La lettura vista da vicino
In tempi in cui si lamenta l’eccesso di esposizione agli audiovisivi l’esortazione alla lettura è diventata un vero genere retorico nel quale, in determinate circostanze, ciascuno può trovarsi a dar prova di sé. Scrivendo dei piaceri e dei pericoli della lettura, nel 1906 Proust ricordava che la «nostra saggezza comincia dove finisce quella dello scrittore» e che dunque la lettura, più che dare risposte, si limita a ispirare desideri. Il resto dobbiamo mettercelo noi. E tuttavia, continuava Proust, anche se rischia di stimolare soprattutto gli ingegni non originali che arrivano a farne una vera professione, la lettura sa educare in modo appassionante le maniere dello spirito. Del resto, migliora le competenze sociali, illumina nuovi punti di vista. Bisogna dunque saper leggere e continuare a farlo, non c’è scampo.
La lettura si fonda sulla sensibilità al contesto, una dote della percezione che in generale a partire dagli anni Novanta del Novecento è stata messa alla prova. In un primo momento dalla comparsa del cellulare, che ad esempio ha portato impiegati dall’eleganza dimessa a implorare ad alta voce un perdono telefonico poco distanti da una scolaresca in coda davanti a una gelateria; poi, dallo smartphone e dalle piattaforme social, che hanno incoraggiato gli utenti a produrre letture e commenti frettolosi che si fondano sul fraintendimento, un fenomeno che ha indotto a concepire un impossibile contesto unico della rete, con tentativi recenti di allestire un galateo della comunicazione digitale che possa dettare una regola, contenendo gli eccessi (diseconomici e reputazionalmente pericolosi, quando non proprio allarmanti). Se la pressione e il numero di interventi scritti nelle stesse sedi diminuissero, ci troveremmo in condizioni diverse? Se ad esempio alla rete se ne affiancassero altre, non il deep web, o il dark web, ma altre in chiaro, con modalità di accesso lievemente mutate e altrettante e nuove piattaforme? Per fortuna, benché non si possa più farne a meno, non esiste solo la comunicazione social. La domanda sulla lettura però resta: da dove incominciare?
In Close reading. Il piacere della lettura, uscito in Inghilterra nel 2019 e tradotto ora da Christian Delorenzo per Einaudi, David Greenham propone di ripartire dalla «lettura ravvicinata» del titolo. Inaugurato come pratica accademica da I. A. Richards negli anni Venti del Novecento, il close reading di solito è ricondotto a una particolare stagione della critica, fra «Practical Criticism» e «New Criticism», dove la lettura della pagina in profondità si concentrava sulle ambiguità del linguaggio originate dalle relazioni fra le parole. Questo orientamento ha caratterizzato i lavori di una schiera di critici, da Allen Tate a Robert Penn Warren, fino a porsi come «strumento di base» – sostiene Greenham – per altri e diversi approcci al testo, come quelli di Barthes e perfino di Derrida, anche se qui sarebbe opportuno ricordare che in ambito francese sono state determinanti la ricezione del formalismo russo e l’elaborazione dello strutturalismo. L’intento del saggio è quello di ricavare da questa pratica alcune indicazioni di metodo che possano servire agli studenti e in generale ai lettori.
«Nessun vocabolo, per quanto sia formulato con chiarezza, possiede un senso preciso al di fuori di un determinato contesto» scrive Greenham (p. 5), e qui arriva subito una prima sorpresa, non tanto in questa affermazione, quanto in quella che la segue: «Al di fuori di una situazione specifica, dunque, qualsiasi termine ha troppo potenziale semantico, che viene ridotto, in base al contesto, a un’unica possibilità, oppure, laddove l’ambiguità permanga, a due o più opzioni». Da sola una parola ha troppo potenziale, non troppo poco, come potrebbe comunemente sembrare. È dunque facile comprendere come, isolando un termine ed espungendolo da un testo, se ne amplifichi il potenziale semantico tanto da renderlo temibile, anzi perfino minaccioso, come dimostrano le polemiche recenti sull’ortopedia grammaticale: negando l’utilizzo di un termine non si segnala solo la sua pericolosità, ma anche la nostra incapacità di padroneggiarlo, visto che il suo significato dipende dal rapporto con altri termini (questo comportamento non è troppo distante da quello della rimozione in psicologia).
Secondo Greenham, più si comprende la complessità di un testo, più aumenta il piacere, un «piacere analitico: quella sensazione che si vive, in qualità di lettori, nel momento in cui le percezioni immediate vengono rafforzate da un metodo capace di gettare luce sull’opera» (p. 5).
Ecco dunque i sei contesti del discorso: semantico, sintattico, tematico, iterativo, generico e avversativo. Greenham accompagna il lettore attraverso capitoli che illustrano questi contesti con esempi da opere note, da Lo hobbit ad Amleto, da Cime tempestose al Grande Gatsby, ma sceglie di accostarsi ai libri in modo singolare ed empirico per cui procede attraverso l’approfondimento dei contesti senza definirne a priori in dettaglio il significato, che deve emergere appunto dalla lettura. Più che un manuale, come pure l’autore lo chiama, sembra una guida, ricca di indicazioni e di esperienze interpretative, senza pretesa di fissare perentoriamente una norma; per certi aspetti somiglia più a un libro di viaggio, o a un manuale di istruzioni, che a un libro di testo scolastico o accademico. Greenham si muove con umiltà, fedele agli insegnamenti di Richards (si veda la scomposizione della metafora in tre elementi: tenore, veicolo e terreno comune), partendo dalla singola parola e rivolgendosi a studenti che immagina a corto di prerequisiti. A questo riguardo, le considerazioni sullo stile di Tolkien nelle prime pagine dello Hobbit suonano scopertamente generose.
Nel close reading l’iterazione assume un’importanza fondamentale: la ripetizione di termini della stessa area semantica dà luogo a un tema; quella di un nome al quale si associano azioni e riflessioni dà forma al personaggio, che cresce dunque nell’esperienza di lettura quando si accumulano operazioni diverse riferite allo stesso termine. Questo processo suscita uno dei maggiori piaceri della lettura, ossia quello dell’immedesimazione, un gioco di natura particolare che si svolge fra il testo e il lettore. Parafrasando Wittgenstein verrebbe voglia di osservare che, mentre possiamo metterci d’accordo per chiamare – e utilizzare – un mestolo come “bicchiere”, nel caso di un nome proprio dietro al quale non si affacci un oggetto o una persona reale, come “Carlo” o “Francesca”, questi – per quanto abbiamo acconsentito a riferire loro operazioni diverse – conservano sempre una parte ignota, che colmiamo solo con la nostra immaginazione. Le azioni che ripetutamente riferiamo a questi nomi propri danno poi luogo alla trama, condizionata a sua volta dalle nostre precomprensioni rispetto a un contesto generico: se pensiamo che una narrazione sia un romanzo, nutriamo delle vaghe aspettative che ci portano a prevedere gli sviluppi delle azioni di cui abbiamo letto. L’iterazione riguarda poi anche suoni e ritmi, specie in poesia.
Greenham procede con disinvoltura e appunto con un basso grado di prescrizione, lasciando valutare al lettore la bontà delle sue note interpretative e favorendo, secondo una lunga tradizione inglese, il sapere fondato sull’esperienza. Dà mostra di un’evidente intenzione pedagogica – insegna Letteratura inglese all’University of the West of England – che prevale sull’attitudine saggistica. Così si preoccupa di sottolineare che lettura avviene nel tempo e che quindi il rapporto con ciò che sta al di là, o al di qua del testo la condiziona: la vita di un autore, l’epoca storica, posizioni teoriche come il femminismo, l’ecocriticismo, l’approccio psicanalitico, decostruzionista, post-coloniale, cognitivista o queer. Sono appunto i contesti che definisce «avversativi», non tanto (o non solo) perché si oppongano al testo, ma perché partono dal confronto fra il testo e altre tipologie di discorsi. Anche in questo caso fornisce degli esempi: il rapporto fra la biografia dell’autrice e i Sonetti del portoghese di Elizabeth Barrett Browning; il marxismo e Il grande Gatsby; il femminismo e Cime tempestose, ma non dimentica gli approcci dell’intersezionalità, determinata da «etnia, genere, sessualità, classe sociale, nazionalità, età convinzioni politiche ed esperienze di vita» con un paio di esempi da Cime tempestose, in particolare quello sul giovane Heathcliff descritto romanticamente come un principe, mentre in concreto è ostracizzato a causa della sua provenienza incerta, dell’età e dell’istruzione. Per quanto questi confronti fra discorsi secondo Greenham risultino cruciali nella riflessione sulla nostra identità e sul nostro posto nel mondo, costituiscono soprattutto modalità per apprezzare i testi, ossia possono aver luogo solo a partire dai testi. A suo avviso poco importa il contesto avversativo che scegliamo, ciò che conta è la capacità di interpretare un testo in modo convincente, tenendo conto di tutti e sei i contesti del close reading. Per questo l’integrità del testo letterario va tutelata.