Narcisista, borderline, maniaco-depressivo / I tre caratteri di Christopher Bollas
Tre caratteri. Narcisista, borderline, maniaco-depressivo (Raffaello Cortina 2022) di Christopher Bollas, membro della British Psychoanalytical Society e figura di spicco tra i teorici della psicoanalisi contemporanea, è un libro che sceglie la via di esprimere i pensieri clinici in prima persona, facendo buon uso di una tecnica appresa quando l’autore studiava alla scuola di specializzazione in letteratura inglese. Dovendo rispecchiarsi con le multiformi sfaccettature e complessità dei personaggi, scoprì che poteva avvicinarsi ad essi solo mettendosi nei loro panni. Empatizzava con loro nella successione delle azioni che i personaggi mettevano in scena, disvelandone un possibile senso.
Bollas in Tre caratteri rievoca questa sua tecnica attraverso l’incipit del Moby Dick di Melville, che inizia con il discorso di Ismaele: “vado per mare perché se non lo facessi finirei per ammazzare qualcuno” (p. 11). In realtà l’incipit di Ismaele, nella traduzione di Cesare Pavese, è ben più complesso e si conclude in modo diverso: “ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente [Bollas si riferisce a questo passo], allora decido di mettermi in mare al più presto. Questo è il mio surrogato alla pistola e alla pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io cheto cheto mi metto in mare” (H. Melville, Moby Dick o La balena, Adelphi 1994, p. 37). Oltre al livello lessicale e stilistico abissalmente diverso nella traduzione di Cesare Pavese, ciò che in realtà evita Ismaele andando in mare (la citazione di Catone mi pare inequivocabile) è il suicidio.
Tuttavia, nel discorso psicoanalitico che Bollas sviluppa sin dall’inizio del testo, questo cambia poco: seguendo i pensieri e le azioni dei suoi personaggi, ciò che l’autore vuole sottolineare è che non esistono due borderline, due narcisisti o due maniaco-depressivi uguali. Ciascun disturbo del carattere, scrive Bollas, preclude la fecondità ricettiva e disseminata della personalità in un modo diverso e peculiare. Nei loro fiumi di coscienza, che possono variare grandemente, vi sono tipologie comuni di argini. Ogni paziente è un essere umano intero, complesso e unico (fiumi di coscienza che variano enormemente), ma è anche parziale e simile agli altri (tipologie comuni di argini). Lo sguardo diagnostico idiografico (l’irriducibile di ogni singola persona) e quello nomotetico (le leggi e le ipotesi generali) non sono mai separabili.
La radice di tutti i disturbi del carattere (e non solo, ovviamente) è il dolore mentale, e la sua ripetizione offre il “vantaggio” d’essere riconoscibile e individuabile. Si parte quindi dall’unicità di ogni persona con il proprio dolore perché l’esperienza del dolore si fa intimo raccoglimento dentro il limite di un corpo. L’esperienza del dolore come massima esposizione in Bollas si apre a una comprensione di unicità e soggettività, unendo filosofia, terapia e religione. Talvolta il dolore non può trasformarsi perché tende a ripetersi come ombra costante della vita, ed è ciò che Bollas chiama disturbo del carattere: struttura assiomatica che nel riconoscimento di leggi generali inquadra una configurazione border, narcisista o maniaco-depressiva. Ciascun disturbo costituisce sempre un tentativo intelligente della psiche di trovare una soluzione a un problema esistenziale: un’intelligenza sintomatica di adattamento disfunzionale alla vita.
L’analisi del carattere in Bollas aveva iniziato a prendere forma in L’ombra dell’oggetto (Raffaello Cortina 2018) e in La mente orientale (Raffaello Cortina 2013), per poi svilupparsi in Essere un carattere (Raffaello Cortina 2020). Come ricordava Moreno Montanari in un articolo su doppiozero dedicato a quest’ultimo libro, gli oggetti si rivelano capaci di fungere da “vocabolario dell’esperienza del Sé” (p. 18) per la loro “capacità di evocare in noi echi dell’originario holding materno, facendoci rivivere l’esperienza magica della trasformazione di uno stato d’animo, indotta dall’intervento di un ‘oggetto’ esterno”.
Con L’età dello smarrimento (Raffaello Cortina 2018) Bollas parte invece da acute esplorazioni storiche sull’Occidente negli ultimi secoli, in cui le scissioni sociali – con le differenze abissali tra miliardari e resto del mondo, tra chi lotta per la democrazia e chi cerca di corromperla, tra Sé che posseggono una coscienza sociale e Sé lontanissimi da questa – sono incluse all’interno di un contenitore dell’indifferenza che celebra paradossalmente incredibili progressi scientifici e tecnologici.
Bollas cerca di individuare le ragioni psicologiche sottostanti che hanno contribuito alle tante crisi che attualmente stanno inchiodando l’Occidente e il mondo intero. Propone chiavi interpretative di alcune patologie, come ad esempio gli stati maniacali o paranoici (dalla fine del XIX secolo passando dalla Grande guerra sino ai giorni nostri), come emergenti rispetto a ciò che la società ha generato attraverso la cultura predominante, a partire dalle diverse forme di comunicazione. Essa ha cristallizzato mentalità e stati d’animo spesso di delusione, tradimento, cinismo e indifferenza verso le generazioni che ci hanno preceduto. Bollas parla come un clinico che analizza innanzitutto le psicodinamiche della cultura dominante. Ciò che mi preme non è tanto l’esegesi critica dei testi di Bollas, ma sottolineare il suo saper analizzare alcune manifestazioni sintomatiche, come ad esempio la paranoia e la maniacalità, dentro un universo collettivo e condiviso, sollecitandoci a individuare nuovi modi di comprendere la società e la cultura in cui viviamo.
In Tre caratteri, il primo analizzato da Bollas è il narcisista che, incarcerato dentro la prigione di un pensiero rifrattivo, tende ad autodistruggersi. Il pensiero rifrattivo, a differenza di quello riflessivo, seleziona automaticamente caratteristiche marginali di qualsiasi comunicazione, “condannando il nocciolo della questione all’oblio ed espellendo qualsiasi linea di pensiero conseguente” (p. 15). In conseguenza di ciò, la comprensione viene sostituita da una confabulazione ad arte.
Il mito ci rammenta che la ninfa Eco viene punita da Era perché parla troppo. Non le è quindi più consentito dare inizio a un discorso: è condannata a ripetere solo ciò che viene detto da altri. Eco vede Narciso ed è abbagliata dalla sua bellezza, ma non può parlare. E quando viene vista da lui, viene rifiutata. Eco morirà lentamente in solitudine. Ma sappiamo che i miti sono tutti connessi, e che non perdono tempo nel trovare le giuste compensazioni. Arriva quindi la dea della vendetta che, con un movimento enantiodromico, porta Narciso di fronte a una fonte d’acqua che riflette la sua immagine, facendolo innamorare perdutamente. Ogni volta che Narciso si china per avvicinarsi a se stesso, la sua immagine va in frantumi.
Il mito di Narciso racconta anzitutto di rifiuti: Eco è rifiutata da Era perché troppo ciarliera e successivamente da Narciso perché non avvenente; Narciso è rifiutato da se stesso. L’Altro (Arnold Modell ad esempio parla del rifiuto originario di una madre troppo intrusiva) ci rifiuta e noi lo sostituiamo con un altro-noi-stesso. Questo è un mito che sa raccontare di contatti mancati e connessioni impossibili. Ogni cosa va bene se il narcisista si limita a contemplare in superficie l’immagine di se stesso, ma quando tenta di andare in profondità, tutto si frantuma e va in pezzi. Quindi sia Eco sia Narciso muoiono nel tentativo di avvicinare profondamente l’Altro principalmente come Altro dentro se stessi. Narciso non vuole relazioni profonde di reciprocità con gli altri perché potrebbe trovare parti di sé che non saprebbe gestire e controllare: la familiarità genera il disprezzo.
Bollas scrive che l’analista quando lavora con questo carattere si sente simile a Eco, che può parlare solo se riflette le parole del narcisista: se sbaglia parole, l’immagine di Narciso va in frantumi e la relazione analitica rischia di interrompersi. Dentro un meccanismo che ha l’idealizzazione di sé e degli altri come principale difesa, il narcisista definisce il suo contratto vincolante: io idealizzo te, tu idealizzi me lasciando così bloccato, come la statua di Ermione nella commedia di Shakespeare Il racconto di inverno, il sentimento del valore che il narcisista ha per se stesso, fragile e potenzialmente frammentato. Tutto ciò che non è idealizzato è denigrato o abietto, usando un termine che Julia Kristeva utilizza spesso per indicare quello che non soddisfa le richieste personali ideali. Questo stesso meccanismo può essere radice e fondamento del razzismo, del sessismo e del genocidio, nella proiezione su figure in cui si deposita tutta l’ombra del non Sé del narcisista.
Bollas ci dice che il linguaggio preminente che il narcisista consuma in tutte le sue relazioni è quello visuale: io sono chi o quello che sembro essere. La sua attenzione specializzata sull’espressione del viso, sulle posture del corpo, sugli intercalari sonori tra una parola e l’altra, è il barometro sensibilissimo che indica ciò che procura piacere o dispiacere. Il mondo è quello degli ideali, non delle idee. Bollas, citando Lacan, scrive che “parlare significa disturbare l’egemonia dell’immagine che vale più di mille parole” (p. 20). La parola destabilizza il narcisista perché egli perde di vista i segnali dell’immagine e della comunicazione preverbale che gli servono, in ultima analisi, per controllare gli altri ed eliminare tutto ciò che può entrare in conflitto con sé.
Emblematico è il suo mondo interno: vuoto e spesso virtuale, perché non sa frequentare le profondità dell’acqua e quindi non sa nutrirsi mai a sufficienza, restando sempre con la bocca aperta. Non ha la struttura interna per fare certe immersioni poiché queste implicherebbero la capacità di accogliere le differenze, e non solo un Sé sfavillante di luci abbaglianti e ideali nel mondo che egli stesso ha creato. Tutto ciò significa principalmente annientare il mondo interiore generativo perché il narcisista “uccide” la madre oggetto (madre come persona che dà cose al bambino e ne riceve da lui, ed è corporea, identificabile e responsiva) tentando di sostituirla con la madre ambiente (il mondo che attornia il bambino), nel consumo di oggetti che possono soddisfare la sua avidità. Egli è il consumatore per eccellenza.
Più il narcisista consuma, più ciò che trova è il sentimento di vuoto interiore che può trasformarsi in orrore quando diventa consapevole di non aver vissuto la propria vita. La depressione e la pulsione di morte che ne conseguono, nella migliore delle ipotesi, sono forse l’unica vera occasione di cambiamento e trasformazione; nella peggiore (ciò che Bollas chiama narcisista negativo), si trasformano in rabbia e vendetta distruttiva attraverso una sorta di allucinazione negativa (depressione psicotica) che si nutre della parte peggiore della vita. Con l’avanzare dell’età il Sé grandioso del narcisista è costretto ad abdicare facendo tragicamente esperienza del tempo della vita. La perdita dell’onnipotenza può essere l’ultima occasione per guardare il mondo con altri occhi, con gli occhi degli altri un po’ meno ideali e un po’ più imperfetti.
Se il narcisista sembra fare di tutto per allontanarsi dal dolore, il borderline pare invece ricercarlo incessantemente, in un crescendo senza fine. I mondi interni ed esterni di questo carattere sono isole autonome infuocate, disorganizzate e inondate di collera. A differenza del dolore dello schizofrenico (che Bollas approfondisce in un bellissimo testo, Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia, Raffaello Cortina 2016), che cerca di oggettivarlo ed evitarlo, il borderline lo amplifica in un abbraccio mortale con l’ombra della vita. Il sogno e la vita si palleggiano l’angoscia (questa è la percezione del borderline) confusi l’una con l’altro, dentro un corpo trascurato (poiché il corpo evoca le parole e viceversa) che fa da cassa di dissonanza incapace di accogliere quei contenuti debordanti. La destabilizzazione emotiva viene perseguita ovunque, soprattutto nelle relazioni selezionate con dovizia di riconoscimento: il border cerca border perché questo è l’unico linguaggio identitario che riconosce vicino e familiare, con il desiderio infinito di trovare l’oggetto d’amore e potersi fondere con esso. Ed è con questo desiderio di fusione che Bollas riprende il Moby Dick di Melville nella figura del capitano Achab, che egli considera la quintessenza del borderline.
Il capitano Achab in realtà è l’emblema della malinconia che emerge evidente nei suoi meravigliosi monologhi con il sole… e non c’è quasi episodio nel Moby Dick senza il tema della malinconia. Bollas intuisce nei borderline qualcosa che si nasconde dentro il filo nero della trestizia come stato perpetuo di dolore, che con maestria Melville secerne nel libro. Scrive Melville: “Di sotto al cappello calcato, una lacrima cadde nel mare dall’occhio di Achab; tutto il Pacifico non conteneva tante ricchezze che valessero quella misera goccia” (Melville, Moby Dick o La balena, cit., p. 555).
Questo potere di rigenerazione della lacrima di Achab (o di lutto per un attaccamento che sta per finire con la balena bianca) è però molto difficile trovarlo nell’organizzazione di personalità borderline, che ha rappresentazioni totalmente diffuse (inconsistenti) e mortifere che si associano a comportamenti sempre uguali nella loro coatta ripetizione, e che tendono a riportarsi e rapportarsi al trauma originario. Il corpo maltrattato ne è rappresentazione tra le più evidenti e spesso la bulimia (meno frequentemente l’anoressia) è la tipica espressione di riempimento inesauribile di vuoti. Un corpo esteso che chiede senso e determinazione a fior di pelle; come se si cercasse una nuova lacrima a partire da un corpo che non sente o sente solo in modo astratto, dalle sue trasfigurazioni e dal desiderio di collegarsi al sentimento di una tattilità originaria. È anche una questione di tatto… La tattilità originaria è una terra di fantasmi e di attaccamenti nocivi. Per potervi accedere il borderline utilizzerà, come comunicazione elettiva, una serie ininterrotta di metafore e di espressioni narrative che non sono altro che un’allegoria per mettersi in relazione con l’Altro. La cura di questa sintomatologia è soprattutto la possibilità di comprendere, interpretare (Bollas, giustamente, si differenzia da molti psicoanalisti che ritengono che non sia possibile nessuna mentalizzazione con il borderline) e trasformare questo linguaggio allegorico in un linguaggio fatto di descrizioni riconoscibili e non solo astratte, al fine di ricostruire un mondo interiore vivibile come una buona madre.
La persona che soffre di depressione maniacale è l’ultimo carattere analizzato da Bollas. In questo caso, l’estremamente alto strizza l’occhio all’estremamente basso perché l’essere estremo è la caratteristica precipua di questa sofferenza. Il radicale rifiuto per la vita è la tonalità maggiormente riscontrabile, talmente presente che basta un piccolo stimolo interessante per virare nell’esaltazione maniacale. Esaminando la biografia di chi soffre di questi sbalzi estremi, si evidenzia anzitutto un’assenza di memoria, troppo debole, indifferente e pallida negli stati maniacali, e troppo assente negli stati depressivi. In fase maniacale, il lavoro sulla memoria e sul senso di ciò che sta accadendo può rallentare (velocità terapeutica fondamentale con tali patologie) il corso dell’episodio, avvicinandolo alla terra e alla quotidianità, normalmente disprezzata e vilipesa. Il recupero della memoria ha una funzione ponte preminente tra le dimensioni Puer e quella Senex, tra l’immensamente alto e l’immensamente basso, tra i voli grandiosi e il greve peso depressivo e sacrificale, il tutto intrecciato da un complesso e profondissimo dolore. Nonostante l’eziopatogenesi di questa sofferenza peschi spesso dentro elementi organici e biologici, non si deve mai abbandonare la domanda di senso che tutti i sintomi chiedono disperatamente.
Anche l’insalata di parole che spesso le persone in fase maniacale esprimono, è densa di significato se ascoltata nel giusto modo, come fossero associazioni libere che richiedono lo sforzo di un’altra forma del pensare e del sentire. Sovente sono persone che nella loro vita non sono mai state ascoltate attentamente e che hanno dovuto accelerare sempre più il loro discorso per poter aprire dei varchi di riconoscimento. La mente diventa un oggetto unico di ascolto mentre il mondo fuori si trasforma in assenza, nel paradigma assoluto dell’assenza. Nel maniaco-depressivo, la possibilità di ricostruire le proprie radici e la ricostruzione di una memoria sono il vero sostituto ai voli grandiosi e megalomani dello stato maniacale che, dall’alto, riconosce solo l’ordinaria e banale quotidianità, fatta di solitudine interiore ed emarginazione.
Pregevole in Bollas l’intento di coniugare il riduzionismo delle cause biografiche della malattia con un senso più complesso e finalistico (di orientamento) del dolore, anche se ciò non è esplicitato e sviluppato esaustivamente. Nonostante gli accenni alla mitologia, Bollas non ne ri-conosce l’enorme portata psicologica e simbolica, ancorandola più a un meccanismo di difesa simile a quello religioso: l’illusione d’essere come un dio nella fase maniacale, o essere protetto dagli dei nei momenti peggiori, perché qualcuno dall’alto può sempre governarci e aiutarci a eliminare gli aspetti tossici della vita.
La luce di dio, dal punto di vista mitologico, ricorda da vicino uno gli studi di Károly Kerényi con Carl Gustav Jung, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia (del 1941 e tradotto in Italia da Bollati Boringhieri). Kerényi, riguardo alla figura del Puer, analizza l’infanzia di uno degli eroi del più grande poema epico finnico: il Kalevala. L’eroe in questione è Kullervo, dalla grande resistenza fisica e dalla forza soprannaturale. I suoi nemici cercano in ogni modo di sconfiggerlo, ma senza risultato: Kullervo (in fase maniacale) riesce a superare ogni prova. Tentano di attaccarlo a un albero per dargli bastonate, ma si libera subito. Lo buttano nelle profondità marine, ma riesce a tornare in superficie più forte di prima. È quindi invulnerabile e invincibile.
Questo luogo di invincibilità è percepito come l’unico posto dove ci si possa curare dall’insignificanza e grevità della terra, che però prima o poi arriverà a chiedere pegno nelle fattezze del lutto e della malinconia. Lutto e melanconia di Freud e Il lutto e la sua connessione con stati maniaco depressivi della Klein sono riferimenti impliciti nel testo di Bollas. Queste persone dalla doppia personalità, nella luce della mania si sentono un dio che nutre e feconda il mondo: un processo di sessuazione senza l’idioma dell’intimità e della relazione, senza il desiderio reale di unirsi all’altro. Essere in due in uno è la fede inconsapevole del maniaco-depressivo: la propria mente diventa l’unico rifugio-oggetto d’amore, in cui ci si consuma in modo incestuoso e autoalimentato.
Con questi pazienti sono proprio la relazione e l’intimità gli idiomi maggiormente cercati e costruiti in terapia, terapie lunghissime e faticose che, con l’ausilio di una cura farmacologica, devono rallentare e fiutare il senso nelle parole, che quando pronunciate non si sentono o sono espresse a velocità della luce. “Tutto questo comporta che la dimensione intersoggettiva possa stabilirsi progressivamente. Per il maniaco-depressivo è fondamentale che vi sia un altro nella stanza che ha una mente differente, un modo diverso di pensare, parlare e comunicare. Lo scopo, in primo luogo, è lo sviluppo di questa matrice intersoggettiva” (p. 159). Ed è incestuosa talvolta la genesi di questa malattia: l’assenza del padre, scrive Bollas, non ha aiutato la costruzione di una misura, di una forma e di un processo che sappiano stabilizzare i diversi colori della vita e reggere le esclusioni frequenti di cui è spesso stato vittima il maniaco-depressivo. Il non sentirsi mai veramente ascoltato lo porta ad ascoltare solo la sua mente, che sa rigenerarsi vicino a dio e non agli umani… troppo banali, piccoli, ordinari.
Bollas, in Forze del destino (Borla 1991), ci ricorda la differenza tra fato e destino. Il primo sottolinea l’irrazionalità e l’impersonalità degli avvenimenti, il secondo accetta l’idea di un corso inalterabile di eventi. I sintomi di ogni carattere rappresentano una persona colpita dal fato e nel contempo sanno parlare di destino potenziale. Se la parte colpita dal fato possiamo collegarla alla “falsa vita” o falsa via percorsa dai caratteri patologici (ma appartenenti a tutti noi, in una certa misura) fatti di macerie, rotture, scissioni… la parte colpita dal destino, invece, dovrebbe concedersi all’idea di futuro come dono, come pulsione alla realizzazione di un vero potenziale, come costruzione di un nuovo senso, magari illusorio, ma certamente salvifico. Scrive Bollas nelle ultime battute del libro sui Tre caratteri: “la cura, per così dire, consiste nell’aiutare questa persona ad ascoltare se stessa […], a imparare dal proprio inconscio e nell’aiutarla a sviluppare con se stessa nuove conversazioni più generative” (p. 166).