Scuola: programmare quando tutto è in movimento
Anni fa il noto sociologo Zygmunt Bauman, nella sua indagine sulla complessità e liquidità del contemporaneo, ebbe a utilizzare la metafora dei missili intelligenti. Questi ultimi avrebbero preso il posto dei tradizionali missili delle guerre di posizione. “I missili (sc. tradizionali) – scrive Bauman – diventano tuttavia inutili, per le loro stesse caratteristiche, in una situazione in cui dei bersagli invisibili a colui che spara si spostino – soprattutto se si spostano più velocemente dei missili, e ancor più se si muovono in modo erratico e imprevedibile, mandando a monte qualsiasi calcolo preliminare della traiettoria voluta. In questo caso occorre un missile intelligente, capace di cambiare direzione durante il volo a seconda dei cambiamenti delle circostanze, di percepire istantaneamente i movimenti dei bersagli, di ricavarne la maggior quantità possibile di informazioni utili riguardo alla direzione ultima e alla velocità dei bersagli, e di estrapolare dalle informazioni raccolte il punto esatto dove le rispettive traiettorie s’incroceranno. Durante il percorso questi missili intelligenti non possono mai interrompere, e tanto meno smettere, di raccogliere ed elaborare informazioni: i bersagli infatti non smettono mai di spostarsi e di modificare direzione e velocità, e perciò il tracciamento del punto d’incontro dev’essere costantemente aggiornato e corretto” (Z. Bauman, Vita liquida, Laterza 2005, pp.131-132).
Per quanto ricavata da un’area semantica estranea al contesto educativo, l’immagine baumaniana mi è parsa utile a pensare il ruolo di un insegnante nel nostro tempo. Soprattutto a pensare a tutto ciò che a un insegnante oggi si chiede di produrre in termini di intenzionalità programmatoria, ovvero di dichiarazione di intenti all’inizio di un percorso educativo e didattico. Chi ha avuto occasione di leggere le programmazioni che gli insegnanti consegnano ogni anno (e che raramente vengono lette da qualcuno), si accorgerà che in molti casi esse sono portatrici di una potente razionalità tecnica, che correla in modo organico i diversi aspetti del lavoro docente: traguardi, mezzi, contenuti, processi campeggiano in questi testi in modo da far pensare che chi scrive davvero possa piegare il vivente che si troverà davanti tutte le mattine alle logiche programmatorie individuate in quei files consegnati puntualmente alla scuola.
La metafora dei missili di Bauman sembra invece contestare alla radice ogni accezione rigida del progetto didattico a favore di un’intelligenza professionale strategicamente capace di tenere conto dei segnali provenienti dal contesto e quindi di superare le tradizionali forme di razionalità tecnica a favore di una razionalità riflessiva, che definisce il professionista esperto e capace di agire nell’attuale contesto epistemologico (si veda R. Schön, Il professionista riflessivo, Dedalo 1993).
Non ho memoria di percorsi di formazione e aggiornamento centrati sull’idea di instabilità, nonostante essa rappresenti la costante quotidiana del lavoro docente e necessiti a mio parere di una seria riflessione. Da decenni infatti si ragiona di instabilità, complessità e liquidità, categorie interpretative che, lungi dall’essere confinate in ambito accademico, sono carne e sangue della vita di ogni giorno e, per quel che ci riguarda, della vita delle classi. Ogni ora di lavoro propone un contesto incerto e capace di sfidare ogni intenzionalità programmatoria. Si tratta di un ostacolo alla serena (e illusoria) attuazione del progetto oppure di un’occasione preziosa per avviare percorsi di crescita umana e culturale in cui sono coinvolti coloro che insegnano non meno di coloro che imparano?
Chi scrive è di questo secondo avviso, concordando in merito con le riflessioni contenute in G. Bocchi-M. Ceruti, Educazione e globalizzazione (Cortina 2004), e nel più recente M. Ceruti-F. Bellusci, Abitare la complessità (Mimesis 2020). E crede che resistere ottusamente alla naturale instabilità del contesto-classe significhi creare le migliori condizioni per far sentire gli studenti in un mondo surreale, fatto di ingredienti che essi percepiscono come non pertinenti, vale a dire i rapporti (rigidi) tra cause ed effetti, la corrispondenza tra processi e risultati, la conseguenzialità tra prestazioni e valutazioni ed altro ancora. Con tutta evidenza gli insegnanti mal tollerano l’incertezza e l’inesattezza, perché un certo pur nobile sentire li induce a pensare che i bambini e i ragazzi abbiano bisogno di “punti fermi” e non li si può lasciare in balìa della probabilità.
In realtà l’esperienza può insegnare che le cose non stanno così. In realtà sembra che le classi, dei piccoli e dei più grandi, si animino quando alle certezze e alle deduzioni programmatorie si sostituisce l’esplorazione e alle risposte si affiancano le domande. Anche le domande dell’insegnante che non sa e vuole sapere, e che cerca insieme ai suoi alunni i luoghi che gli permettano di sapere. Ma è possibile pensare che il fare scuola possa diventare così socratico? Cosa si perderebbe e cosa si guadagnerebbe da una scuola in cui il sapere consiste essenzialmente nel sapere domandare piuttosto che nel sapere rispondere? E ancora: ci sono discipline scolastiche per le quali una scuola della ricerca, aperta all’imprevedibile gioco dei contributi degli allievi, risulti più facile? Saranno i saperi cosiddetti umanistici a promuoverla?
Oggi, sull’onda delle più recenti cronache relative a violenze di genere, si enfatizza la dimensione emozionale del fare scuola, come se non si trattasse di un aspetto costitutivo dell’esperienza di insegnamento e apprendimento. È proprio la valorizzazione di questa dimensione che non solo rende complessa l’impresa scolastica, per l’importanza che assume la relazione umana tra insegnanti e allievi, ma rende anche quanto mai necessaria l’immissione nel contesto classe di elementi cruciali quali meraviglia, stupore, ricerca, dubbio, di difficile prevedibilità e riconducibilità nell’alveo della razionalità tecnica, al cui proposito mi permetto a due miei studi pubblicati in “Nuove frontiere della scuola” (33, 2013, 11ss e 34/2014, 28ss). Un curricolo che prendesse sul serio la dimensione emozionale dovrebbe assumere un profilo a maglie molto larghe – e quindi astenersi da ogni rigidità programmatoria – proprio perché pensato per allievi reali, e quindi fortemente impregnati di emozionalità nel loro assetto cognitivo e volitivo, partecipi di ambienti di apprendimento in cui gli aspetti emozionali, come li abbiamo definiti, non sono opzionali ma decisivi (si vedano in merito Massimo Baldacci, La dimensione emozionale del curricolo, Francoangeli 2008, e I profili emozionali dei modelli didattici, Francoangeli 2009, curato dallo stesso autore).
Davvero gli insegnanti amano agire come i missili intelligenti di Bauman, capaci di muoversi assecondando il movimento dei loro bersagli? Forse la scuola dell’infanzia e la scuola primaria possiedono quest’attitudine, ma la scuola secondaria, che maneggia repertori disciplinari altamente organizzati e soggiace spesso a logiche quantitative e misurative, fa fatica ad accogliere l’idea che un sapere consolidato è il frutto di una ricerca condivisa, discussa, rielaborata, che richiede a sua volta, da parte di chi insegna, un’osservazione altamente dinamica ed una valutazione decisamente narrativa. E soprattutto lentezza e profondità di sguardo.
Il tema della complessità in didattica è ancora all’anno zero, e i segnali di razionalità tecnica piuttosto che scemare tendono ad accamparsi nelle aule scolastiche in termini di comfort zone del Dichiarato. Sembra, in parole povere, che la forbice tra le forme dichiarate negli atti ufficiali e la vita reale, cognitiva e pulsionale, dei discenti sia destinata ad allargarsi. Non è una buona notizia.
In copertina, fotografia di Kyo Azuma.