Scuola, lettura, digitale

9 Luglio 2013

Con parole semplici e chiare: perché occorre impegnarsi nella discussione su scuola e digitale e ritenere che la questione tocchi l’intera collettività, non solo il mondo dell’educazione? La prima ragione è questa: manca buona informazione, informazione indipendente, informazione qualificata e riflessiva.

Se dovessi scegliere tra i meriti di Contro il colonialismo digitale indicherei senz’altro l’attitudine sperimentale adottata dall’autore. Mi spiego. Il dibattito su scuola, lettura e digitale è non di rado caratterizzato, in Italia, da rigide contrapposizioni e militanze facinorose. Occorrono tenacia, abilità e coraggio per rifiutare ex ante posizioni dogmatiche. Per proporre una terza via. L’acritico sostegno istituzionale all’introduzione del digitale nelle scuole ha creato precipitosi entusiasmi e chiusure irriflessive. L’ex ministro del MIUR con delega all’innovazione, Francesco Profumo, è sembrato iscrivere le politiche educative nelle politiche pro-digitale, negando tout court autonomia alle dimensioni pedagogiche. A suo dire, l’introduzione di lavagne digitali e tablet avrebbe sanato i tanti problemi della scuola italiana, procurando a piccoli e adolescenti una rapida e prodigiosa alfabetizzazione.

Così naturalmente non è. Esistono insidie specifiche nella digitalizzazione della lettura (che Casati riconduce a una trascuratezza di progetto o di design) con cui pare assurdo (o irresponsabile) non confrontarsi. Pediatri, psicologi, neuroscienziati e logopedisti possono aiutare probi “decisori” a prevedere vantaggi e disfunzionalità dell’“innovazione” didattica. Innumerevoli ricerche sull’attenzione “selettiva” confermano che esistono limiti alla capacità di elaborazione simultanea delle informazioni e che queste sono dapprima (per così dire) stipate nel magazzino di una memoria a corto termine, detta anche “memoria di lavoro”. Solo in un secondo tempo saranno “acquisite” e alloggiate nel magazzino della memoria “a lungo termine”. Il consolidamento dell’acquisizione, tuttavia, può avere luogo solo se le aree cerebrali implicate nel processo saranno in stato di quiete o sufficientemente sgombre di stimoli in eccesso.

 



Nel trasferire il testo dal supporto cartaceo al digitale dovremmo preoccuparci di preservare le condizioni più favorevoli alla lettura, ma non sembra proprio che questo stia accadendo. I dispositivi digitali di cui facciamo uso ogni giorno, come l’iPad, sollecitano attività simultanee che frammentano l’attenzione. Il tablet può essere ovviamente usato in modalità “lettura”, come un qualsiasi eBook. Le applicazioni concorrenti non smettono tuttavia di sollecitare o distrarre. Il dispositivo, afferma Casati, può certo “catturare” la lettura,  renderla cioè possibile: ma in modo svantaggioso e per così dire sleale, senza mai costituire un ambiente ad essa davvero propizio. “La mente subisce la dispersione”, leggiamo. “Non c’è niente di cui rallegrarsi in questo”.



Casati ha ragione a insistere su cautele e misure limitative in ambiente didattico. Introduciamo pure in aula lavagne digitali e tablet. O avversiamo la vecchia lezione frontale perché esausta (sarà sempre vero?), addirittura “autoritaria”. Siamo certi tuttavia che il processo educativo mantenga intatta la sua efficacia in assenza di una figura socratica di insegnante, entusiamante, inquisitivo e empatico? Dovremmo inoltre preoccuparci che l’attenzione sia protetta (“protezione” è parola cara a Casati), e perché ciò sia possibile occorrerà restringere o escludere la connettività. Consideriamo un test divenuto celebre, condotto da due ricercatrici del Centro studi sulle interazioni tra uomini e computer della Cornell University, Helene Hembrooke e Geri Gay. In una classe si tiene una lezione con metà studenti autorizzati a scambiare posta, giocare, chattare o navigare sui loro laptop. L’altra metà è invece tenuta a seguire il docente. Bene. Semplici verifiche condotte al termine provano che gli studenti a laptop chiuso acquisiscono e ricordano di più.

Malgrado le narrazioni pubblicitarie delle multinazionali dell’elettronica, l’apprendimento non è un gioco né può essere condotto a termine senza impegno o sforzo. E’ qui che la posizione sperimentale dà maggiori frutti. Perché, si chiede Casati, non considerare il “ritardo” tecnologico della scuola o l’inattualità del libro cartaceo come preziose opportunità neuroevolutive? “Il rapporto della scuola con le nuove tecnologie”, osserva l’autore, “ha molti altri spazi che non quelli della rincorsa. In realtà la scuola avrebbe tutto da guadagnare da una riflessione sulle sue immense potenzialità non digitali in un mondo colonizzato dagli strumenti digitali commerciali”. Il processo educativo ha il compito di abilitare al pieno esercizio della cittadinanza quali che siano le condizioni socioeconomiche di partenza; e accrescere le opportunità che le generazioni future potranno avere in un mondo attraversato da barriere cognitive crescenti. Come accogliere l'innovazione digitale sul piano didattico assicurandoci che procuri vantaggio a piccoli e adolescenti? Questa la domanda. Non abbiamo bisogno di informazione a tema né di stucchevoli retoriche sui "nativi digitali".

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