Condividere la malattia / Il farmaco esistenziale
Nadia Toffa, inviata e conduttrice del programma televisivo “Le Iene”, rivelò di avere un tumore l’11 febbraio 2018. Da quel giorno iniziò la sua ricerca quotidiana di riconoscimento identitario attraverso i vari social network. Sì, di questo si è trattato: della ricerca di un nuovo riconoscimento identitario connesso a un’esperienza con una vita più profonda e complessa, distante dalle prevalenti rappresentazioni che siamo soliti assorbire sulle piattaforme mediatiche.
Sappiamo che le basi identitarie si costituiscono e si sviluppano primariamente se ciò che veicoliamo nel mondo, con le nostre diverse espressioni, viene riconosciuto senza riserve e con sguardo ammirato. Vediamo noi stessi negli occhi di chi ci guarda. La prima questione è quindi di ordine identitario. E ciò che dovrebbe essere normale – perché la malattia, anche nelle sue forme di estrema tragicità, possiamo considerarla un normale fattore esistenziale – a livello collettivo viene invece sovente nascosto, rimosso, negato o condannato.
Ciò che manca è la ricerca di un farmaco dell’esistenza capace di conciliare le parti (dentro e fuori di noi) in favore di qualcosa di infinitamente più grande, ma anche in grado di stare nell’infinitamente piccolo della nostra vita. Come scrive Romano Màdera: “nessuna conciliazione può darsi senza trasfigurazione capace di contenere, di congiungere – sia pure attraverso la narrazione tragica e le categorie dell’opposizione dialettica – ciò che altrimenti rimarrebbe una sommatoria o una giustapposizione”.
Il farmaco esistenziale è rintracciabile nella volontà di costruire un’area di sospensione che sappia lavorare con l’ambiguità di cui è inevitabilmente portatrice l’esistenza, perché intreccia in ogni istante vita e morte. L’area di ambiguità riconosce, come suggerisce Paul-Claude Racamier in molti suoi interventi, l’impossibilità di fare lutto della propria vita se non parzialmente e sostando in posizione di accettazione partecipata.
Questa area transizionale si pone costantemente in relazione tra due opposte esperienze: assenza-presenza; vita-morte; accudimento-libertà, esterno-interno… solo così possiamo prenderci cura di un albero morto innaffiandolo costantemente e quotidianamente nonostante l’evidenza biologica. Atteggiamento prezioso anche nelle cure palliative, che non decreta il fallimento della medicina e del progresso della scienza di fronte alla morte, ma valorizza soprattutto gli aspetti etici, emotivi, psichici e relazionali. L’ossimoro dell’innaffiare l’albero morto diventa vivere sino alla fine l’area transizionale in cui la morte non è il contrario della vita, bensì partecipa ad essa con amore e gratitudine.
La prima versione di Sacrificio, film-parabola di Andrej Tarkovskij, narra la storia di una miracolosa guarigione di un malato di cancro, che apprende dal suo medico la dura verità che i suoi giorni sono inevitabilmente contati. Un giorno qualcuno suona alla porta di Aleksandr, è un veggente che gli comunica che deve recarsi da una donna con la fama d’essere una strega e maga e passare la notte con lei. Il malato si fida, accetta e si reca dalla donna che guarirà il suo cancro sotto gli occhi increduli e meravigliati del medico. Ovviamente non si tratta di una guarigione da una malattia mortale, ma di una rinascita spirituale attraverso ciò che più di tutto in quel momento rappresentava la sua vita interiore, l’Anima del suo mondo interiore, probabilmente sepolta nelle macerie di una quotidianità collettiva mortifera ed egoriferita. Aver accolto con un atto di fede quel messaggero assurdo alla sua porta ha modificato il suo sguardo e tutta la sua precedente rappresentazione sul mondo, rendendola più immaginale, “folle”, simbolica e capace di sperare in soluzioni inattese. Scrive Tarkovskij: “Un monaco, passo dopo passo, secchio dopo secchio, portava l’acqua sulla montagna e innaffiava l’albero inaridito, credendo senz’ombra di dubbio nella necessità di ciò che faceva, senza abbandonare neppure per un istante la fiducia nella forza miracolosa della sua fede… E così poté assistere al Miracolo: una mattina i rami dell’albero si rianimarono e si coprirono di foglioline. Ma questo è forse un miracolo? È soltanto la verità”.
Il limite, il margine, la soglia o il confine sono sinonimi che sanno definire più di altri la nostra fragile umanità, che viene spesso esclusa e travisata dalla tecnica (per quanto importante sia quest’ultima) e dalle multiformi modificazioni chimiche che ci inseriscono nell’ingranaggio illusorio dell’elisir di vita eterna. Certo, dire che è stata una fortuna l’essere colpita da un tumore, come espresse Nadia, può essere frainteso e soprattutto ritenuto offensivo per i tanti che soffrono, per i tanti che per pudore o vergogna hanno preferito tacere, per i tanti che decidono di staccare la spina chimica perché spesso è troppo doloroso accettare questo male oscuro. Ma se cerchiamo (ammetto, con grandissimo sforzo) di tradurre quel “sentirsi fortunata” in una questione più generale, potremmo dire che ogni Krisis porta con sé l’occasione di cambiamenti e nuove configurazioni e che il simbolo della morte può portare con sé anche occasioni di rinnovate rinascite. Racamier definisce la crisi un “processo di cambiamento globale, ampio, determinato dalla messa in scacco dell’equilibrio precedente e dotato di un corso e di uno sbocco aleatorio”. Ogni crisi, continua Racamier, colpisce sempre un insieme di fattori, mai uno solo, mettendo in scacco i consueti e familiari equilibri e le consolidate difese; sollecita un cambiamento nelle relazioni tra le diverse forze in gioco per definire un eventuale cambiamento di forma.
L’aver condiviso pubblicamente la sua malattia da parte di Nadia ci ha dato, oltre alla fatica reale di guardarla negli occhi, l’opportunità e l’occasione di prenderci in carico una questione universale che parla del lutto e delle varie forme di attraversamento di esso. Ogni perdita, quindi anche quella che tocca la salute, evoca perdite precedenti della nostra vita e quando il dolore si fa troppo grande da contenere e da sopportare, come scriveva Melanie Klein, “ci obbliga a soffrire lo spasimo di ricostruire un mondo interiore che si sente in pericolo di disfacimento e di crollo”.
Ecco allora che anzitutto, in una cultura come la nostra inadeguata a sostenere le tappe e le trasformazioni della vita (se non con surrogati ridicoli), il farmaco efficace sembrerebbe rintracciabile nella ricerca di un orientamento di senso con un rinnovato sguardo (e ciò vuol dire anche un grado fisiologico di accettazione del dolore) che sappia porsi al timone di tutte le variazioni, più o meno temperate, che incontriamo nella vita.
In un’intervista fu chiesto a Carl Gustav Jung se ci sarebbe stata in futuro una terza guerra mondiale e lui rispose che dipendeva da quante persone individualmente sarebbero state in grado di farsi carico della propria Ombra. La malattia, l’handicap, il diverso, l’informe sono tutte esperienze d’Ombra (i lati indesiderati in noi) che non possono essere rimosse, semplicemente perché esistono e ci costituiscono come esseri umani. Quindi il primo grande merito di Nadia è stato richiamare alla memoria che la bellezza è maggiormente riconoscibile nell’interezza e non nella parzialità edulcorata dalle fabbriche dei desideri impossibili e dei piaceri illimitati. La paura può attenuarsi solo se sappiamo avvicinarci all’altro, al diverso, integrando la prospettiva non illuminata dalla luce accecante e che porta dentro sé anche alcuni aspetti della malattia. Non aver paura di restare soli e solo con la parte malata connessa al risentimento e al dolore per la perdita, ci consente di preservare con tutte le forze anche l’altra faccia, che sopravvivrà qui o altrove e in altra forma.
Julia Kristeva, semiologa e linguista presso l’università di Parigi, parla spesso di tirannia della normalità come la fatica d’essere semplicemente se stessi, anche diversi, anche malati come nel caso di Nadia. La tirannia della normalità non può accettare le debolezze, le fragilità e le malattie, troppo difficili da normalizzare perché fuori campo e tutto sommato appartenenti agli scarti. La tirannia della normalità non sa accettare la fiducia dell’altro, perché solo se c’è fiducia puoi parlare senza pudore e rimozioni.
Sigmund Freud usa il vocabolo Die Scham per indicare vergogna e pudore. Solo se essi vengono superati si può parlare liberamente vincendo le difese e attivando la fiducia nella verità e nella cura.
La tirannia della normalità non sa che la bellezza può anche nascere da quegli scarti perché capace di trasformarli e trascenderli in esperienza, relazioni, comunioni, gruppi di appartenenza, primo tra tutti quello umano.
Pier Aldo Rovatti si è chiesto se non sia proprio quello scarto, quel quasi niente che siamo, che sa rappresentare e concentrare il nostro essere al mondo. Il quasi niente non è una riduzione del grande, ma è un nuovo territorio dove si può trovare il grande trasfigurato: “questo margine non ha da produrre margini, bordi, confini, isole sempre più piccole: al contrario allarga ed estende, ingrandisce l’esperienza… il soggetto si rimpicciolisce mentre si ingrossa l’esperienza… questo pensiero, se ancora possiamo chiamarlo così, non è un conoscere, è un’esperienza globale”.
L’esperienza condivisa di Nadia Toffa, tra le tante sfumature di possibili cure, ha rappresentato di certo l’incontro con la fragilità e ha fatto nascere una nuova presa di coscienza simbolica, nuovi linguaggi che abitano spesso dove lo sguardo abituale non si posa, in quei luoghi capaci di mobilitare gli aspetti di inaspettata creatività e riparazione, per la vita, ovunque essa sia.