Renato Nicolini. Il postmoderno al potere

4 Agosto 2012

Nei miei vent’anni, quando per un po’ mi sono illuso di poter vivere la mia città, già da molti anni non era più la città di Renato Nicolini. I suoi tempi li ho vissuti, allora, come memoria collettiva (della quale si facevano occasionali, frammentari portavoce coloro che non solo quel tempo avevano vissuto, ma ne erano stati attori a pieno titolo). E come continuo, più o meno implicito, confronto col presente. Che in quegli anni Novanta si chiamava Walter Veltroni: un presente, per me, piuttosto deludente (non ha importanza che WV sia stato Sindaco della mia città “solo” dal 2001 al 2008; come nel caso del suo corrispettivo e complanare SB, la sua idea di cultura era egemone ben prima di occupare il posto-chiave – il MIBAC nel primo Governo Prodi e ancor prima, giusto nel ’92, la direzione dell’Unità). D’altra parte, in quegli stessi anni, Nicolini consumava il suo tentativo di cambiare gioco – cioè luogo. Deludendo a sua volta. Napoli non era, non è Roma; e la politica di Nicolini – come sapeva benissimo, lui, architetto di formazione e teatrante per passione – era sempre stata site-specific.

 

 

È stato lui (in un libro curioso incontrato anni fa su una bancarella, e che sfoglio oggi per la prima volta – mentre vengo a sapere che era stato ristampato giusto l’anno scorso, con prefazione di Jack Lang… –: Estate romana. 1976-1985: un effimero lungo nove anni, uscito per l’improbabile ma eloquente sigla delle Edizioni Sisifo nel 1991) a spiegare meglio degli altri, già dal sottotitolo, il paradosso che connota la memoria degli anni del suo assessorato, la famigerata Stagione Dell’Effimero. Non si può investire di “nostalgia”, né tanto meno tentare di riproporre in condizioni mutate, qualcosa che è nato senza l’intenzione di durare. Riprendendo la scena mitologica, da tanti altri raccontata, dell’afflosciarsi conclusivo del palco del Primo Festival dei Poeti, estate ’79, scrive dunque Nicolini: «il nostro movimento collettivo agì sulla struttura in tubi Innocenti del palco, che si adagiò lentamente e dolcemente sulla sabbia di Castelporziano. Quasi a volere simbolicamente sottolineare che quell’attimo non sarebbe più ritornato, era consegnato per sempre alla nostra memoria. Allora nessuno usava ancora il termine “effimero”: che ha precisamente questo significato».

 

 

Gli “anni Nicolini” venivano letti allora, dai fautori quanto dagli avversari, come la realizzazione dello slogan sessantottesco dell’immaginazione al potere. A posteriori – 1991, appunto – Nicolini non aveva dubbi nell’identificare altrimenti la matrice politica della sua carnevalizzazione della cultura (così trasgressiva nei confronti della seriosa tradizione piccìsta). Il suo libro – zigzagante e sinuoso proprio come lui, RN, nei movimenti e nell’eloquio – comincia così: «Che bell’anno che fu il 1977!». Non è un’espressione che lui amasse particolarmente, credo, ma non ci sono dubbi che al potere, in quei nove anni a Roma (laboratorio politico, una volta di più, destinato a molti tentativi d’imitazione – come detto votati all’infruttuosità), fosse andato in effetti il postmoderno. L’anima dell’Effimero era la mésalliance dei materiali culturali, il moltiplicarsi dei livelli di fruizione, il détournement dei contesti. L’Estate Romana degli anni d’oro vide l’incontro di Pina Bausch con Gigi Proietti, di Peter Stein coi fricchettoni della fantascienza, di Joseph Beuys coi fumettari. A Massenzio trionfò la proiezione del Napoléon di Abel Gance, ma il record di pubblico si registrò, ahimè, con la rassegna dedicata ad Alberto Sordi (ce lo meritavamo già allora, si vede). La stessa Castelporziano visse dell’incontro (o scontro) fra i maestri della Beat Generation (ma anche Amelia Rosselli) e i “minestrones” del pubblico, verseggiatori occasionali, che a loro volta pretendevano udienza. Lo scrive Nicolini nel suo libro: «Bisogna avere rispetto per le molte culture che formano la nostra società di culture frantumate e di individui sovrani» (ma, come ricorda ancora lui stesso il Festival dei Poeti, alla fine i “minestrones” fischiarono i loro stessi rappresentanti, una volta ammessi sul palco; e la famigerata “ragazza cioè” finì bueggiata senza pietà).

 

La stagione successiva ha preteso da un lato di continuare quel modello, dall’altro lo ha profondamente tradito. Il regime demagogico che chiamiamo Veltronismo ha sì elevato la mésalliance a pratica di regime, ma l’ha altresì deprivata di cesure, di scoscendimenti di piano e, dunque, di effettive occasioni d’incontro (o scontro). Così svuotandola dall’interno. Esemplare il re-enactement della Basilica di Massenzio col Festival delle Letterature, giunto lo scorso giugno all’undicesima edizione – le cui scelte, con la Letteratura, non hanno mai avuto molto a che vedere. Il Veltronismo, insomma, ha divinizzato Alberto Sordi (intitolandogli uno degli spazi più prestigiosi del Centro storico, la Galleria Colonna) ma Abel Gance, passata la stagione di Nicolini, ce lo siamo anche potuti scordare.

 

E infatti, a ben vedere, sul piano strutturale le scelte sono state opposte. Se Nicolini – il cui vero maestro era Beppe Bartolucci, teorico geniale del détournement degli spazi teatrali – ha voluto trasformare il Monumento in Circo, ma solo per una sera, al contrario Veltroni ha preteso di fare del Circo un Monumento. Di renderlo, cioè, un’istituzione. La “domiciliazione” della cultura (Casa del Cinema, Casa del Jazz, Casa di Questo E Di Quest’Altro), oltre che una distribuzione di prebende e clientele (e dunque uno strumento di potere), rappresenta – al di là delle apparenze – una visione profondamente conservatrice, istituzionale e continuista. Un addomesticamento perfettamente agli antipodi dell’Effimero (archetipo questo lontano ma non illeggibile – come dimostra il discorso fatto da Nicolini qualche mese fa al Teatro Valle Occupato, che abbiamo pubblicato su alfabeta2 – della stagione attuale dei movimenti Occupy col loro senso site-specific, appunto, del Politico). Così come pure il mito del Decentramento, iper-demagogico cavallo di battaglia del Veltronismo: Nicolini voleva fare in modo che il Centro appartenesse a tutti i Cittadini, anche a noi Forclusi nelle Periferie; non pensava certo, come invece è stato fatto nei decenni seguenti, a cospargere le Periferie di cattedrali nel deserto – così pretendendo di illuderci che tra Centro e Periferia non ci fossero più differenze.

 

 

Nicolini, dicevo, aveva una personalità squisitamente teatrale. L’ultima volta che ho incrociato il suo sorriso asimmetrico, a una mostra alla GNAM, mi ha invitato alla rappresentazione del suo ultimo testo. L’ultimo d’una lunga serie, andato in scena al Quirino lo scorso giugno col titolo Intorno a Mameli e alcuni altri, tra i quali l’eroico bisnonno del regista e il mio bisnonno garibaldino (regista dello spettacolo, un altro trickster della sua generazione: Ugo Gregoretti). Non potevo sapere che si sarebbe trattato, anche, del suo Ultimo Spettacolo; e colpevolmente non sono andato. So solo che Nicolini, in scena, vi interpretava nientemeno che «Il Mito Della Patria»: dando così, da par suo, il colpo di grazia all’insopportabile trafila delle celebrazioni Centocinquantennali. Ma che uno come Renato Nicolini ci abbia lasciato nelle vesti di Mito Della Patria, in fondo e oltre tutte le ironie, suona oggi più che giusto.

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