Roma / Paesi e città

16 Febbraio 2012

Non so parlare della mia città dal nome impronunciabile. Ricordo quando giovanissima in Inghilterra feci amicizia con un ragazzo pakistano e lui incredulo mi incalzava: veramente vieni da quella città, la stessa dei libri di storia? Sei nata lì? E che lingua parlate lì adesso?

 

Mi chiedo talvolta, soprattutto da quando mia figlia s’è trasferita per lavoro a Boston, cosa mi trattenga nella mia città, perché non me ne vado. Altrove, dove sia facile camminare per la strada, dove ci siano marciapiedi adatti al mio temperamento di pedone, dove ci sia più rispetto del codice della strada, più rispetto degli altri. Cosa mi trattiene qui se tutto sembra essere svariato verso un’uniformità deprimente, se gli allegri e improbabili negozi di passamanerie, di cappelli, di granaglie, di abiti usati, – dove potevi scoprire o illuderti di scoprire oggetti di originalità assoluta – i calzaturifici gestiti da proprietari di una gentilezza al limite del corteggiamento, i negozi di ferramenta, maniglie e chiodini di ogni dimensione e per ogni necessità, i piccoli cinema e i teatri negli scantinati sono stati sostituiti – tutti – da ristoranti, nel migliore dei casi, ma più spesso da pizzerie a taglio, kebab, birrerie, supermercati. Cammino a testa bassa e rifletto che anche le amicizie appassionate d’un tempo si sono dissolte, sostituite da rapporti certo gentili ma piuttosto inconsistenti.

 

La mia città ha un nome impronunciabile. Lo rigiro tra le labbra: ha sapore d’alloro ma anche di ossido di carbonio, e all’olfatto non sfugge il tanfo d’orina.

O sono un’ingrata verso l’età che vivo e vorrei anch’io come molti, come il protagonista dell’ultimo film di Woody Allen, tornare indietro, scegliere un’epoca di cui i libri ci hanno fatto assaporare meraviglie e restarci?

 

Quindi non pronuncio il nome della mia città, ma le strade, i rioni, i quartieri mi piace nominarli. Decido, oggi, di allontanarmi dalla mia strada e portarmi in una zona una volta nota come quartiere di operai e di marmisti, che tagliavano e incidevano le lapidi per il vicino cimitero. Oggi quella piccola industria è quasi sparita o è stata trasferita altrove, occultata, come tutto quanto era attinente al culto dei morti. Oggi San Lorenzo, che prende appunto nome dall’omonima Basilica paleocristiana, San Lorenzo fuori le mura, che borda il cimitero monumentale, è considerato quartiere trendy, abitato e frequentato soprattutto dagli studenti della vicina città universitaria che ne segna uno dei limiti. Gli altri limiti sono la via Tiburtina e il Verano e la splendida antica cinta delle mura Aureliane. Passeggio qui come una turista e mi sento bene perché finalmente qui di turisti ne arrivano pochi e quei pochi sono invisibili. Anzi non sono una turista, sono una guida e come prima tappa mi fermo nel piccolo parco dove ci sono gli scivoli per i bambini e d’estate proiettano cinema all’aperto. Qui un bordo di marmo inciso è monumento essenziale, che riporta i nomi delle 1674 vittime accertate del bombardamento alleato del luglio 1943.

 

Ristorantini e gelaterie ammiccano alla base di palazzi con appartamenti a ringhiera che si alternano a palazzine inizio secolo con qualche pretesa di decò-liberty, il bel ex-pastificio Cerere, oggi centro d’arte contemporanea. Il cuore di San Lorenzo è tuttavia una doppia piazza scandita dal sagrato della parrocchia del quartiere, S. Maria Immacolata, una chiesa di architettura insignificante, se non schiettamente brutta, ma amata dal popolo di qui. Di fianco alla chiesa c’è, di mattina fino alle due, un mercato, mentre dal sagrato si ondula uno spazio decorato con panchine molto frequentate di sera da ragazzi che impugnano la ormai rituale bottiglia di birra o forse aspettano si faccia l’ora per lo spettacolo, nel cinema Tibur, che programma buoni film. In questi giorni c’è appunto Midnight in Paris e, ancora più divertente, The artist.

 

Certamente nel quartiere non mancano i graffitari. La scuola quasi di fronte al cinema ha ripulito i muri esterni ma ha lasciato il portone qual era, con strisce di colore sovrapposte. Scendiamo senza deviare lungo la via dei Sabelli (qui le strade hanno tutte i nomi delle antiche popolazioni italiche) e troviamo il giardino privato dei Cavalieri di Colombo con alberi di aranci e limoni e qualche residua vite, nonché due bei campetti per il gioco del calcio. Sul basso muro che lo recinge, nell’ultimo anno ha dipinto i suoi murali Alice Pasquini: paesaggi di periferia urbana, innamorati stretti, creature sognanti accanto alla bici, palazzi e sopraelevate nello sfondo e un agile cane nero. Con lui la gente che viene a passeggiare col suo proprio cane ama scattarsi una foto col telefonino.

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