Ritratto dell’artista da morto
Che cosa è la storia? Per secoli abbiamo creduto alla sua realtà come a una strana forma di astrazione sublime, che si incarnava in oggetti paradossali. I monumenti, i documenti del passato erano quasi fossili di se stessi, realtà assieme capaci di trasportare eoni del passato nel presente ma anche e soprattutto di sottrarsene. E ancora oggi siamo abituati a esercitare una strana discriminazione verso quegli elementi del paesaggio di cose, oggetti e realtà che ci circondano a cui riconosciamo la qualità “storica”: sono realtà sensibili, eppure nessuna loro esperienza oggettiva può avere luogo in essi.
Tutto quello che appartiene a questa sfera è infatti qualcosa che si può raccontare, leggere, studiare ma mai vivere davvero. Sembra impossibile attraversare la pelle spessa fatta dei loro stessi nomi e dai racconti che abbiamo di essi, anche quando si tratta di palazzi, di artefatti solidi: impossibile esperire il Colosseo per quello che è stato, dobbiamo passare attraverso i discorsi, per poterlo vivere davvero. In quanto storici tutti gli oggetti si sbriciolavano in parole, racconti, miti di esperienze inaccessibili.
È da qui, forse, che viene la malinconia infinita di tutti gli archivi, le biblioteche, i monumenti architettonici: è come se sprigionassero la sensazione di aver mancato e mancare, ancora, sempre un appuntamento decisivo. È come se stessimo guardando a quello che accade dentro un appartamento a cui non abbiamo accesso. È come se percepissimo il suono di una festa a cui non siamo stati invitati. È come se stessimo sbirciando un sogno con gli occhi di un altro – e poco importa che si tratti di un incubo o di qualcosa di sublime.
La storia è quindi soprattutto un discorso.
Ma in questo strano regime discorsivo a cui abbiamo riconosciuto e riconosciamo ancora così tanta importanza, la parola non illumina una esperienza possibile. È piuttosto il sigillo posto su una vita che diventava inaccessibile e indisponibile attraverso l’atto stesso del suo racconto. E viceversa, raccontare significa sempre escludere, non rendere possibile la partecipazione del mondo.
È su questo paradosso, che ha marcato il nostro rapporto non solo al passato, ma anche e soprattutto alla lingua, al mito e alla capacità di raccontare che l’ultima opera di Davide Carnevali Ritratto dell’artista da morto (Germania ’41 - Argentina ’78) si concentra.
Una prima intuizione geniale di Carnevali è stata quella di capire che il problema della storia è innanzitutto retorico o meglio, drammaturgico. Non si tratta certo di tornare sulla questione già esplorata anni fa da Hayden White, di mostrare che ogni tentativo di raccontare il passato presuppone un’attività di immaginazione intensa e già orientata e dei presupposti ideologici. Non si tratta nemmeno di interrogarsi su chi racconta la storia – se sono i vinti o vincitori, i dominanti o gli oppressi. Quella di Carnevali è una domanda assieme più sottile e radicale. Essa concerne il senso e lo statuto di realtà che riconosciamo ai racconti in generale: la Storia in fondo è il tentativo di far coincidere racconto e realtà, ma è come se questo tentativo si scontrasse ogni volta con più di una impossibilità.
Se la Storia è una narrazione o un mito si tratta di una serie di racconti che si trovano come in uno stato di esorcismo: sono eventi che non vogliono essere realmente vissuti. È per questo che per capire cosa è la Storia abbiamo bisogno di un teatro. Questo innanzitutto, perché essa non è un oggetto da leggere e da interpretare. È un luogo innanzitutto, non un tempo. Un luogo simultaneo al presente che, per definizione, non vuole appartenerci. E il rapporto tra il tempo presente e il tempo che abbiamo esorcizzato come passato è lo stesso rapporto che c’è tra la città e il teatro. “Ci siamo abituati così tanto a sentir parlare della dittatura, della violenza di Stato, a vedere certe fotografie, certi video, che siamo diventati insensibili alle parole e alle immagini” dice a un certo punto il protagonista-narratore della pièce. E continua: “ma se possiamo entrare in un luogo reale, toccarlo, toccare gli oggetti, sentire che lì sono accaduti fatti reali, allora è un’altra cosa”.
L’intenzione di Carnevali è chiara: si dà storia solo quando si trasforma il segno di un tempo indisponibile in un luogo accessibile. Ovvero, si dà storia solo all’interno e grazie al teatro. La cronologia è solo una forma di stenografia alienata di una drammaturgia. Per questo, non sono gli archivi, non sono i libri, non sono nemmeno le pietre i luoghi in cui la storia si dà a conoscere. Sono quegli spazi, in una città, in cui ci permettiamo di avere un rapporto paradossale con un evento, una situazione e con i racconti che ne parlano. I teatri sono proprio questo: spazi in cui ci concediamo di vivere o rivivere una storia, ma fermandosi un attimo prima rispetto alla soglia in cui questi eventi potrebbero diventare la nostra esperienza.
Rispetto a un manuale o a un archivio, in un teatro chiediamo a qualcuno di incarnare quell’evento (un uomo che vuole uccidere lo zio) e di ripeterlo, ma secondo una forma o uno statuto particolare. I teatri sono luoghi in cui trasformiamo le storie, poco importa se reali o immaginarie, in una sorta di ginnastica preparatoria. Il teatro di Carnevali somiglia, da questo punto di vista, alla fotografia di Thomas Demand, che trasforma il ricordo nella fotografia non già dell’evento stesso, ma della sua ricostruzione in carta. Anche il teatro è una sorta di miniaturizzazione pragmatica di quello che è successo, o meglio l’immagine di una ricostruzione gestuale di quello che uomini e donne nel passato hanno compiuto. È come se le cose si ricordassero di noi, ha scritto Maylis de Kerangal a proposito dell’opera di Demand.
Nelle mani di Carnevali il teatro è il luogo in cui il passato si ricorda di noi. E da questo punto di vista ogni fatto storico assume una patina di surrealismo e di improbabilità. È come se, in fondo, la ragione per cui qualcosa è accaduto piuttosto che qualcos’altro, sia sempre e solo drammaturgica. Viceversa, la scelta del soggetto in teatro è sempre una necessità cognitiva più che storica. E così, se il ‘fatto’ scelto riguarda cosa è successo in Argentina è perché “l’Argentina è precisamente il paese in cui le cose meno plausibili accadono”.
Quello che la pièce non smette di indagare è poi lo statuto dell’attore. Che cosa significa entrare dentro questo spazio in cui la storia si ripete senza accadere davvero? Che cosa significa soprattutto essere colui che permette a un evento di ripetersi senza accadere? Uno strumento di reincarnazione, un esorcista o un eterno bambino che costringe il tempo a trasformarsi in un eterno carnevale? Il narratore è come bloccato in questa serie infinita di dubbi: “io, come attore e musicista, presto il mio corpo al musicista scomparso, o semplicemente sostituisco il suo corpo con il mio?”. Oppure: “La mia presenza davanti al pubblico è un dispositivo di memoria, o un sopruso?” Oppure: “Raccontando questa storia, sto esponendo i fatti oggettivamente, o semplicemente faccio coincidere il punto di vista della Storia con il mio?”. E rivivendo questi dubbi il pubblico è come costretto a trasformare la propria stessa coscienza, o meglio, il proprio stesso “io” in un teatro in cui le stesse domande sono poste incessantemente a proposito della storia individuale.
D’altra parte, trasformare il passato in un luogo fisico, materiale in cui le storie sono ripetute e rivissute quasi in carne ed ossa, significa trasformare radicalmente l’idea stessa di realtà urbana. Una città diventa una sorta di alveare spazio-temporale in cui una comunità prova ad articolare il tempo diversamente e a fare della propria parola uno strumento per dare forma al tempo, poco importa che si tratti di presente, passato o futuro.
Più che una semplice pièce, Ritratto dell’artista da morto è l’invenzione di una nuova idea di teatro. O forse il recupero di un’idea antichissima: quella per cui il racconto, la narrazione, non sono il luogo di un’esperienza estetica, ma un rito, un atto attraverso cui gli esseri umani rendono conoscibile e vivibile il mondo che abitano.
Il libro verrà presentato lunedì 13 marzo al Chiostro Nina Vinchi di Via Rovello alle 18.30. Lo spettacolo (con Michele Riondino, scritto e diretto da Davide Carnevali) sarà in scena al Piccolo Teatro Studio Melato dal 16 marzo al 6 aprile 2023. © Foto di Masiar Pasquali.