Elvio Fachinelli: guardare con gli occhi del mondo mai visto
In Esercizi di psicanalisi di Elvio Fachinelli (Feltrinelli 2022, con Prefazione di Massimo Recalcati) sono raccolti testi ritrovati “in soffitta”, per lo più inediti e difficilmente reperibili, che Fachinelli affidò all’amico psicanalista Lamberto Boni, da febbraio 1971 a dicembre 1988. Questi scritti si muovono nell’impronta biografica di Fachinelli, seguendo creativamente la sua voce a partire dal dialogo con i testi di Freud, ma non solo, e spostando le possibilità di inquadratura in quello spazio sacro del Tra che sa interfacciare lo psichico con il somatico. Un corpo che sa parlare d’amore anche dentro il processo analitico.
L’inconscio è sintomo e cura nello stesso tempo: “se l’inconscio plasma l’intero organismo, esso è all’origine non soltanto di tutte le malattie, fisiche e mentali, ma anche della loro guarigione”(Esercizi di psicanalisi, p. 54). Fachinelli, anche in questi “esercizi”, manifesta il suo spirito dissidente, sorprendente, unito alla fiducia per qualcosa che eccede le ripetizioni che sempre nello stesso modo bloccano le nostre vite, con la possibilità di apertura all’inedito anche solo per un minimo scarto.
Scrive che nell’uomo arcaico il mito funge da modello, “tanto che la sua vita è stata definita una vita per citazioni” (La freccia ferma, Adelphi, 2021, p. 57): per ogni azione significativa, egli ricerca il senso che orienta verso un modello mitico di riferimento, fondando così la storia dell’agire. Le tecnologie mirano, “grazie al differenziamento magico dello spazio e del tempo, alla possibilità di creare una serie di multipli d’emblée, senza un originale che sia primo” (Esercizi di psicanalisi, p. 69). Non più copie, sosia, modelli che fondano l’agire e l’impegno su precise ritualità (se questi comportamenti fedeli a un “solco” venissero infranti, ci sarebbe modo di riparare al senso di colpa con previsioni di contro-ritualità di purificazione e annullamento). Bensì multipli, sin dal primo atto creativo: si confonde così la realtà con il verosimile, e si confondono i riti con i comportamenti ossessivi (l’ossessivo tenta di riprodurre ritualità che si perdono nella modernità con il fallimento dei passaggi trasformativi). Si perdono di vista i criteri della distinzione e della connessione tra i riti e gli oggetti di culto (come ad esempio le religioni), sempre più sbiaditi e sconnessi dalla vita: ci si deve muovere come funamboli sulla corda. Il tempo di cui parla Fachinelli è un tempo mitico, non lineare, un tempo che mi riporta al favoloso bestiario policromo delle grotte preistoriche… a un immaginario vecchio di ventimila anni, che parla della preistoria, ma allo stesso tempo parla di me, di tutti noi. Nelle profondità delle grotte, Cro-Magnon disegnava con la luce, illuminava le forme della propria esperienza su questa terra. È lo stesso linguaggio che Fachinelli, in un articolo sul “Corriere della Sera” del febbraio 1979, indicherà come il più rappresentativo e vicino alla complessità della psiche, nella possibilità di dare risposta a un bimbo che chiede alla madre da dove vengono i bambini. “La risposta scientifica dei genitori risulta per il bambino del tutto insufficiente rispetto alla complessità dei problemi che egli si pone (…) non solo insufficiente: egli può trovarla anche angosciante” (Esercizi di psicanalisi, p. 126): sarebbe da privilegiare la risposta mitologica della cicogna, “più globale e meno angosciante”.
Come quando sulla spiaggia, davanti al mare, Fachinelli improvvisamente accoglie lampi di intuizione, pensieri sintetici che provengono da un’altra parte, e li trova affini a quanto avviene nel processo dell’invenzione, che sia questa scientifica o non scientifica. “È l’improvvisa comparsa di un materiale organizzato, coerente, a partire da frammenti; a partire, spesso, dalla disperazione di riuscire in un compito consapevole. Dunque, non importa l’ambito della scoperta (…). Importa quel movimento chiaro, netto (…), che mette a posto, ordina, dà forma, e insieme inonda di gioia e certezza” (La mente estatica, Adelphi 1989, p. 17). Per accedere a quest’altra forma del pensare, Fachinelli deve socchiudere gli occhi, deve limitare lo sguardo, deve diventare “non vedente” come Edipo a Colono: per sentirsi più vivo, per accedere al proprio paesaggio biografico, per accedere all’imprevisto indicibile delle percezioni, all’imponderabile perturbante dell’esperienza, non ingabbiabile dalle preordinazioni teoriche e sistematizzanti. Quelle delle istituzioni ad esempio, viste come difesa claustrofobica di una certa pratica psicoanalitica ortodossa, vittima del suo stesso inconscio, e che Fachinelli sentirà a tratti come una sorta di lavoro macchinico proto-industriale: dall’Honorarium medico ricevuto per onore, ad esempio, si è passati al salario fisso dentro orari di lavoro (l’intervallo delle sedute) rigidamente prestabiliti su base soggettiva e tramutati in leggi universali o, appunto, ortodosse e poi soggette a variazioni nel tempo (da un’ora si è scesi a 40-50 minuti; da sei sedute settimanali a quattro, poi tre ecc.) in correlazione alle modificazioni del lavoro dipendente, lasciando però inalterato il dispositivo “di vivere e far vivere il tempo” (Claustrofilia, Adelphi 1998, p. 41). Come scrive Paulo Barone, “si fa sempre più chiaro che ogni sapere, a cominciare dalla psicanalisi, diffondendosi, raffinandosi, approfondendosi, è come se entrasse autonomamente nella sua fase ‘industriale’, ‘necroforica’, e diventasse esso stesso il problema da risolvere, la bottiglia da cui fuggire, l’armatura difensiva da dismettere” (“aut aut”, n. 352).
L’autentica esperienza con l’inconscio sa invece guardare con gli occhi del mondo mai visto, in una visione prospettica rivolta anche alla vita futura che eccede e trascende le tracce della storia passata, oltre la produzione di ripetizioni, per una ripresa creativa. L’esperienza dell’analisi per Fachinelli è sempre possibilità di scompaginare l’ordine irretito dai nostri schemi conformi, uniformi, lucidati di falsa acquiescenza come se fossero ingannevolmente nuovi. È invece l’imprevisto – come il mai visto a sufficienza – il teorema da risolvere, più vicino agli stati sospesi e ai vuoti precari, da accostare, che girano sul filo dell’esistenza: sempre unica, particolare, inconfondibile. Ciò è già evidente nella premessa al libro del “bambino dalle uova d’oro”, là dove Fachinelli scrive di “un sapere inquietante, e sapere dell’inquietante (das Unheimliche), come fu quello di Freud rispetto alla coscienza della società occidentale del suo tempo; un sapere che, come quello, scopra e dica l’inquietante in ciò che in apparenza ci è più familiare e consueto” (Il bambino dalle uova d’oro, Adelphi 2010, p. 12). Così dovrebbe muoversi la psicoanalisi, come un nuovo esercizio filosofico e una pratica del pensiero che parte sempre radicalmente da se stessi, per costruire la possibilità, anzitutto, di porsi domande e non risposte: “dopo il congresso di Roma, ho parlato di una psicanalisi della domanda, dell’interrogazione, contrapposta a quella della risposta” (Esercizi di psicanalisi, p. 82). Una domanda che risuona con il mondo dell’infanzia, e che viene ripresa in questo testo con un articolo ritradotto dal tedesco attraverso l’opera profetica di Benjamin, come tensione aperta al futuro e non “scartata come utopistica”. Il programma per un teatro proletario di bambini di Benjamin esige che nell’educazione del bambino si “afferri l’intera vita”. L’avvenire, scrive Benjamin, “si manifesta nel gesto infantile, che di esso è il segnale segreto”, perché l’idea di felicità che Fachinelli richiama leggendo Benjamin “è tutta tinta nel tempo”. E sarà quel tempo delle parole non dette, delle persone non sufficientemente conosciute che solleciterà Fachinelli a pensare a una possibile felicità unità alla Redenzione. Sarà il dialogo tra il circoscritto, il chiuso (qui in particolare si riferisce storicamente alle classi, alla concezione marxistica, ai programmi educativi di partito ecc.), e l’illimitato aperto germinativo dell’intera vita a rappresentare, anche in questo esercizio di scrittura, la tematica principale di Fachinelli. Come scrive Sergio Benvenuto in un articolo apparso su Doppiozero il 21 dicembre 2019:“ Il suo pensiero presto ruotò attorno a una dicotomia, che assumerà varie figure: da una parte la vita come movimento eracliteo, temporalizzazione cinetica; dall'altra l'angustia della spazializzazione e pietrificazione. Al primo registro, che chiamerei vitale-temporale, appartengono l'agitazione politica e motoria, la gioia creativa, i movimenti conviviali in statu nascendi […]. Al secondo registro – che chiamerei mortifero-pietrificato – appartiene la gestione igienica e tecnocratica dei bisogni, il controllo burocratico, le istituzioni ingessate per proteggersi dalla dinamica della vita[…]. Una felicità tinta nel tempo che nelle sedute d’analisi dovrebbe trovare lo spazio per la “comunicazione” e non solo per il “dire”, poiché quest’ultima modalità esclude i segni del corpo, come il pianto, il riso, lo sguardo, con tutto il corteo fisiognomico delle posture possibili. Imbrigliare la relazione analitica al solo dire della parola tradisce quella libertà associativa come portatrice potenziale di nuove interpretazioni della vita.
Fachinelli interpreta questa pratica a partire da se stesso (come fece Freud), con tutta la sua vita, privata e pubblica insieme, ponendo la stanza dell’analisi sull’uscio della porta, “senza fissa dimora” e aperta – a partire dal particolare della propria esistenza – sulla città e sulla politica: come una membrana cellulare che, facendo da interfaccia tra la coscienza individuale e quella collettiva, dovrebbe consentire almeno un passaggio semimpermeabile per far passare (nel senso di superarle, ma anche di lasciarle transitare) le paure nei confronti dell’altro e del diverso. Si tratta di un itinerario che è al contempo culturale e politico, e Fachinelli ci guida nella sua comprensione e decodificazione: ne parla – come ricorda Lea Melandri in L’attualità inattuale di Elvio Fachinelli (Ipoc 2014) – in tre importanti articoli che uscirono sulla rivista “L’erba voglio” e che poi furono raccolti in un unico saggio, Il paradosso della ripetizione, pubblicato nel libro Il bambino dalle uova d’oro. Come scrive Pietro Barbetta in un articolo apparso su Doppiozero del 15 Marzo del 2016: “La mia lettura “politica” di Fachinelli è pur sempre quella di uno psicoterapeuta che affronta, oggi ancor di più, in le condizioni di crisi economica, di dominio delle multinazionali e di una burocrazia corrotta e soffocante. Le prime fanno profitto (gioco d'azzardo, big pharma, incroci politico affaristici, neo fascismi “neoliberal”) sulla pelle dei nuovi Gianni/Pierini, che siamo noi (gli intellettuali e gli studiosi hanno perso la loro posizione privilegiata da molto tempo), la burocrazia favorisce vari tipi di mafia, sotto il velo della neutralità. Per noi, oggi, le parole di Fachinelli suonano come profetiche e nello stesso tempo rimangono l'unica opportunità etica e di ricerca[…]”. Sogno e storia si confondono come antagonismi reali, costruendo la “lingua altra” con cui parla il mondo del rimosso: “il sogno osa generalmente più di quanto si permetta il sognatore da sveglio. Di qui l’idea di Freud di trasferire questo oltrepassamento della coscienza vigile nella cura dei nevrotici. Il sogno testimonia di ciò che vuoi essere – ciò che puoi essere, allora” (La mente estatica, pp. 15-20). I sogni e il mondo immaginale, come scrive Lea Melandri, “possono essere, in situazioni di maggiore consapevolezza, degli ‘indicatori preziosi’ di ciò che ‘vorremmo’ essere, e quindi ‘potremmo essere’. In una nota redazionale all’articolo di Valentina Degano, L’apprendista e il fotoromanzo [in “L’erba voglio”, n. 1, luglio 1971, p. 9], Elvio scrive: ‘Solo un agire che riesca a trasferire su di sé la capacità di mutamento che è ora del sogno, potrà eliminare la necessità di quei sogni; un agire che spezzi la separazione tra sogno (impossibile) e realtà (più che possibile). Di qui, l’indicazione politica: per poter veramente lavorare con la gente, per poterla concretamente toccare, bisogna passare, e non è ironia, proprio attraverso i suoi sogni” (L’attualità inattuale di Elvio Fachinelli, p. 16). “Quell’andare fuori di sé” accoglie, allenta le difese, sogna, fantastica, attende, scuote le vigilanze… Gli occhi del femminile accogliente si riflettono nel maschile dirimente e viceversa, in un dialogo tra centro e periferia, periferia e centro che per Fachinelli – distanziandosi da Freud e dalla sua rappresentazione del femminile come mancanza – significa superare il primato simbolico del fallo per con-fondere elementi attivi e passivi sin dalla nascita, ad armi pari. Fachinelli, da una serie di sogni dei suoi analizzati riportati in Claustrofilia, decodifica simboli onirici legati alla nascita associando il partorire e il nascere, così come il morire, a posizioni contemporaneamente attive e passive, appartenenti ai movimenti basilari dell’esistenza.
Importante sempre è l’esercizio dell’immaginazione che scompagina la parola codificata, per riunirla con il sentimento poetico di chi sa trasformare le briciole del mondo in mondi possibili e desiderabili. Anche Freud sapeva che c’era il mare, davanti al cortile senza alberi della sua casa in Berggasse, con la finestra dello studio affacciata su un muro di cemento: “bisogna rovesciare la prospettiva (…). Non inibizione, rimozione, negazione eccetera (…). Dalla foresta appuntita delle difese non si esce. Ma invece accoglimento, accettazione, fiducia intrepida verso ciò che si profila all’orizzonte” (La mente estatica, pp. 23 e 16). Non si tratta più quindi solo di adattare il desiderio inconscio al mondo sovrapponendosi all’Es bensì, cogliendone la sua vocazione, di adattarlo progressivamente all’inconscio in una direzione più sorprendente e dionisiaca piuttosto che apollinea. Jung ci inviterebbe a diventare il più dignitosamente possibile inconsci. Ed è tra il bisogno e il desiderio che per Fachinelli – riprendendo Lacan quando distingue besoin e désir – si pone la relazione fondamentale tra una risposta immediata e urgente (bisogno) e una mediata e più assimilata alla storia personale-biografica (desiderio).
Nell’esercizio 22, Babele, sarà Giuditta di neanche due anni a rappresentare “la straordinaria capacità (…) di demolire in un attimo ogni fissità funzionale degli oggetti e delle situazioni (…) ogni giocattolo è dotato di anima” (Esercizi di psicanalisi, p. 166). Mentre ci stiamo affannando a costruire un mondo virtuale, artificiale, macchinico, Fachinelli ci riporta a Giuditta e ai suoi occhi “sul più meraviglioso Paese dei Balocchi che si sia mai visto” (ibidem).
Il lavoro più maturo e radicale di Fachinelli, La mente estatica, penso sia stato anche una possibile risposta all’uomo ossessivo della Freccia ferma: negli Esercizi di psicanalisi, tra le sue inedite conclusioni a un seminario organizzato nel 1978 dall’associazione di psicologia critica di Milano, Fachinelli scrive: “Se manca a un rituale, teme la grande ansia (che è quella che intravede di poter, anche solo per attimi, socchiudere gli occhi davanti al mare), cioè di diventare matto, non riuscire ad avere neppure quel poco che ora ha” (ivi, p. 114). L’invito è a uscire dai benefici secondari del sistema, e delle istituzioni stagnanti psicoanalitiche, elevando i ragionamenti verso un antisistema, come se dovessimo consapevolmente morire alla fine di ogni giornata vissuta. Leggendo questi appunti clinici di Fachinelli, ricordo una persona in analisi con me che ripeteva ogni giorno decine di volte la stessa strada percorsa in macchina pensando che, a causa di un rumore qualsiasi sentito guidando (allucinato), avesse investito qualcuno. Sarà l’uccisione simbolica del padre castratore a sbloccare parzialmente quella “freccia ferma”, quel “soggetto della macchina”, per riportarlo nella dinamica del tempo che fornisce “spunti di accrescimento, di storia personale (…) contaminazione storica sul resto della vita” (ivi, p. 115).
Le prese di distanza di Fachinelli da Freud si fanno sentire quando (forse più tra le righe) legge l’inconscio delle ossessioni e delle ripetizioni richiamando i miti e i riti; le ossessioni/ripetizioni abitano diverse profondità ben più stratificate e profonde del subordinato inconscio delle rimozioni (Freud), dove spesso l’unica forma di eros è quella per la propria legge sadica o masochistica, favorendo la sottrazione di vita e di reale. Ed è proprio in questa situazione che l’analista, di fronte al soggetto macchina che ricerca il chiuso, si trova in una posizione unica: come Fachinelli scrive nell’esercizio 13, “è una scaglia di reale, duro come la pietra, e nello stesso tempo comunica con i fili del labirinto. È su questa linea di passaggio, su questo margine, in cui affiorano attraverso il transfert i conflitti storici, che si gioca l’analisi” (ivi, p. 117).
Sarà lo sviluppo dinamico di equilibri di connessione inediti tra le parti (l’autorità del sistema e la supremazia del reale) la finalità ultima dell’analisi e di quell’analista “prostituta” che, nel ripetersi del tempo delle sedute, sa frustrare e far risorgere costantemente l’esperienza agognata del corpo dell’amore e dell’amore taciuto, all’interno di una speciale e disumana perversione che vieta di toccarlo. L’elemento differito di un’apertura che come un miraggio, o come la cerva bianca per gli alchimisti, si sposta continuamente in avanti mentre la si insegue nella realtà aperta. “Ad uno scacco reale nel presente si sostituisce una vittoria irreale nel futuro” (Claustrofilia, p. 48). È la postura clinica di Fachinelli verso un nuovo sapere, che risuona nelle parole di Lea Melandri quando scrive che per lui “L’uscita dalle contrapposizioni dualistiche significava, in positivo, cercare i ‘nessi’, i legami che ci sono sempre stati tra aspetti diversi dell’esperienza, ma la cui esplicitazione costituiva un problema della ricerca” (L’attualità inattuale di Elvio Fachinelli, pp. 12-13).
“La stessa critica a ogni forma di dualità, che attraversa tutta la sua opera, si può rivolgere a chiunque pensi di poter separare, nella figura complessa di Fachinelli, il pensatore politico dallo psicanalista, l’osservatore della società dal clinico rigoroso che non ha mai smesso di interrogare la Sfinge analitica” (ivi, p. 6). Su “L’Espresso” del 12 agosto 1979, Fachinelli nell’articolo E se avete cancellato un po’ troppo? risponde alla psicoterapeuta Debora Phillips, riguardo al suo libro bestseller del 1978 scritto con Robert Judd, How to Fall out of Love. A differenza della posizione della dottoressa Phillips, Fachinelli sostiene che i lutti vanno attraversati con la memoria e non con le tecniche baldanzose dei consumi delle merci che vorrebbero cancellare e sostituire la persona amata come un relitto da sostituire. Innamorarsi ancora significa tenere il filo della memoria, ritirare le nostre proiezioni restituendo al mondo la preziosità di ciò che si è vissuto. Per Fachinelli la questione si gioca sulle orme della neve: immagine poetica ed etologica, arcaica e forse patetica, ma sempre più rara, come le orme degli animali selvatici, scrive Fachinelli. Il punto fondamentale è che le risposte consumistiche come quelle della dottoressa Phillips rischiano non solo di cancellare l’impronta di chi è passato dentro la nostra vita, ma di eliminare anche la neve. Impronte che si spingono sino alla vita perinatale come splendore abbagliante, come ritorno simbolico nel mare da cui siamo nati e da cui si può sempre irrimediabilmente e catastroficamente rinascere e morire. “È come quando un lampo, di notte, rompe l’oscurità e compone un paesaggio: la massa confusa di un albero, il biancore di una casa, il profilo di un monte non sono più elementi isolati (…) sono elementi di quel paesaggio che ci è apparso per un attimo e che ora, pur essendo di nuovo scomparso nel buio, per noi continua a sussistere” (Claustrofilia, p. 65).
Ed è sul finire (esercizio 25) di questi attualissimi e fecondi esercizi ritrovati che Fachinelli sa coinvolgere il futuro lettore inondandolo di speranza, in un’intervista rilasciata a “Dimensione uomo” nel 1989. “Dott. Fachinelli, che cosa ha smarrito con l’estasi la società contemporanea?”: la risposta di Fachinelli è risonante e sorgiva, estatica e trascendente, rituale e dionisiaca, spirituale e carnale… esperienze antiche che rilevano nessi e intrecci stratificati, a partire da un’antropologia dell’unità duale ancor prima della nascita. È la strada della nexologia umana, dal latino nexus, l’intreccio come legame.
Nella nostra originaria e permanente capacità simbolica sta la potenzialità di dare voce concreta alla speranza. Come scrive Romano Màdera (L’attualità inattuale di Elvio Fachinelli, p. 72), Fachinelli ci propone anche la possibilità – “sulla scorta di Ferenczi, ma si potrebbe dire di Jung, nonostante Fachinelli tenesse a rimarcare la distanza da quest’ultimo – di leggere alla rovescia il simbolo: non tanto e non solo nella direzione che dalla madre porta al mare, ma anche, o soprattutto, viceversa. La creatività della mente aperta, e per questo ‘estatica’, non è riconducibile al già dato dello schema che si ripete. La coazione a ripetere è l’ombra patologica della possibilità di una ripresa volta in avanti, della creazione che re-innova il passato”.