Primo Levi, uno e bino

11 Aprile 2014

Una stella tranquilla è un racconto di Primo Levi che apre la sezione “Futuro anteriore” del suo libro narrativo, Lilít, pubblicato nel 1981. Si tratta di un racconto strano. Inizia con la descrizione di un universo molto lontano e di una stella. Poi la voce narrante s’interrompe e comincia a discettare su tre aggettivi attribuiti al corpo celeste appena evocato: “grande”, “calda”, “enorme”.

 

 

Come si fa a descrivere qualcosa che sfugge alle dimensioni umane?, si chiede il narratore. E spiega come la definizione di grande o piccolo appartenga alla storia delle idee e delle percezioni dell’uomo. Poi di colpo cambia ancora marcia, e torna a raccontare, non senza aver riflettuto sul raccontare stesso, di una stella. Per qualche riga ancora la storia si mantiene su un tema astrofisico, sul fatto che la stella si sia trasformata in una “nana bianca” per via del suo consumarsi interno: brucia. Prima di entrare in una dimensione fiabesca – Levi evoca un antico astronomo arabo che l’ha osservata per molta parte della sua vita – parla della stella come se fosse una “persona”: inquieta, d’una inquietudine che viene osservata da altri e da molto lontano. L’astronomo che entra nella storia la tiene d’occhio per trenta anni, le dà un nome, poi muore, ma la stella continua la sua vita (si può chiamare così?).

 

 

Siamo nel 1750, poi nel 1950, trapasso in poche righe. Sta per esplodere. Il narratore ipotizza cosa succede a un pianetino lì vicino. Una pagina di pura poesia astrofisica; è la descrizione di una catastrofe: esplosione. Poi un nuovo cambio di scena. Entra Ramón Escojido, un astronomo peruviano di trentaquattro anni che osserva le stelle in una base situata a 2900 metri di altezza. Con lui la moglie austriaca e i figli. Quadretto famigliare: conflitto tra il carattere dell’uomo, volto al suo lavoro, e la moglie europea, che vive male nel reclusorio del centro astronomico. Stanno per fare una gita tutti insieme, padre, madre e figli, ma la notte prima Ramón scopre la stella tranquilla, la sua esplosione. Come farà a portare in gita moglie e figli se vuole-deve osservare questa esplosione nel cielo? Il racconto si chiude con un interrogativo. Si tratta di un racconto laterale di Levi, non uno dei più noti, ma già qualcuno ha avanzato l’ipotesi che la stella tranquilla sia lo scrittore stesso, l’ex deportato di Auschwitz. Tranquillo fino a un certo punto, come si capisce anche dalla biografia per immagini e disegni, graphic novel, di Pietro Scarnera, che reca come sottotitolo “Ritratto sentimentale di Primo Levi”.

 

 

Scarnera ha tratto da quel racconto l’ispirazione per posizionare il suo personaggio su un bilico preciso: tra apparente tranquillità, posatezza e saggezza, e invece il contrario, ovvero l’inquietudine che alberga nel pensiero e nella narrazione di Levi. Se vogliamo è un’osservazione abbastanza facile, ma non troppo. Per lungo tempo l’inquietudine di Levi, la sua complessa figura di scrittore e testimone, è stata collocata nel quadro della sua esperienza del Lager, dello sterminio ebraico, uno degli episodi più terribili del Novecento (e non solo). E sempre sottolineando la capacità di equilibrio, saggezza, intelligenza, pacatezza, dello scrittore torinese, Se questo è un uomo appare un libro in questo senso davvero esemplare. Ma se ci si avvicina all’opera di Levi e la si legge trasversalmente, ci si accorge che l’ambivalenza, la coppia quieto/inquieto, è già nel suo primo libro, là dove la poesia che apre il libro, da cui trae il titolo, appare come una invettiva molto forte, un monito terribile rivolto ai suoi lettori, mentre le prime pagine del racconto, la testimonianza, contengono una definizione opposta e simmetrica: questo, scrive Levi, è “uno studio pacato su alcuni aspetti dell’animo umano”.

 

 

La dicotomia è già lì, anche se per lungo tempo non è stata davvero vista, o almeno non si è visto che nella medesima persona albergavano due tendenze, o forze, opposte. Da qualche tempo si è cominciato a rileggere Levi in diagonale, passando dai testi testimoniali alla narrativa, dalla poesia alla testimonianza, dal racconto fantastico ai versi, e viceversa. In questo modo si è scoperto che tutto nell’universo letterario e testimoniale di Primo Levi è connesso, che anche le parti più narrative, quelle ricche d’invenzione, contengono elementi testimoniali. Domenico Scarpa, mettendo a fuoco la coppia chiaro/oscuro, ha contribuito a farci vedere come la stella-Levi non sia perciò affatto tranquilla. Come ricorda una delle tavole di Scarnera, là dove appare la Mole Antonelliana (simbolo di Torino, in origine sinagoga ebraica, architettura ingegneristica e moderna dell’Antonelli), si leggono parole che ci ricordano che una stella è un punto di riferimento perché brilla nel cielo (e Levi brilla tra gli stessi testimoni dello sterminio nazista), eppure non è così quieta – calma ed equilibrata – come sembra: “Ma si sa che, dentro, le stelle ribollono… e quando si spengono lo fanno in maniera fragorosa”.

 

Scarnera l’ha mostrato in tutta la sua evidenza, attenendosi ai fatti noti, agli aspetti comunicati da Levi stesso nella propria opera: si tratta di un autore e di una personalità umana complessa, e che non bisogna fermarsi all’aspetto piemontese, torinese in particolare, al suo sottotono, alla laconicità, alla moderatezza, per capire un uomo così acuto e penetrante come è stato il giovane scrittore di Se questo è un uomo, e soprattutto il maturo autore di I sommersi e i salvati. C’è dell’altro. E questo altro è reso manifesto dal suicidio, tema trattato in questo libro con tatto e delicatezza, con rispetto e attenzione. Perché Levi si è suicidato, e questa è una questione che, a detta di molti, cambierebbe la stessa lettura dell’opera, e forse anche della vita di Levi.

 

Non che il suicidio dimostri alcunché, ma di sicuro pone una serie di interrogativi cui tuttavia non sembra esserci risposta. Perché l’ha fatto? Parlando di Jean Améry, intellettuale ad Auschwitz, morto suicida (teorico del suicidio in un suo libro), lo scrittore torinese scrive che nessuno sa perché una persona si è suicidata, e per primo non lo sa chi compie quell’atto. Come questo libro mostra attraverso il linguaggio icastico del disegno, immediato e diretto (e mediante l’intervento delle parole, la costruzione delle immagini, delle scene, la successione stessa delle tavole), anche senza il suicidio la personalità di Levi appare complessa. Il tema della animalità che affiora mediante la metafora del centauro, evocata da Levi stesso a un certo punto della sua vita di scrittore (alludo al racconto Questio de centauris), della dualità, della divisione, della schizofrenia tra due parti opposte (termine usato da Levi in un’intervista del 1963), sta a indicare un fondamentale percorso di lettura della sua stessa opera. E questo a partire dalla figura dell’“animale-uomo”, che compare nel capitolo intitolato “I sommersi e i salvati” del suo primo libro, Se questo è un uomo, il capitolo più etologico e antropologico dell’intero racconto. Si tratta di una traccia, percorsa da diversi lettori, tra cui Mario Porro, che porta a rileggere in modo problematico, e quindi complesso e ricco, il lavoro dello scrittore.

 

 

Scarnera bordeggia alcune di queste questioni, fa affiorare dettagli della vita di Levi, rendendo scabro e discontinuo quello che fino a qualche anno fa la critica letteraria, o la critica tout court, riteneva invece liscio e continuo nell’opera stessa del nostro autore. L’uso che Scarnera fa di una foto di Mario Monge, che ha ritratto lo scrittore con una delle opere realizzate in filo di rame, raffiguranti animali, è solo un dettaglio, ma illuminante. Uno scatto in particolare, che figura ridisegnato nel frontespizio del volume è fondamentale: una maschera animale. Levi è problematico, non solo perché lo è la materia stessa del suo racconto testimoniale – il Lager, lo sterminio, la violenza, la vergogna –, ma perché è problematica la sua personalità di uomo e di autore (due parti inseparabili, e tuttavia differenti, unite ma non fuse completamente l’una nell’altra).

 

 

Questa problematicità è il risultato di Auschwitz, l’effetto di quella avventura estrema, oppure nasce prima, appartiene a Levi stesso? Forse entrambe le cose, anche se non sappiamo bene perché e come. Il suicidio non è il punto culminante della sua vita, quello che dovrebbe spiegare tutto, non è la prova del nove del suo senso di colpa, della vergogna (cose che ci sono, e molto presenti, nella sua opera), ma uno degli altri aspetti che definiscono quest’uomo così forte, duro, resistente, ricco di umanità, e insieme così delicato e fragile. La fragilità dell’uomo è uno degli aspetti che Scarnera mostra con più evidenza, ma senza che questo vada a detrimento della sua personalità; anzi, Levi esce da queste tavole come un personaggio notevole, in cui forza e debolezza si mescolano insieme dando un rilievo ancora maggiore alla sua figura di uomo e di scrittore. Robert Gordon l’ha detto in modo icastico nel titolo di un suo libro: Levi possiede le virtù dell’uomo normale. La sua straordinarietà consiste proprio nel paradosso di un uomo normale (e di buona memoria).

 

 

Un filosofo giapponese, Koji Taki, interessato a capire Torino e la sua storia, ha usato questa espressione: la genialità dell’uomo comune. Un ossimoro. Ma tutto Levi è un paradosso, come ci accorgiamo ogni volta che apriamo un suo libro e lo leggiamo. Diretto, chiaro, ma senza elidere o espungere il contrario: ciò che è indiretto, oscuro. Ci sono entrambi gli aspetti, opposti e complementari. Per capire “La stella tranquilla” forse bisognerebbe leggere un altro capitolo astrofisico di Levi, il suo opposto, quello dedicato ai “buchi neri”. Se la stella del racconto esplode, là in una poesia e in un capitolo della Ricerca delle radici, invece c’è l’implosione, l’azione contraria. Il buco nero è quello di Auschwitz, oltre che un fenomeno osservato dagli astrofisici. Qui si aprirebbe la possibilità di un lungo attraversamento in diagonale dell’opera dello scrittore, e anche dello stesso libro di Scarnera, che va letto così, e non solo in modo consequenziale, pagina dopo pagina.

 

Lo potranno fare i lettori. Perché su Levi il discorso non si chiude mai, ma continua sempre. Per arrivare alla fine di questa prefazione, vorrei richiamare uno degli aspetti fondamentali della sua opera: il testimone. Senza la testimonianza non ci sarebbe Primo Levi. Ma perché crediamo a Levi?, si è chiesto Mario Barenghi. Perché è uno scrittore, si è già detto. Senza quest’aspetto, senza la letteratura, senza la scrittura, Levi non sarebbe l’autore che è. Testimone perché scrittore, anche là dove arrotonda, come gli dicevano i suoi amici affascinati dai suoi racconti al ritorno dal Lager, là dove cede al giusto piacere delle storie che narra. Senza tutto questo, non sarebbe così efficace come lo è. Un altro aspetto della sua complessa personalità di cui Pietro Scarnera ci racconta da par suo, con parole e disegni, in modo davvero sentimentale.

 

Dalla prefazione a Una stella tranquilla. Ritratto sentimentale di Primo Levi di Pietro Scarnera

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