Prendere in mano l’Inferno

30 Ottobre 2023

Se in un’opera sono in gioco un testo e una modalità di lettura, è difficile pensare che nella nostra tradizione ce ne sia una che abbia inciso più della Commedia, non tanto per i suoi significati, che a molti richiameranno l’Epistola a Cangrande e altri ricordi, quanto per l’influenza che lo studio della Commedia ha esercitato – per sette secoli – sul modo di accostarsi alla letteratura, per l’attenzione alla lettera e a quel che è in grado di rivelare. Questa modalità di lettura oggi sembra destinata a un’incomprensibile specializzazione: se infatti da un lato risulta una prassi inevitabile per gli studenti universitari che affrontano un testo consacrato come classico, dall’altro invece è dimenticata in fretta – e la dimenticano anche questi stessi studenti o studiosi – davanti ai libri contemporanei per i quali si ammette una lettura più rilassata o addirittura puramente orientativa, simile a quella che si fa delle notizie sul telefono, col risultato di confondere la letteratura contemporanea in un unico insieme indifferenziato. Certo, il romanzo si distingue dal poema e ha promosso una lettura estensiva più che intensiva; e del resto non è che tutti i romanzi contemporanei meritino un’edizione commentata come quella che Emilio Manzotti nel 1987 allestì per la Cognizione del dolore di Gadda, ma una pratica di lettura più esigente potrebbe rivelarsi utile per chiarire che gli elementi stilistici non sono diventati del tutto ininfluenti. 

Nel corso del tempo la devozione a Dante ha portato con sé anche una serie di problemi: dalla sovrainterpretazione del testo in innumerevoli contributi scientifici accumulatisi negli ultimi due secoli – in molti dei quali si pretende che dietro ogni ombra o fantasma testuale si accenda una nuova luce – alla riduzione della lettura dell’opera a brand indiscutibile, talismano per il riconoscimento di una formazione compiuta che in contesti particolarmente ristretti può ancora vantare un minimo risultato sociale. In mezzo alla sovrabbondante produzione libraria apparsa in occasione del settimo centenario dalla morte di Dante, nel 2021, oltre alle nuove edizioni del testo e ai nuovi commenti da anni in preparazione, si sono aggiunte pubblicazioni di grande e talvolta inutile sforzo divulgativo, nel tentativo di avvicinare il poema ai ragazzi e insomma al grande pubblico, o forse – in modo  più trasparente – di tutelarne l’ammirazione popolare, come già accaduto nel caso delle letture pubbliche: valga per tutte quella di Benigni.

 Usciti da questa profusione editoriale, nell’anno dell’anniversario calviniano il recente Inferno. La Commedia di Dante raccontata da Claudio Giunta (Feltrinelli) riporta più sobriamente l’attenzione su alcuni temi che ancora ci legano al poema e lo fa in un modo persuasivo perché tratta la Commedia come un libro, e non come un libro d’ore, quindi un testo la cui lettura non deve trasformarsi in pratica devozionale al punto da negare a chi legge, al suo gusto e alla sua intelligenza critica, il riconoscimento di parti meno riuscite o noiose. Giunta riesce a condurre in porto l’impresa da un lato per un’indiscussa competenza filologica quasi dissimulata, come se si trattasse di una dote comune; dall’altro, perché i motivi del racconto si intrecciano a ragioni più personali, sottintese ma presenti, che riguardano trent’anni di vita da studioso dedicati in una parte significativa a questo autore, un periodo in cui la domanda fondamentale sull’attualità di Dante lo ha evidentemente accompagnato. Questa esperienza potrebbe valere anche per altri autori e studiosi di prestigio che si sono cimentati in libri simili usciti a ridosso dell’anniversario dantesco. In questo caso, quel che prevale e che sembra più apprezzabile è la volontà superare il compito divulgativo in una sintesi che conservi sempre lo spazio per un dettaglio in cui si esprime l’intuizione personale, che si tratti ad esempio dell’esperienza quotidiana della violenza nei contemporanei di Dante o del culto della primavera che nutre varie similitudini e che nasce dal timore del freddo invernale, all’epoca spaventoso in tutte case esposte alle intemperie (p. 35). È appunto in queste scelte che prende forma la lettura.

Il racconto si snoda in capitoli dedicati per lo più a un singolo canto e si alterna senza schema ai passi del testo dantesco – presentati con a fianco una parafrasi accurata – , passando dalla biografia dell’autore al dato storico, con pochi richiami ai maggiori dantisti (fra i più recenti il compianto Saverio Bellomo) e a qualche calibrata analogia con pareri o esperienze artistiche moderne e contemporanee, come già in precedenti libri di Giunta, perfino nella sua curatela delle Rime dantesche.

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Quanto al testo, come ci si potrebbe aspettare le questioni principali vengono affrontate direttamente, anche se in modo sintetico: dal rapporto con i poeti dell’antichità, coi richiami testuali a Virgilio, Ovidio, ai problemi dottrinali risolti con rimandi diretti alla Bibbia o ai grandi autori (nel racconto di questa cantica i rinvii ad Agostino e a Tommaso quasi si pareggiano). L’attenzione è maggiore per il dettaglio storico e per i personaggi reali rispetto a quelli del mito, ossia quelli con cui Dante-personaggio di norma dialoga. Ne cito alcuni. Farinata degli Uberti emerge senza sorprese come una delle voci maggiori di questo racconto, ma è reso ancor più memorabile nelle parole del commentatore trecentesco Benvenuto da Imola: «In ogni modo cercava di eccellere in questa vita breve, perché non sperava che ce ne fosse una migliore» (p. 96). Pier della Vigna è caratterizzato attraverso i suoi tic linguistici – e questa è un’altra dote del realismo di Dante che Giunta mette in luce – ma la sua statura risulta volutamente meno definita. Spicca invece in primo piano Brunetto Latini, per i toni familiari e la figura di insegnante instancabile che Dante riconosce e per la quale il Dante-personaggio (e così il Dante-autore) si fa predire – come il maestro avrebbe potuto fare in modo verosimile – la gloria futura. Giunta osserva che: «i versi nei quali Dante descrive il loro incontro sono così pieni di umanità e tenerezza che non sarebbe strano leggerli nel Paradiso» (p. 123) e sottolinea la magnifica chiusa dell’episodio in cui Brunetto corre per raggiungere la schiera dei dannati a cui appartiene, come quelli che a Verona corrono la gara del drappo verde «e di costoro parve essere quello che vince, /non quello che perde». In questa nobiltà che porta sempre a dare il meglio di sé, espresso in frangente così comune, Dante fissa la più affettuosa immagine familiare, visto nelle tre cantiche non nomina nessuno della propria famiglia (se non, come si sa, un lontano antenato). 

Giunta invita ad accostarsi al testo in modo puntuale e ragionevole: incoraggia a prendere in mano il libro per ciò che ha da dare, rimarcando la distanza che ci separa dal Trecento, ma senza per questo costringere il lettore a diventare un esperto di letteratura medievale o, peggio ancora, a rimpiangere di non esserlo. L’intermediazione del racconto-guida serve appunto a evitare tali eccessi. E così, dove il testo parla da sé, come nei casi di Francesca o di Ugolino, si limita opportunamente alla parafrasi e a un commento che sottolinea le soluzioni che fanno la forza memorabile di questi canti. In questa accortezza si esprime, oltre che il rispetto per il testo, anche la ragione principale dell’attualità di questa esperienza di lettura. Se la lettura quotidiana sui dispositivi ha impoverito questa operazione – togliendo a chi la esercita la fiducia in una nuova scoperta – da una parte ha reso tutti più indifferenti al contesto, dall’altra, conseguentemente, ha reso meno evidenti le soglie che appunto distinguevano un contesto dall’altro: in breve, il motivo per cui non si entra in tribunale in costume e asciugamano. L’esperienza di lettura della Commedia non ripristina il cerimoniale, ma conferma che queste soglie, nel rumore digitale di fondo, continuano a esistere e che riflettere sui limiti della condizione umana non significa ignorarle, ma distinguerle.

Un ultimo accenno va fatto alla cura con cui l’autore ribadisce che in quest’opera la potenza linguistica è più forte di quella immaginativa, per cui resistono prepotenti nella memoria versi e clausole ritmiche a prescindere dalla relazione che li lega al racconto dei protagonisti. Se per Dante Virgilio era un repertorio verbale (p. 146), per noi Dante lo è stato ancora di più, non tanto nel senso di un riuso attivo delle sue parole, che pure non è mancato, ma certamente come «riuso mentale» che si è fatto strumento di comprensione.

Detto questo, è lecito lasciare spazio anche a ciò che da lettore comune nel libro mi sarei aspettato di trovare, e che non c’è: ad esempio, l’insegna dietro la quale corrono gli ignavi (Giunta preferisce «pusillanimi»); qualche verso in più del V canto, pure riprodotto in abbondanza; il gesto di Vanni Fucci (XXV, 2). Un’altra nota riguarda infine lo sviluppo del racconto che, volutamente, da Malebolge in poi riporta i vari personaggi in modo meno marcato, travolti dall’oscura bestialità in cui Dante li coglie. Ma sono dettagli. Ciò che conta è avvicinarsi al libro cercando per quanto possibile di superare le incrostazioni dei luoghi comuni, gli automatismi di citazioni travisate e proverbiali, anche se queste fornirebbero di per sé più di un pretesto narrativo. Il libro bisogna riconquistarlo. Se gli studenti e gli studiosi sembrano talvolta – comprensibilmente – leggere in ginocchio, davanti ai libri contemporanei cambiano atteggiamento, cercando di impiegare strumenti e metodi di difficile applicazione (dato l’oggetto) o sprofondando come lettori in poltrona. Tenuto conto che per Nabokov l’organo principale della lettura è la spina dorsale, né l’una, né l’altra posizione sembrano particolarmente raccomandabili.

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