Primo Levi. Il chimico e l’ostrica 

10 Gennaio 2023

È ormai una generazione intera che noi lettori di Primo Levi vediamo letteralmente trasformarsi davanti ai nostri occhi la statura e il profilo, la voce e la presenza di questa figura affascinante, solo apparentemente così schietta e leggibile. Più precisamente, come ci spiega Mario Barenghi in uno dei saggi contenuti in questa collezione elegante e illuminante, si tratta degli ultimi 25 anni, a partire cioè dall’«annus mirabilis 1997», quando escono quasi in contemporanea tre lavori, tutti a cura di Marco Belpoliti: una nuova edizione delle opere complete, raddoppiando le dimensioni dei materiali testuali finora disponibili e offrendoci per la prima volta un apparato critico e testuale autorevole, ma anche fertilmente dinamico e creativo; il volume Conversazioni e interviste 1963-1987, che coglie la voce civica di Levi, il testimone nella sfera pubblica delle scuole, dei giornali, della radio; e il numero della rivista «Riga» dedicato a Levi (n. 13), con testi dispersi di/su Levi e una gamma di saggi critici intenti a sovrapporre all’ammirato ritratto del testimone una nuova immagine di Primo Levi come autore a tutto tondo, come voce plurima e articolata, come figura imprevedibile, a volte contraddittoria, insomma come figura della complessità. 

Certo, le reputazioni e le tendenze critiche intorno a scrittori e scrittrici di tutti i tipi cambiano inevitabilmente col tempo, con i gusti, con l’evolversi della storia e quindi della coscienza culturale del tempo presente. Difficile, però, pensare a un caso così marcato e clamoroso di una metamorfosi come quella di Levi, che passa dalla quasi invisibilità, o al massimo il riconoscimento doveroso (un esempio per tutti: la quasi totale assenza di Levi nella Letteratura italiana einaudiana diretta da Asor Rosa, almeno fino al 1996), a essere, come dice Barenghi, «una lettura obbligata», che addirittura sostituisce Manzoni nelle letture scolastiche come «classico della letteratura civile», «senza dubbio lo scrittore italiano più conosciuto sul piano internazionale, il meglio edito, il più studiato».

Con Il chimico e l’ostrica. Studi su Primo Levi (Quodlibet, 2022), Barenghi s’inserisce a pieno titolo in questa operazione generazionale di metamorfosi, raccogliendo una dozzina dei suoi saggi e contributi su Levi che vanno dal 1999 ad oggi (inediti inclusi), disposti, con un gioco di prospettiva che credo sarebbe piaciuto a Levi, in ordine cronologico inverso. L’effetto di leggere o rileggere, a rovescio, gli interventi di Barenghi, è quantomai ravvivante, per il modo in cui conferma un’intuizione di Levi stesso che si trova in tutto un altro contesto, cioè nella prima pagina di Se questo è un uomo (edizione del 1958): «primo ufficio dell’uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei». Il mezzo, lo strumento di Barenghi – può sembrare ovvio, ma non lo è – è quello della lettura attenta e costante del testo, visto con l’occhio del critico e dello storico della letteratura, ma soprattutto con l’occhio e l’orecchio del lettore che assorbe, ascolta e riflette sul testo, sulle parole, sulle immagini, sul ritmo, sulla rettorica, sulla voce, e che così facendo mina e supera i luoghi comuni e gli stereotipi, spesso cogliendo elementi sorprendentemente nuovi in Levi che si nascondono in piena vista.

Per citare solo un esempio (ma il libro ne è pieno): «i sommersi e i salvati». Una frase spiccatamente leviana, e come tante di quelle forgiate da Levi, memorabilissima, che si presta facilmente alla citazione, di cui pensavamo di conoscere bene la storia: prima come titolo del capitolo centrale di Se questo è un uomo, con chiari echi danteschi (cfr. Inf XX, 3; Inf IV, 63), in cui Levi passa in rassegna i suoi compagni di prigionia e dividendoli tra quelli destinati, per qualche motivo ineludibile, o alla vita o alla morte. La frase è pensata inizialmente anche come possibile titolo del libro stesso, se non fosse per il fortunato intervento di Antonicelli, che propone come alternativa una citazione dalla poesia in epigrafe («Considerate se questo è un uomo … »). Quarant’anni dopo, viene ripresa come titolo dell’ultimo libro di Levi su Auschwitz, I sommersi e i salvati, del 1986 (ma anche, ci ricorda Barenghi, come chiave di lettura della raccolta La ricerca delle radici, con i suoi percorsi grafici della salvazione attraverso il riso, il capire, ecc.; illuminanti i commenti del critico su «la trama» di Levi come, paradossalmente, «una trama di salvazione»). E fin qui tutto abbastanza familiare. Ma forse nessuno come Barenghi – nel suo primo saggio del 1999, e quindi l’ultimo nell’ordine del libro, e in uno paio di quelli successivi – si è fermato a considerare il peso euristico effettivo del binomio «i sommersi e i salvati», constatando senza mezze misure che: «la forza esplicativa del binomio sommersi/salvati, a ben vedere, è piuttosto povera. Se questa è la sintesi – la formula, chimicamente parlando – di un’esperienza esistenziale così drammatica, ebbene, c’è di che preoccuparsi». 

 

La povertà del binomio è confermata dal capitolo stesso nel libro del 1947, che non riesce a sostenere la sistematicità dell’ipotesi iniziale, per non parlare della categoria sviluppata successivamente della «zona grigia», già implicita in Se questo è un uomo, e che poi diventa l’asse portante del libro I sommersi e i salvati, e di tutte le riflessioni articolate di Levi sulla contingenza, sulla casualità della macchina della morte nazista nel caos organizzato di un genocidio, per cui nessuno per definizione fu destinato a sopravvivere e tutti furono, statisticamente parlando, proiettati verso una morte certa. 

Ma il nostro critico non si ferma neanche qui, non ha nessuna intenzione di sminuire Levi con una dichiarazione del genere. Diventa piuttosto un nodo da sciogliere, sgomberando il campo di un’immagine di Levi come pensatore sistematico, come saggio-profeta tornato dal regno della morte con verità semplici da rivelarci. Notando l’incrinatura del concetto, Barenghi è in grado di mettere in relazione questo capitolo di Se questo è un uomo – scritto, ricordiamocelo, da un reduce ventiseienne – con l’opera intera, con tutto un modo di scrivere e con un modo di pensare malleabile e fluido. Dimostra come il binomio funziona invece come macchina generativa, non di sistemi analitici, ma di narrazione, di dimensione epiche oltre che etiche, di atti di umanizzazione nel buio del Lager (le vignette dei quattro «salvati» nel capitolo); e infine dell’emozione, un’emozione molto particolare che non è legata al sentimentale, ma invece alla carica emotiva di, appunto, un’ipotesi. Un'altra frase di Levi, ripetuta in almeno due libri e in due contesti diversi, diventa oggetto della lettura attenta di Barenghi: «Nulla è più vivificante di un’ipotesi» (Vizio di forma e Il sistema periodico). Un’ipotesi – come, per esempio, l’idea di dividere gli Häftlinge in sommersi e salvati – può, cioè, «dare vita» (vivificare), sconfiggere la morte, anche se, soprattutto se (come sanno gli scienziati) è sbagliata. In questo modo, l’ipotesi sommersi/salvati diventa «un reagente, o meglio, … un catalizzatore, che in una fase cruciale incentiva, o addirittura rende possibile, il processo della scrittura».

Seguendo questo doppio binario dell’analisi e dell’emozione, Barenghi focalizza la sua attenzione in altri saggi su un punto chiave d’intersezione all’interno dell’opera leviana, cioè sulle corde che legano Se questo è un uomo al Sistema periodico. Due opere, due autobiografie anomale, in qualche modo opposte, ma che s’incontrano, sia dentro Auschwitz-Monowitz (Cerio) che fuori e dopo, nelle coscienze dei sopravvissuti vittime e complici (Vanadio). Più che l’evocazione del Lager stesso, però, a Barenghi interessa l’intersezione con il libro del Lager, Se questo è un uomo, e quindi il 1946 e la genesi di questo atto originario di testimonianza, ora nel Sistema periodico filtrato anch’esso attraverso la memoria. È il capitolo Cromo che contiene il racconto, in fondo euforico, della genesi del libro, del ritorno al lavoro, al laboratorio, dell’incontro con la futura moglie e dell’apparente superamento del trauma, attraverso precisamente il doppio binario terapeutico dell’emozione e dell’analisi, e della compenetrazione tra i due nella parola prima orale poi scritta. La distillazione del trauma in forma della parola è per Levi «né più né meno, della chiave di volta del suo intero itinerario esistenziale» e perciò in Cromo possiamo dire che troviamo «tutto Levi in un racconto».

Il chimico e l’ostrica. Studi su Primo Levi è anch’esso un libro di compenetrazioni. I saggi di Barenghi sondano l’opera di Levi da tutte le parti e mettono ripetutamente in relazione luoghi e figure imprevedibili e originali. Seguendo un’intuizione di Umberto Saba, due saggi leggono Se questo è un uomo accanto a Le mie prigioni di Pellico, e alla letteratura della prigionia in generale, notando una straordinaria serie di contrasti e corrispondenze, tra cui anche il notevole successo di pubblico di entrambi, al di fuori dai ranghi dell’establishment della critica. Altri offrono una serie di close readings, per esempio della poesia Meleagrina e dell’autofigurazione di Levi come uomo-mollusco, «perlifero» e «poetico» (a conferma dell’ipotesi, troviamo la stessa metafora all’inizio del capitolo Ka-Be in Se questo è un uomo: «La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente»).

C’è poi un saggio bellissimo sull’immagine del latte in Levi, del latte materno spesso girato a male, dove l’analisi sfiora la psicanalisi (la madre assente, la madre cattiva?), ma alla fine la evita, concludendo che non è forse neanche necessario (qui si potrebbe aggiungere un accenno al Macbeth shakespeareano, già citato più volte per sia da Levi che da Barenghi, nei versi terrificanti di Lady Macbeth che esorta il marito all’atto regicida: «yet do I fear thy nature;/ It is too full o' the milk of human kindness / To catch the nearest way», per non parlare della «Schwarze Milch der Frühe» dell’amato e odiato Celan). E via dicendo, sulla categoria «uomo» per come si sviluppa al di fuori di Se questo è un uomo, sul concetto plurimo della giustizia in Levi, sul «grigio» della zona grigia come «luministico più che cromatico», sul Levi romanziere che non scrive romanzi, sulla paradossale assenza di morti in Se questo è un uomo e le tre eccezioni alla regola: ogni lettura-sondaggio apre orizzonti nuovi e dimostra il terreno fertile ancora da scoprire in Levi e la potentia legendi del critico con i mezzi idonei.

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