Speciale
Pasolini: più padre che madre
Nel corso di questa indagine sulle figure del padre e della madre nell'opera di Pier Paolo Pasolini naturalmente non mi occuperò tanto della dimensione biografica, ossia del signor Carlo Alberto conte Pasolini dall'Onda, figlio di Argobasto, nato nel 1892 a Bologna, ma di antica nobiltà ravennate, poi colonnello di fanteria, “colonnello attaccabottoni” secondo l'icastica definizione di Gadda; uomo affetto da “sindrome paranoidea”, secondo il medico cui il figlio sottopose la trascrizione dei suoi deliri di alcolista; né di quella della signora Susanna Colussi, di un anno più vecchia, maestra elementare, nata a Casarsa della Delizia, in provincia di Udine – allora, ora di Pordenone.
Anche se la lettura della nuova edizione dell'epistolario – Garzanti 2021 – con le sue 325 pagine di cosiddetta cronologia, in realtà biografia dettagliatissima, possa rivelarsi piuttosto stimolante anche sul piano meramente aneddotico: abbiamo infatti, da un lato, un padre che leggeva sistematicamente la corrispondenza del figlio, violandone tutti i segreti, fino al dicembre 1958, data del suo decesso; non solo: era solito anche frugare nei cassetti e leggergli le pagine di diario, i famosi “Quaderni rossi” compresi, per esempio; abbiamo, dall'altro lato, una madre che scriveva ai redattori di “Officina” implorandoli di modificare certi epigrammi del figlio, a sua insaputa, naturalmente, facendo togliere, tanto per dire, la parola “cancro” sostituendola con altre più edulcorate; e ciò accadeva nel 1959, quando PPP era già l'affermato autore di Ragazzi di vita, Una vita violenta e Ceneri di Gramsci e Usignolo della Chiesa cattolica.
Fatterelli biografici non così privi d'importanza, mi pare, che sembrano segnalare la presenza di figure parentali piuttosto ingombranti.
Comunque, l'indagine verterà su quella che già Contini (Testimonianza per PPP, 1980) chiamò la “figura archetipa del Padre” (e analogo discorso vale per la Madre), senza neanche bisogno di scomodare il celebre lacaniano “Nome del Padre”.
Partirò da un paio di citazioni che mi paiono significative, una diretta, l'altra, per così dire, trasposta.
Prima citazione: “Il mondo non sembra essere, per me, che un insieme di padri e di madri, verso cui ho un trasporto totale, fatto di rispetto venerante, e di bisogno di violare tale rispetto venerante attraverso dissacrazioni anche violente e scandalose” (da Battute sul cinema, 1966-67, poi in Empirismo eretico, 1972).
Seconda citazione: “... un'altra mania: quella di vedere tutto in termini di rapporto tra madre e figlio, tra padre e figlio... Insomma, paternalistico e maternalistico al tempo stesso... Egli non concepisce altro al di fuori di questo ricambio di ruoli tra genitori e figli...” (da Appunti per un film su San Paolo. Scena 52, Casa di Giasone a Bonn).
Questa seconda citazione va chiarita: si tratta dei commenti che un gruppo di intellettuali fa in relazione alle parole di San Paolo, tutte tratte dalla Lettera ai Filippesi. Pasolini, nella sua sceneggiatura, uscita due anni dopo la morte, immaginava che San Paolo agisse negli anni della Seconda Guerra mondiale, nella Francia occupata dai Tedeschi e in altri luoghi contemporanei in Europa e America. Talora la sua identificazione con il Santo pare evidente, così come a volte il Gesù del suo Vangelo poteva sembrare un Gesù-Pierpaolo (Fortini). Questa sua mania di vedere padri e madri ovunque potrebbe dunque riferirsi abbastanza pacificamente e anche autoironicamente a PPP stesso.
Allineiamo un'altra serie di citazioni.
“Ogni volta che mi chiedono di raccontare qualcosa su mia madre, di ricordare qualcosa di lei, è sempre la stessa immagine che mi viene in mente. Siamo a Sacile nella primavera del 1929 o del 1931, mia mamma e io camminiamo... Intorno a noi ci sono i cespugli appena ingemmati... Ma le primule sono già nate... Ciò mi dà una gioia infinita... Stringo forte il braccio di mia madre... e affondo la guancia nella sua povera pelliccia. In quella pelliccia sento il profumo della primavera, un miscuglio di gelo e tepore, di fango odoroso e di fiori ancora inodori, di casa e campagna. Questo odore della povera pelliccia di mia madre è l'odore della mia vita” (dalla Vita di Pasolini di Enzo Siciliano, capitolo Tal cour di un frut, 1978 e 2005).
“Ero eccezionalmente capriccioso, cioè nevrotico, presumibilmente, ma buono. Verso mia madre... ero nello stato d'animo di tutta la vita, un disperato amore” (da Dal laboratorio, appunti en poète per una linguistica marxista, 1965, poi in Empirismo eretico, 1972).
“La cosa più importante della mia vita è stata mia madre/ (le si è aggiunto, solo ora, Ninetto)” (da Poeta delle ceneri, 1980, “Nuovi argomenti”, ma presumibilmente 1966).
“Ah, gridare è poco, ed è poco tacere:/niente può esprimere un'esistenza intera!/Rinuncio a ogni atto... So soltanto/ che in questa rosa resto a respirare,/ in un solo misero istante,/l'odore della mia vita: l'odore di mia madre” (da La rabbia, aprile 1960, La religione del mio tempo, 1961).
Si tratta, come si vede, di tipologie testuali le più diverse fra loro.
Si va da una dichiarazione fatta forse per un'intervista a un saggio critico piuttosto impegnato, per finire con due testi poetici lontanissimi: una sorta di autobiografia in versi, che pare esser stata dettata per un immaginario giornalista newyorchese e tutta “al di qua dell'infinita pazienza dello stile”, pura prosa interrotta da a capo abbastanza arbitrari, e l'ultimo invece è una canzone, un'autentica canzone petrarchesca, come sono tutte le Poesie incivili di quest'ultima sezione della Religione del mio tempo; ma mentre le altre quattro hanno come modello le cantilene oculorum, questa discende direttamente dal modello metrico della canzone 119 del Canzoniere, ossia da Una donna più bella assai che il sole.
Anche l'arco temporale su cui si stendono queste citazioni è abbastanza vario.
Però ciò che conta è la fissità tematica, la ricorrente costellazione lessicale. Poesia prosastica, poesia poetica, dichiarazione estemporanea, saggio critico, tutto però converge verso le parole fatidiche: madre, amore, vita. La madre di PPP fu il suo più grande amore, l'amore di una vita, l'amore della vita.
Leggiamo allora per intero la poesia nella quale questo amore immenso e costante trova la sua espressione più compiuta, la notissima Supplica a mia madre, del 1962, che si trova in Poesia in forma di rosa, nella prima sezione del volume:
“È difficile dire con parole di figlio/ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.//Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore/ciò che è stato sempre, prima di ogni altro amore.//Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:/è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.//Sei insostituibile. Per questo è dannata//alla solitudine la vita che mi hai data.//E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame/d'amore, dell'amore di corpi senz'anima.//Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu/sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù://ho passato l'infanzia schiavo di questo senso/alto, irrimediabile, di un impegno immenso.//Era l'unico modo per sentire la vita,/l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.//Sopravviviamo: ed è la confusione/di una vita rinata fuori dalla ragione.//Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire./Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile...”.
Qui Pasolini trascrive la propria relazione con la madre in termini di freudismo puro.
Anche un altro grande eretico, anche lui finito tragicamente, ossia Mario Mieli, quando in Elementi di critica omosessuale riferisce l'interpretazione freudiana dell'origine dell'omosessualità trascrive questa poesia per intero.
Va aggiunto subito che Mieli non condivide la spiegazione di Freud e ne rileva oltretutto le varie oscillazioni teoretiche negli anni.
Noi qui però non possiamo che ricordare alcuni passi di uno dei testi più importanti di Freud per questa tematica, particolarmente pertinente perché riferito a un creatore, un artista, uno sperimentatore versatilissimo, alludiamo a Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci: secondo Freud, secondo questo Freud (perché, come detto, le sue opinioni in materia variano) l'omosessualità si spiega con una “fissazione del bisogno d'amore alla madre” (1919); più dettagliatamente: “la persona... omosessuale rimane nell'inconscio fissata all'immagine mnestica di sua madre... mentre sembra che nell'amore egli corra dietro ai ragazzi, in realtà fugge davanti alle altre donne che potrebbero renderlo infedele”.
Alla base dell'omosessualità sta quindi un Edipo non risolto, e la fissazione alla madre.
Pasolini, poche pagine più avanti, sempre in Poesia in forma di rosa, nel poemetto La realtà, ribadisce il concetto: “Il mio amore/è solo per la donna: infante e madre./Solo per essa impegno tutto il cuore [stessa rima].//Per loro, … i figli...arde/in me solo la carne”. E poco prima: “Sono migliaia. Non posso amarne uno”.
Questa donna “infante e madre” da un lato rimanda, indietro, alla “mari-fruta” (madre fanciulla) della Domenica uliva delle poesie friulane e dall'altro alla quasi coeva (1959) Una luce nella Religione del mio tempo, dove, della madre, si dice più volte che è “come una bambina”, o tout court “una bambina” oppure si descrivono le “sue magre membra di bambina”. E anche in questo testo se ne parla come di “una superstite”, “una dolce superstite”, destinata, anche qui, a un'eterna primavera: “in ogni primavera sarai tu”.
E, se vogliamo una conferma quasi paradossale ed estrema a tale visione di una madre sottratta al tempo e confinata in una perenne infanzia, possiamo rivolgerci all'epigramma, sempre nella Religione, A un figlio non nato.
È la descrizione di una singolarissima avventura eterosessuale del nostro, con una prostituta, che si rivela “allegra come un ragazzo”, ma, soprattutto, “bambina, e già madre”. Che si conclude con l'aperta confessione: “primo e unico figlio non nato, non ho dolore/che tu non possa essere qui, in questo mondo”, palese e inequivocabile rifiuto, anticipiamo, del ruolo paterno.
E c'è un altro testo ancora, a chiudere il cerchio, che dobbiamo prendere in considerazione: si tratta di Memorie (1948-49) nel giovanile L'usignolo della Chiesa cattolica: non solo per la “madre fanciulla” che si ripresenta anche qui nella seconda strofa, ma per altre, ben più rimarchevoli, analogie con la Supplica a mia madre da cui siamo partiti. Nelle strofe penultima e ultima di Memorie si ritrovano già presenti tutti i termini della poesia del 1962, stessa derivatio a contatto: “Tu, sola,/davi la solitudine/ a chi nella tua ombra,/provava, per il mondo,/un troppo grande amore.” E poi, di seguito, la menzione dei “corpi” maschili: “Mi innamoro dei corpi/che hanno la mia carne/di figlio...i corpi misteriosi... i corpi spenti dai tremiti/della carne... spada affondata nella rosa disfatta” ecc.
Anche la metrica è la stessa, serie di settenari, benché, nel testo più antico, semplici, non doppi.
Colpisce dunque questa fissità, questa identità lessicale, metrica, e, sopra ogni cosa, il permanere, a così gran distanza di tempo, di un'analoga interpretazione strettamente freudiana, ortodossamente freudiana della propria omosessualità (al lume, ripetiamo, del saggio su Leonardo da Vinci).
Il primo a rendersi conto di questa situazione di fissità senza sviluppi era Pasolini stesso.
Infatti, quando nel novembre 1967 rilasciò un'intervista ai “Cahiers du Cinéma”, così si espresse sulla figura di Giocasta nell'Edipo re: “In Giocasta ho rappresentato mia madre, proiettata nel mito, e una madre non muta: come una medusa, forse cambia, ma non evolve mai”.
Chiarissimo. Una madre non muta, non evolve. E così è, non solo Giocasta, ma anche la figura della madre in tutta l'opera di PPP. Non è solo la madre bambina, la madre fanciulla, la mari-fruta, è anche una creatura mitologica, religiosa, sottratta al flusso del tempo e fissata sopra un eterno piedistallo, oggetto di autentica venerazione. È per l'appunto la Madonna del Vangelo secondo Matteo oppure, a ulteriore riprova, la Madonna del tableau vivant nel finale del Decameron, impersonata non a caso, in quel cameo, da Silvana Mangano, già Giocasta e già madre Lucia in Teorema, un'attrice che piaceva molto a Pasolini fra l'altro anche perché assomigliava tantissimo a sua madre giovane (intervista del 1968 al rotocalco “Tempo”).
È la figura del Padre invece a riservare sorprese al lettore di Pasolini. Sì, contrariamente alla vulgata pasoliniana, il Padre pare più fecondo di sviluppi, meno prevedibile e scontato. Anche, anticipiamo, meno freudianamente ortodosso.
Dobbiamo rifarci ancora al testo di Poeta delle ceneri.
Qui non solo c'è un primo significativo rovesciamento del tipico complesso di Edipo in chiave autobiografica, dato che il poeta scrive che “coll'amore iniziale per mia madre/c'è stato un amore anche per lui [il padre]: e dei sensi”; e c'è l'immagine, impressa nella memoria, di lui, il “padre, uomo giovane” che “stava orinando” sul ciglio della strada; a questi versi va senz'altro aggiunta la dichiarazione contenuta nell'appendice alla sceneggiatura dell'Edipo re (1967), dove il regista Pasolini scrive: “Non ho mai sognato di fare l'amore con mia madre... ho piuttosto sognato, se mai, di fare l'amore con mio padre (contro il comò della nostra povera camera...)”. E ci sono inoltre, nei versi slabbrati di Poeta delle ceneri, le prefigurazioni dei vertiginosi ribaltamenti edipici sia di Teorema che di Affabulazione. Per il primo caso si preannuncia la comparsa del giovane Ospite che farà dono del suo “membro di seta” al padre, “divenendo padre del padre”. Per il secondo si anticipa il seguente, turbinoso scenario: “il padre non vuole la morte del figlio, ma il suo amore./Diviene lui il figlio, e nel figlio, ragazzo, vede forse il padre,/e lo ama/non vuole ucciderlo, ma esserne ucciso,/non possederlo, ma esserne posseduto”.
Dobbiamo dunque esaminare più da vicino le due opere, il romanzo e la tragedia, Teorema e Affabulazione. Ricordiamo incidentalmente che Teorema inizialmente doveva essere la settima tragedia, accanto alle altre sei progettate e abbozzate nella primavera del 1966.
Nel romanzo (e nell'omonimo film) l'Ospite enigmatico che arriva a sconvolgere la vita di una normale famiglia borghese lombarda di quattro persone, padre, madre e due figli, maschio e femmina, viene percepito, sia dal figlio, Pietro, che dalla figlia Odetta come un padre.
Per Pietro l'Ospite è “un padre senza rughe e senza capelli grigi, un padre – dice Pietro – com'egli era quando aveva poco più della mia età”.
Anche Odetta considera l'Ospite come un nuovo padre o, meglio, come un padre rinnovato e “vede qual è il suo viso, le sue spalle, il suo grande torace e il suo piccolo bacino di giovane genitore”; “va ad interrogare il volto di quel nuovo padre davanti a lei”, “presenza miracolosa del suo corpo di giovane maschio e padre”.
Per la madre Lucia, come del resto per la domestica Emilia, il misterioso Ospite è più figlio o, addirittura, madre.
Ma è per il padre Paolo che Egli assume il ruolo, assai spiazzante, di Padre-Figlio: ossia Paolo, come recita il titolo del capitolo 21 della parte prima è: “un uomo malato, regredito a ragazzo”, mentre l'Ospite è “un ragazzo sano, promosso a giovane uomo antico.
Quando i due si recano in campagna in automobile, l'autore non chiama più il padre Padre, ma solo Paolo, perché ormai “dietro la giovanile, distratta e generosa maschera del figlio, c'è un padre fecondo e felice; mentre dietro la segnata, preoccupata e avara maschera autoritaria del padre c'è un figlio deludente e ansioso”.
L'Ospite quindi, riassumendo, non assume solo le fattezze di un Padre giovane per i due figli, ma anche, e soprattutto, per il padre stesso, regredito a sua volta a figlio bambino.
Un notevole capovolgimento, non c'è che dire.
Ma in Teorema non c'è solo questo. Nel capitolo 27 della prima parte, dal titolo Gli ebrei si incamminarono, il tema è quello del deserto. Pasolini dice che è dall'unicità del deserto, apparentemente sempre diverso e in realtà sempre lo stesso, che gli Ebrei derivarono l'idea del Dio unico, unico, per l'appunto come il deserto. Anche l'apostolo Paolo rimase un periodo nel deserto. Il deserto lo attraeva come il grembo, no, non della madre, scrive PPP, ma del padre. “Infatti, come un padre, il deserto lo guardava da ogni punto del suo orizzonte, sconfinatamente aperto”.
Il deserto come un padre, per l'apostolo Paolo. E nel deserto si perderà anche l'urlo infinito del padre Paolo nel finale sia del libro che del film, un finale che non finisce, esattamente come l'urlo.
Attribuire all'infecondo per eccellenza, al deserto, il ruolo di padre, mi pare assai significativo: Pasolini rifiutò sempre questo ruolo ed espresse, come abbiamo già visto e vedremo anche poi, varie volte in poesia e non solo questo rifiuto.
Passiamo ora ad Affabulazione.
È l'autore stesso ad avvisarci, nel corso del quinto episodio, che qui siamo in presenza di un’“inversione dei ruoli” e di un “rovesciamento di situazione”.
Il Padre di Affabulazione già al verso sesto del primo episodio dice in sogno “dove vai... ragazzo, padre mio”. E il figlio, dal canto suo, sul finire sempre di questo primo episodio, dichiara al padre: “diventa tu come me!”. Nell'epilogo infine il padre così riassume l'intera vicenda: “Ebbene io, anziché/voler uccidere mio figlio.../volevo esserne ucciso/... E lui, anziché voler uccidermi.../non voleva né uccidermi né lasciarsi uccidere” (riassunto parzialmente anticipato, come abbiamo visto, nel Poeta delle ceneri).
La versione del complesso di Edipo di questa tragedia è, ci si passi il gioco di parole, davvero complessa.
Non si tratta più dell'amore del figlio per la madre con connesso desiderio di eliminare il padre; bensì di un amore omosessuale del padre nei confronti del figlio; sarà il secondo a soccombere al primo, contrariamente alla versione classica.
Il rovesciamento pare doppio: da un lato per via dell'amore omosessuale, dall'altro per via del fatto che è per l'appunto il padre ad ammazzare il figlio.
L'ombra di Sofocle che dialoga con il Padre nel corso del sesto episodio gli rivela che qui non di enigmi si tratta, bensì di misteri. Il figlio appartiene all'ordine del mistero, non dell'enigma.
È come se dicesse che il sapere di Edipo (e anche dell'Edipo) qui non ha presa. Non c'è nessuna Sfinge da sconfiggere. Non ci sono enigmi da risolvere. In effetti Sofocle stesso nel colloquio con il Padre non rimanda alla sua tragedia più famosa, ma lo rinvia alle Trachinie. È a questa tragedia che la vicenda pare riannodarsi.
Ricordiamo che nel finale di essa un padre, Eracle, ordina al figlio riluttante (Illo) di ucciderlo; non solo, gli ingiunge anche di occuparsi lui della matrigna superstite, Iole, e di prenderla in moglie.
René Girard, nel capitolo settimo di La violence et le sacré, dedicato proprio al complesso di Edipo, si domandava ironicamente cosa sarebbe successo se Freud invece di prendere a modello l'Edipo re avesse preso a modello, per la sua teoria, le Trachinie, sempre sofoclee ma evidentemente capovolte rispetto al complesso famoso o famigerato.
Il volume è del 1972. Affabulazione ha conosciuto più riscritture a partire dal 1966, chi sa. Comunque indipendentemente da Girard PPP potrebbe aver espresso qui una certa insofferenza nei confronti dell'Edipo perenne.
Insofferenza che fa pensare (e ciò è suggerito anche da Walter Siti in una delle sue Quindici riprese di quest'anno) quasi ad un altro celebre testo uscito in quello stesso 1972, ossia L'Anti-Oedipe di Deleuze e Guattari, che venne tradotto poi l'anno della morte di PPP, il 1975. Non ne è traccia, né del testo originale né della traduzione, nel catalogo della sua biblioteca (uscito nel 2017); così come non c'è traccia di La violence et le sacré. Ma questo vuol dire poco.
Con questi continui capovolgimenti, rovesciamenti, con queste costanti versioni difformi dal modello classico Pasolini sembra anche lui voler dichiarare la propria riluttanza a far entrare una materia ribollente e magmatica nel comodo e prevedibilissimo schema dell'Edipo, in quella figura triangolare di papà-mamma-io che suscitava gli strali di Deleuze e Guattari: “dì che è Edipo altrimenti ti becchi uno schiaffo”. La produzione desiderante, le macchine desideranti non si possono lasciar rinchiudere tanto facilmente nel giro di “uno sporco segretuccio” a tre.
Detto altrimenti: ciò che i due filosofi francesi affermano di Proust nel secondo capitolo dell'Antiedipo (Psicanalisi e familiarismo) potrebbe esser predicato perfettamente proprio a Pasolini: “Si fa presto ad applicare a Proust la diagnosi di un'omosessualità edipica per fissazione alla madre, a dominante depressiva e colpevolizzazione sadomasochistica”.
Quando si leggano le pagine dell'appunto 55 di Petrolio, quello dell'ormai famigerato pratone della Casilina, come non pensare che macchine desideranti e produzione desideranti sono termini molto più pertinenti anche per PPP, rispetto al triangolo edipico che chiude poco e fa acqua da tutte le parti.
Ripeto: niente ci dice che Pasolini avesse letto il testo; però è sicuro che i continui ricami sull'Edipo di alcune delle sue opere, a straniarlo e sfigurarlo quasi, possono ricondurre a quella matrice, o a ciò che le “sta a monte”, per usare un'espressione tipica di quegli anni lontani.
Assai interessante è che ciò si verifichi, per così dire, dal versante paterno, non da quello materno della sua opera.
Per la madre l'ortodossia freudiana pare funzionare ancora.
Pasolini rifiutò sempre per sé il ruolo paterno. Non c'è solo l'esplicita ammissione fatta in un breve testo uscito il 9 novembre 1968 su “Tempo”, all'interno della sua rubrica settimanale “Il caos”, intitolato non a caso “La volontà di non essere padre”. Ci sono anche, e ben più rilevanti, i testi poetici della penultima sezione di Trasumanar e organizzar, La città santa. Fanno parte di quello che PPP stesso definiva “il canzoniere per una donna chiamata Maria”, ossia, naturalmente Maria Callas. In tre di questi quattro testi, il verdiano Timor di me?, Rifacimento e La baia di Kingstown il tema è ribadito e ripetutamente variato: alla richiesta della donna, che, consciamente o meno, chiede proprio a lui di ricoprire il ruolo paterno, il poeta non può che opporre il suo sgomento: lui, proprio lui, del padre, non sa nulla, non lo conosce; al posto del Padre c'è per lui “un vuoto”, “un vuoto del cosmo”. “Ogni vuoto del mio sapere è un vuoto del cosmo/ed è là che risiede lui, non invisibile, no, ma mai visto!”.
Se dunque in Teorema il padre era tutt'uno con il deserto, qui, in Trasumanar, è identificato con il vuoto, attributo anch'esso proverbialmente riferito al deserto.
Il padre non c'è. È assente fin dall'origine. Coincide con la sua mancanza ontologica, cosmica.
Oppure è morto. Più spesso in modo cruento – e qui ritorniamo all'aura mefitica dell'Edipo – come in Porcile (film), dove il figlio cannibale pronuncia l'unica frase parlata dell'intero episodio, per quanto ripetuta quattro volte: “ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, tremo di gioia”, o come, nella tragedia Pilade, il padre di Oreste, il massacrato Agamennone, o come nel caso di Von Spreti, il diplomatico germanico eliminato in un attentato terroristico in Guatemala nella primavera del 1970; la fine può anche essere stata una fine naturale, come quella effettiva del padre di PPP, Carlo Alberto. Il risultato non muta.
In ogni caso il Padre con cui si può parlare è un padre morto. Magari riapparso, dopo il decesso, in una sua peculiare dimensione onirica.
Così infatti dice Oreste (primo episodio di Pilade): “Andrò a pregare sulla tomba del mio povero padre./Non l'ho dimenticato, egli è ora nei miei sogni”. E ancora: “ameremo così i nostri indimenticabili padri/sognandoli”.
L'autore stesso del resto, nella poesia che sta in appendice alla sceneggiatura Il padre selvaggio, E l'Africa? così scrive del proprio padre: “Ah, padre ormai non mio, padre nient'altro che padre,/che vai e vieni nei sogni/quando vuoi,/come un cinghiale appeso a un uncino, grigio di vino e di morte/presentandoti a dire cose terribili/ a ristabilire vecchie verità... Il mondo è la realtà che tu hai sempre paternamente voluto...”.
Questo padre che sembra richiedere come condizione per il dialogo il suo esser defunto, ricorda molto da vicino il Papa, quel Pio XII, a cui è indirizzato l'ultimo epigramma (A uno spirito) della serie Umiliato e offeso nella Religione del mio tempo: “Solo perché sei morto, ho potuto parlarti come a un uomo... Attonita salma di vecchio uomo, balbettante fantasma... finalmente mi sei fratello”. Che può ricordare da vicino il Gramsci del celeberrimo poemetto (Le ceneri di), che solo in quanto “morto” si presenta non come “padre”, ma come “umile fratello”. Anche l'autore, nei suoi rapporti con gli africani della Tanzania vorrebbe presentarsi come “caca” (“fratello”, in swaili), ma viene, ahilui, percepito piuttosto come “baba ndogo” (“sor maestro”) (La nascita di un nuovo tipo di buffone, in Trasumanar).
Si può finalmente parlare con l'ombra del padre morto, perché, come per l'orfano di Von Spreti dell'omonima poesia di Trasumanar, sezione Sineciosi della diaspora, dopo la scomparsa di suo padre, “l'afflizione dell'occhio... non maschera un certo luccichio” e sente “nel sesso la leggerezza... dovuta alla sparizione del padre”. E ancora: “non è cosa di tutti i giorni restar orfani/sentire nel sesso la liberazione dal padre”.
Torniamo un momento adesso all'aggettivo che, nei tre testi poetici dedicati alla Callas, segnala l'assenza costitutiva della figura paterna, ossia “cosmico” e al corrispondente sostantivo “cosmo”.
È abbastanza sorprendente ritrovarlo nella bella poesia, se si può dire, La strada delle puttane. Qui un dio ragazzo indiano, ricciuto, si stacca dai compagni, tra le baracche di un villaggio di puttane, e incontra l'autore, “per le strade del cosmo”, ed è egli stesso “un segno del cosmo”.
Nell'appunto 65 di Petrolio la perdita di Carmelo rappresenta per Carlo una “cosmica privazione”; del resto anche “l'essere posseduti è una esperienza cosmicamente opposta a quella del possedere” (sempre appunto 65).
La figura del padre, e il suo rifiuto, aprono dimensioni addirittura cosmiche, di portata enorme, infinita – di contro alla ridotta portata di un prevedibile freudismo da manuale.
Come si voleva dimostrare.
Venti incontri, venti parole, venti biblioteche, venti oratori, venti podcast: cento anni di Pasolini. Un ciclo di incontri e di testi affidati a scrittori e esperti per attraversare l'immaginario pasoliniano, un progetto Doppiozero in collaborazione con Roma Culture.
L’incontro di domani, lunedì 10 ottobre, sarà con Massimo Fusillo, presso la Biblioteca Villa Leopardi di Roma alle ore 11. Qui il programma completo.