Attendere l’usura, e consumar se stessi? / Attesa e speranza

24 Novembre 2020

Mimmo Jodice, Attesa, dal 1960, Electa edizioni.


Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore da ubriaco.

 

Poi, come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi, case, colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

 

(Montale, Ossi di Seppia)

 

Mimmo Jodice, Attesa, dal 1960, Electa edizioni.


Attendere... Cosa significa attendere? In cosa consiste lo scarto tra il tempo ideale dell’attesa interiore e il tempo inaspettato e reale del mondo esteriore? A livello cosciente, l’intenzione immaginata e proiettata nel futuro si scontra sempre (anche solo di poco) con ciò che troviamo. L’attesa ideale sarebbe dunque un ostacolo, una postura che ci separa dall’immediato piacere del tutto e subito. E quindi viene spesso interpretata come una forma passiva dell’esistere. Come ci ricorda una proposizione notissima di Wittgenstein contenuta nelle sue Ricerche filosofiche: “Noi aspettiamo questo e siamo sorpresi da quello”. Colui che aspettiamo, l’atteso, non è colui che incontriamo realmente, l’ospite è sempre in qualche misura inatteso. Perché colui che aspettiamo appartiene all’immaginario e al linguaggio, colui che arriva appartiene all’evento.

 

Sembrerebbe inevitabile rassegnarci a questo attraverso un sano e auspicabile principio di realtà. Rassegnarci all’angoscia che ne consegue, e che segnala un reale più reale di qualsiasi altra realtà perché ci mette in contatto con la nostra contingenza e la nostra finitudine. Oppure dovremmo rassegnarci al sogno prometeico della scienza e della tecnica di diventare i signori del mondo (mentre già Freud ammoniva che non siamo padroni a casa nostra) per superare il difetto strutturale della nostra finitezza, fragilità e costitutiva precarietà.

 

Eppure ci sono altre strade possibili da percorrere, come espressioni di speranza e di umane potenzialità. Edgar Morin ci ricorda che “La speranza non è sinonimo di illusione. La speranza vera sa di non avere certezze, ma sa anche che il cammino si fa con l’andare. La speranza sa che la salvezza attraverso la metamorfosi, sebbene sia improbabile, non è impossibile”. Anzitutto la speranza e la metamorfosi dovrebbero andare nel mondo delle esperienze a livello dell’erba, potenziando con fiducia i movimenti quotidiani, semplici, elementari, perché la vera invenzione sta nel dare alle cose di ogni giorno un significato sconosciuto: un ritmo basico, una luce che attraversa una strada buia d’inverno, una mappa geografica, quel volto che inebria, quel suono lontano dal sapore melanconico, quel profumo del mare o del lago, dei fiumi… Sono piccoli frammenti ricorrenti di divinità, che sanno animarsi di quella scintilla che presentifica le tante trascendenze possibili. Essa si rende visibile tutti i giorni aiutandoci a rispondere alla domanda: perché coltivare l’attesa nonostante l’inevitabile, almeno parziale, delusione dell’evento? Scrive Christian Bobin: “Ci vuole tempo per raggiungere l’innocenza del giorno. Ci vuole tempo per giungere alla semplicità di una lingua. Ci vuole tempo per imparare e ancora più tempo per ridere di ciò che hai appena imparato. Ridere del proprio sapere come della propria ignoranza. Ridere con la primavera negli occhi, l’infanzia nella voce, la pioggia nei libri. Perché nei libri piove. Una pioggia sottile scivola sulle pagine, scende nel cuore”.

 

Mimmo Jodice, Attesa, dal 1960, Electa edizioni.


Boris Cyrulnik ricorda un suo professore di liceo che disse: “Lo sapete che la donna che sposerete è già nata? (all’epoca le classi non erano miste). Lei esiste da qualche parte… ci pensate?”. Il matrimonio alchemico come possibilità di dialogo tra diversi mondi possibili è da sempre esistente dentro noi, è dentro noi.

L’attesa è qualcosa che, nonostante la nostra fragilità costitutiva e l’essere gettati nel mondo, ci abita istintivamente come la speranza, come l’illusione che sa procedere spesso in dissolvenza, ma senza mai spegnersi. Può essere un’attesa infinita, circolare, che sa desiderare costantemente anche senza la presenza dell’oggetto, intercettato talvolta nei sogni. Potrebbe sembrare frustrante e tutto sommato inutile; potrebbe sembrare l’espressione massima di un sacrificio sterile. Ma non è così che sento e interpreto l’attesa: la sento invece come la sospensione sonora tra due note, la pausa cantata tra due suoni, la percezione nuda di abitare poeticamente il mondo nell’assenza-presenza di infinito. Si tratta di accogliere una disposizione che sa sorprenderci là dove lo scarto tra ideale e reale si manifesta. È dunque un’attesa in movimento, un desiderio di desiderio.

 

Come scrive Carlo Facente (L’attesa è incolmabile: come non appropriarsi del tempo, intellettualedissidente.it, 16 febbraio 2020): “l’attesa non è attesa che di se stessa”, così come il desiderio è desiderio di desiderio; “l’attesa, di per sé, non fa che attendere. Potremmo dire che è sempre me che aspetto, ma è sempre l’altro che arriva. Aspetto me perché aspetto a partire da me, dai miei desideri, dalle mie angosce, dalle mie ansie, dalle mie aspettative. Ma ciò che ottengo è sempre l’altro, che eccede ogni mia mieità”. In psicoanalisi si parlerebbe del gioco infinito delle proiezioni e del ritiro delle medesime per accedere al mondo possibile. Simone Weil, nei suoi diari e nelle sue lettere, ci porta a riflettere su quanto tutte le attese siano attese di un vuoto, di un’assenza. Attendere senza speranza che ciò che attendiamo si manifesti è un esercizio ascetico verso un potenziale miglioramento spirituale. La tematica del vuoto sarà tra quelle centrali nella psicoanalisi dopo Freud, ed è necessaria anche per comprendere importanti dinamiche riguardanti i processi creativi. Scrive Dino Buzzati in un passo di Il deserto dei Tartari: “Era l’ora delle speranze e lui meditava le eroiche storie che probabilmente non si sarebbero verificate mai, ma che pure servivano a incoraggiare la vita. [...] Una battaglia, e dopo forse sarebbe stato contento per tutta la vita”. 

 

Ci sono più attese. C’è un’attesa in cui si manifesta l’ossessione del potrebbe capitare qualcosa, anche se in realtà non accade niente. C’è un’attesa costruita dal pensiero dominato dall’ansia che si ripete costantemente verso qualcosa che non esiste ancora, o forse sì, già esiste intrappolato nella noia che spinge verso qualcosa di nuovo, di inedito: un risveglio. 

C’è un’attesa che appartiene archetipicamente al mondo femminile, al mondo delle madri, al mondo che ha saputo costruire le emozioni come corde che possono legare anche a lunghe distanze e per infiniti tempi. Quello di Penelope è il mito che più di altri interiorizza l’attesa come se fosse una tensione continua alimentata da un vuoto: un’assenza infinita, e infiniti saranno i racconti fiabeschi di riconoscimento che, nell’ultimo canto dell’Odissea, Penelope e Odisseo si scambieranno vicendevolmente, prima di addormentarsi. L’attesa è stato il destino di Penelope, insieme a quello di Odisseo.

 

Mimmo Jodice.


C’è l’attesa della vita poiché, come scrive Hannah Arendt, tutti gli esseri umani devono morire, ma gli esseri umani non sono nati per morire, bensì per incominciare.

C’è l’attesa della morte come attesa estatica del “tempo ultimo”, il tempo escatologico, un tempo cosmico che va oltre la nostra esperienza sulla terra.

C’è un’attesa senza speranza, quella clinica e sintomatica malinconia che legge le vicende umane come sempre uguali e inconsistenti: “Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole, ed ecco tutto è vanità e un inseguire il vento…”, afferma il Qoelet nella sua disarmante sapienza (1,14).

 

C’è un’attesa poetica e creativa che sa sorprenderci e meravigliarci. La poetessa Chandra Livia Candiani ci racconta di saper attendere che le poesie si scrivano con una loro puntualità misteriosa, anticipando il futuro, o ricreando una memoria perduta. I suoi temi nascono dall’attesa dei segni che il vivere lascia in lei. Solo in un secondo tempo, alla fine dell’attesa, sente che la parola si ferma, e diviene libro.

Gilles Clément, agronomo, biologo e paesaggista francese, insegnante all’École nationale supérieure de paysage di Versailles, si domanda cosa significa aspettare. Aspettare in luogo vuoto e battuto dal vento; aspettare sulla prima pagina di un libro ancora da sfogliare. “Aspettare cosa? Un’autorizzazione di libertà? La morte? Un’eredità? Il diritto di godere d’un bene che vi spetta? Ma qual è l’età, questa scadenza? Attendere l’usura, e consumar se stessi? Attendere la consueta ruggine? Il vestito buono per i giorni di festa, la buona creanza, non fare chiasso, attendere in disparte, non rischiare mai, di quando in quando far buon viso a cattivo gioco […]”.

 

C’è un’attesa alchemica-ermetica dove la psiche si riflette nella materia e la materia nella psiche, in un gioco di proiezioni senza fine. Ermes è il dio del tempo ambiguo, è il dio del tempo incerto, è il dio che sa posizionarsi davanti a un bivio, è il dio delle doppie attese e delle doppie possibilità, è il dio di un tempo che sa trasformarsi a partire dalle energie che vivono e si muovono dentro noi. 

Abitare l’attesa con l’intenzione di prendere senza prendere, di cercare senza cercare, di desiderare senza vedere, di accettare, ma non restare, di fermarci in movimento, consapevoli che la costruzione poetica di un sorriso costa sempre una fortuna.

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