi sono le cose perfette. Ecco il motivo per cui è così difficile riconoscerlo. Davanti a un capolavoro si è fuorviati dalle imperfezioni. Il lettore va dietro all’opera perfetta, si lascia affascinare dalla sua compiutezza. Ma le opere perfette, in questo senso, sono sempre minori. Aggiungi che i capolavori sono sempre ideologici e politici, e che devono pagare lo scotto all’ideologia con grigiori, sciatterie, banalità.

 

Dacci un esempio.

Per l’Ottocento è semplice. Dostoevskij. L’imperfezione in opere come Demoni o i Karamazov mi pare evidente.

 

D’accordo. Ma Tolstoi?

Anche lui. Il suo stile è sciatto, non poetico. Intendo dire rispetto ai canoni tradizionali della perfezione. Ma forse è meglio prendere un esempio dalla letteratura italiana. I Promessi sposi. È sicuramente un capolavoro, ed è pieno di imperfezioni. Ce n’è rispetto al codice narrativo come ad esempio l’episodio della monaca di Monza. Per un lettore superficiale, narrativamente, è un errore, perché costituisce un racconto nel racconto. Piglia poi il cardinale e l’Innominato. Sono figure orribili, degne di un technicolor americano. Il loro abbraccio, con le lacrime dell’Innominato che cadono sulla porpora del cardinale, è comico. Ma vicino a quell’abbraccio c’è l’episodio di don Abbondio che va su per il monte a cavalcioni del mulo, che è stupendo. Lucia è una figura sciocca…

 

Meno di quello che sembra, forse. 
Ma Renzo è splendido. La sua fuga da Milano è indimenticabile.
 

Qui sono d’accordo. Ma nel suo insieme cosa sono I Promessi sposi?
Un grande romanzo ideologico, non c’è dubbio.   
 

Un grande romanzo ideologico del cattolicesimo?

No, questo non si può proprio dire. È un grande pasticcio ideologico, col cattolicesimo che si impasta col giansenismo. Parlo dell’ideologia dell’autore; la forza del libro è nella natura ideologica del Manzoni.

 

C’è una grande forza ideologica nel Manzoni?

Sì.

 

Ma un’ideologia contraddittoria come la sua non è di per se stessa debole?

No. L’ideologia di uno scrittore ammette le contraddizioni.

 

Chiamiamola allora visione personale del mondo, che ha uno scrittore.

D’accordo. I capolavori nascono sempre da una grande visione del mondo, una visione che vuole persuadere, cambiare le cose.

 

E qual è l’ultimo scrittore ideologico in Italia?

Montale, Gadda e la Morante.

 

E D’Annunzio?

No.

 

Eppure c’è un’ideologia, l’estetismo.

È un’ideologia mediocre.

 

Allora non conta la forza ideologica, ma la qualità dell’ideologia.
Sì, perché dentro deve esserci una forza morale, creduta fino in fondo; una coerenza al sistema dei valori insito nell’ideologia stessa.

 

Ma perché uno non potrebbe essere morale restando fedele fino infondo all’estetismo?
Sì, ma allora dovrebbe avere alle spalle una grande società.


Perciò Wilde sì, D’Annunzio no.
Esatto. In D’Annunzio poi non mi piace la sua mancanza di abilità. Sembra un paradosso ma è così. D’Annunzio scrive come va va. A parte qualche poesia, come La pioggia nel pineto, c’è poca abilità. Una volta trovata la chiave, apriva tutte le porte. Scriveva come mangiar bruscolini. Non c’è mai resistenza della pagina. Nella sua apparente mancanza di sciattezza è sciatto.

D’accordo per Montale. Ma ora vorrei che tu mi parlassi dell’ideologia della Morante.

È tutta ideologia. Dentro ci sono Freud, Jung. Come schema i suoi personaggi somigliano ai santi nelle vite dei santi scritte da un prete. Ma dentro sono pieni di vita, di irruenza. Anche Moravia è tra i pochi scrittori ideologici che ci sono in Italia, Sono, tutti quelli che ho nominato, persone che non si riconoscono come italiani. Il loro tipo di cultura si è formato altrove, in un terreno franco, europeo. Dietro a nessuno di loro c’è una formazione tipica italiana.

 

Torno a dire che allora è l’ideale per uno scrittore nascere in Italia, perché può scegliersi, come uno del Senegal, la cultura che preferisce, dimenticandosi di quella del suo paese.

No, no, no: se nasci in un piccolo paese sei fregato. Conti solo se appartiene a una cultura egemone.

 

E la Russia dell’Ottocento? Non era un Paese egemone e viveva di cultura importata. Eppure…

In Russia la cultura importata dalla Francia ebbe una grande risonanza per la grandezza del Paese, mentre in Italia…

 

La Russia, dici, era un gran Paese; sì, come territorio.
Eh no. Si stava affacciando alla ribalta della storia. Era un Paese con un destino; vergine ma forte. Fra la Russia e l’Italia dell’Ottocento c’è la stessa differenza che esiste tra la campagna e una cittadina di provincia. La campagna è un terreno fertile, dove il seme germoglia; nelle viuzze ammuffite di una cittadina, tutto intristisce e si perde.

 

Ma noi ci stiamo dimenticando dell’argomento principale. Tu non scrivi più romanzi o racconti, perché?

Ho perso fiducia nel genere. Non ne sono più attratto. Io penso che uno scrittore debba essere sempre realistico, unito cioè alla realtà. Ebbene la realtà che prima m’interessava, intendo dire il sottoproletariato romano delle borgate, sta cambiano rapidamente, non lo riconosco più. II sottoproletariato romano che prima era solo esistenzialmente reale, ma non aveva realtà storica, oggi sta diventando una finzione del Terzo mondo.

 

Bene. È molto più importante dunque, più reale, nel senso che ora vi riconosci una dimensione ideologica. E dunque?

Sì, ma me ne rendo conto solo come cittadino, non come scrittore.

 

Saresti nella condizione ideale per scrivere un capolavoro.

Teoricamente sì. Solo che nel frattempo sono diventato più saggio.

 

E credi che questo sia una limitazione?

Non bisogna essere saggi per scrivere dei capolavori.

 

Ti sei ‘imborghesito’?

Forse sì. Mi si è sviluppato un senso umoristico che prima non avevo e che è un tipico carattere della borghesia.

 

Perché poi solo della borghesia? E nell’antichità?

Parlo dell’epoca moderna, dall’Ariosto in poi. L’umorismo è un atteggiamento della classe al potere. Seguirmi: quali sono i caratteri dell’umorismo? Il senso di colpa e la riduttività. Ora il borghese si sente in colpa (perché detiene il potere) e tende a stare in ciabatte. È un uomo pratico. L’umorismo è un atteggiamento di difesa di chi ha una visione rimpicciolita, quotidiana, della vita.

 

Potrebbe essere, per te, un elemento nuovo. Una chance di più per scrivere un capolavoro, dato che come mi dici, esso non può essere che un’opera composta, contraddittoria.

Infatti. Solo che non riesco a immaginarlo nella direzione del romanzo.


E su quale strada allora?

In questo momento direi: quella del teatro. Ma nota bene: si tratta di una considerazione personale. Teoricamente il capolavoro può nascere dappertutto. Ma oggi io non mi sento né di scrivere romanzi né di scrivere poesie. Non scrivo poesie perché non ha ho destinatario. Non so più a chi mi rivolgermi. So che ci sono in Italia un diecimila persone che amano la poesia. Ma a loro mi rivolgo lo stesso, anche senza scrivere.

 

E chi è il naturale destinatario di un poeta?
Chi il poeta crede idealistico, donchisciottesco, quanto lui. Quando l’idealismo del poeta comincia a incrinarsi e così anche la fede nell’idealismo altrui, allora sente che non c’è più destinatario alla sua poesia.

 

E perché non il romanzo?

Per le ragioni che ti ho già dette, e poi perché la realtà italiana è in assestamento mentre il romanzo ha bisogno di stabilità. Altrimenti il raccontare diventa un arrancare faticoso dietro alle cose. Il teatro invece mi consente di fare nello stesso tempo poesia e romanzo. Poesia perché come sai scrivo le mie tragedie in versi, romanzo perché racconto una storia.

E il destinatario? Per le tragedie c’è?

Il destinatario è uno contro cui polemizzo, contro cui lotto. Il destinatario è il mio nemico, è la borghesia che va a teatro. È con questo spirito che ho scritto i miei quattro drammi: Monumento, che ha come personaggi principali Oreste e Pilade, simboli delle due rivoluzioni del nostro tempo (se vuoi la rivoluzione russa, che si assesta in un ordine borghese, e quella culturale in Cina); Bestia da stile, che ho scritto per lo Stabile di Torino e due altre cose che non hanno ancora titolo.

 

Teatro come un comizio, dunque?
Come vuoi. Chiamalo pure Comizio.
 

 

 

La Fiera letteraria, a. XLII, n. 50, 14 dicembre 1967.

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