Ovvero l'improvvisazione intima / Tango!

20 Febbraio 2016

Non so ballare il tango. Lo guardo. Nella Boca, il quartiere del porto di Buenos Aires, il tango spuntò misteriosamente generato da qualche ritmo africano, ballato dai discendenti degli schiavi deportati in Sudamerica secoli prima. Sul tango ho letto soprattutto i libri strani e appassionati di Meri Lao, che ne hanno sempre restituito la natura appassionata, appassionante, malinconica e remota. Come un fantasma seducente del passato. Davide Sparti, epistemologo, ha scritto libri sull’improvvisazione e sul jazz, e ora ho finito di leggere il suo nuovo Sul tango. L’improvvisazione intima (il Mulino 2015, 22 pp., € 16,00). Il suo approccio scientifico, il suo sforzo singolare di creare una griglia di lettura dei segni di questa danza mi ha spiazzato. E se a un certo punto, nel corso del suo libro, non avesse messo in campo il suo vissuto, rivelandoci di avere voluto imparare a ballare il tango, forse mi sarei irritato. L’avrei ritenuto un entomologo che tentava di trafiggere con lo spillo accademico il palpitare misterioso della mariposa, della farfalla-tango, uccidendone il segreto e misterioso vitalismo un po’ funebre. Ho avuto la fortuna di incontrare e frequentare qualche volta, durante le loro presenze italiane, due grandi vecchi del tango argentino: Egisto Marcucci e Horacio Ferrer. Marcucci era un grande bandoneista: creò un ensemble con giovani orchestrali; suonavano bene, facevano concerti di rara raffinatezza, ma a una prova lui si arrabbiò e disse: «Non dovete suonare questa musica come fosse musica da ascoltare! Questa è musica fatta per ballare! Dobbiamo far sentire il ritmo!». Horacio Ferrer, il “poeta del tango”, ha scritto testi meravigliosi per alcuni tanghi di Astor Piazzolla: Piazzolla trovò il successo in Europa, in Francia e in Italia; la sua musica era quasi sconosciuta in Argentina, dove era ritenuta eccentrica e imballabile, un intellettualismo che tradiva il dovere di servire il ballo, di creare l’atmosfera sonora su cui la coppia di ballerini doveva inventare, improvvisare come giustamente scrive Sparti, il suo spartito di intima intesa, molto più che una coreografia. Ferrer era di una eleganza teatrale ed eccentrica. Non era per niente ridicolo, per niente vanesio: virile, lunare, sorridente, impeccabile, galante ed elegante, era davvero un testimone unico di un fenomeno che pochissimi hanno saputo raccontare… tra quei pochissimi Borges, che di misteri labirintici se ne intendeva.

 

Quando Sparti racconta delle sue esperienze di ballerino di tango entra in una specie di conflitto tra il suo essere studioso, scienziato dell’interpretazione, e la sua emozione ineffabile di danzatore di tango. Il tango genera ipnosi, e l’ipnosi spalanca reminiscenze e affioramenti dell’inconscio. Salta la morfosintattica, e restano lampi che hanno parentela letteraria solo nella poesia.

 

 

Alcune sere fa ero a una festa di compleanno di una amica di amici; godevo quindi di quella particolare condizione di poterci essere senza essere visto, di poter conversare o meno, osservare o partecipare. Il rinfresco, le chiacchiere non avevano nulla di particolarmente interessante. Poi, improvvisamente, qualcuno è andato alla consolle, e sono partiti i tanghi. Le sedie si sono disposte a cerchio ai lati di un’area che si è trasformata in una pista da ballo. La festeggiata è stata invitata da uno degli uomini sbiaditi del rinfresco, e hanno aperto le danze… La festeggiata era una apprendista di tango, e aveva invitato il suo maestro e i suoi compagni di milonga. Mi sono seduto, ipnotizzato, e ho preso a guardare. Le donne, rapidamente, sono scivolate in un angolo del salone e hanno calzato i sandali con il tacco; gli uomini qualunque sono divenuti impettiti e serissimi. Nessuna coppia ballava come un’altra. Quando mi è occorso di vedere qualche filmato del festival mondiale di tango di Buenos Aires, una gara dove si premiano i più grandi ballerini-insegnanti del mondo, mi sono annoiato a morte: erano danzatori eccellenti, le loro coreografie erano perfette, ma ciò che amo guardare, in una milonga, è come ogni donna e ogni uomo si trasformino in una coppia. Le donne più belle di giorno di notte sulla pista diventano le meno interessanti; le donne apparentemente meno belle sfoderano una sensualità misteriosa, magnetica e traente come un raggio di teletrasporto alieno. Le loro gambe, lente, piroettano; le loro mani dalle unghie curatissime agganciano ciascuna in un modo particolare le spalle del partner.

 

«Poiché il tango si realizza in coppia e richiede un contatto mediato dall’abbraccio, può essere definito un incontro incarnato con l’alterità – scrive Sparti –. In quanto connubio temporaneo con l’altro, permette di dialogare intimamente ed eventualmente sviluppare un senso di comunione anche con chi non si è mai incontrato prima». Per questo, in una serata di tango, in una milonga, chi sta seduto sta solo aspettando il suo turno… le donne aspettano il cavaliere che le condurrà nell’abbraccio. Chi si siede e guarda, spia l’intimità erotica di una coppia nella sua invisibilità: quando sei seduto e guardi, a una milonga, nessuno ti vede.

 

 

Possiamo dire che questo di Sparti sia in un certo senso anche un “manuale del tango”: ci sono la storia, la tecnica, gli interpreti, i compositori, ma non è un manuale per danzarlo. Come si fa a imparare il tango su un libro, del resto? Il tango è una mistica, una ascesi che trasforma in un ralenti lo sforzo di una propriocezione incredibile: «A spiegare questo aspetto ascetico (di dedizione a una pratica talvolta ripetitiva, di sopportazione della fatica, di assenza di una ricompensa immediata) c’è lo speciale piacere consistente nel sentire il corpo schiudersi, slegarsi, modellarsi a poco a poco alla disciplina che gli viene imposta». L’erotismo del tango è una messinscena (per niente ironica!) dell’essere virile e dell’essere femmina.

 

Il tango è notte, senso di morte, struggimento. Quando Carlos Gardel cominciò a cantare sui tanghi, negli anni Dieci, fu guardato storto come guardavano storto Piazzolla negli anni Sessanta. Ma proprio il canto struggente, preferibilmente su un vecchio vinile graffiato di grammofono, è il tango immortale. E immortale era Horacio Ferrer quando recitava dal vivo i suoi versi. Nelle sue conclusioni, lo Sparti studioso e ballerino sceglie il senso di comunità della milonga come il valore più importante di questo ballo così socializzante in una contemporaneità così elettronica e solipsistica.

 

Io chiudo il libro di Sparti, e riguardo il virile, elegante Carlos Gardel che canta Arrabal camargo nell’ultimo dei quattro film di cui fu protagonista, nel 1934, un anno prima di morire in un incidente aereo con tutta la sua orchestra; tradimento, rimpianto, gelosia, disprezzo, il ricascarci con una che ti squarta, sono l’inafferrabile del tango, per chi lo guarda e per chi lo balla:

Con lei al mio fianco non vedevo più il dolore che mi davi,

il tuo fango e la tua miseria, lei era la mia luce

e ora ritrascino la mia anima,

inchiodato alle tue strade come a una croce.

 

 

 

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