Speciale

Senza bicicletta

15 Agosto 2012

La mia storia inizia come tante, con una bicicletta azzurra di nome Nuvola. Due ruote e due rotelline, per esplorare il cortile di casa in compagnia del mio fido tigrotto di peluche, ma senza rischiare di sbucciarmi le ginocchia. Non la usavo spesso, ma sapevo che era lì, era il mio piccolo mezzo di fuga nella fantasia. Quello e i libri. E poi un giorno Nuvola sparì, probabilmente perché era intenzione dei miei insegnarmi ad andare sulle biciclette vere, quelle per i grandi, su cui bisogna stare ben bene in equilibrio.

 

Peccato che non facessi in tempo a raccogliere le forze per dire «Mi insegni ad andare… ?», che la bicicletta ce l’avevano già rubata. Una, due, tre volte. Finché abbiamo deciso di fare a meno del mezzo. E a me sono rimasti solo i libri. Più crescevo più mi convincevo che non ne valeva assolutamente la pena: a che serve la bici? Forse per spostarmi in città tra gli strombazzamenti delle auto? No grazie. E poi avevo una gran fifa delle macchine. Passata quella ho deciso di fare un altro tentativo. Una cosa che non avrebbe occupato più di una giornata a detta di mio padre, che, munito di una bicicletta noleggiata e una pazienza da santo, tentava di farmi pedalare. Ma niente. Due secondi in equilibrio e giù per terra. Così giù anche la mia autostima, mentre montavano la frustrazione e la ferma convinzione che stavo sprecando il mio tempo. “Hai voluto la bicicletta? Pedala!” Questo si dice.

 

Invece io no, la bicicletta non la volevo e nessuno mi poteva convincere del contrario. Diciamo che era una specie di ribellione, una questione di principio. Che col tempo ho dimenticato. Non ci pensavo mentre, nei caldi pomeriggi d’estate, mi appollaiavo sul portapacchi, in posa ingessata, mentre il malcapitato di fronte a me pedalava come un forsennato su una bicicletta magrolina e cigolante. Col sorriso. E non ci pensavo nemmeno quando tentavo di tornare a casa a bordo di un Velib’ lungo la Senna, per poi finire col portarla a mano alla stazione successiva, sempre con qualcuno al mio fianco, sempre sorridente. Pochi momenti, ma assolutamente felici, mi hanno convinto che andare in bicicletta è un po’ come canticchiare sotto la doccia, cosa che ho sempre adorato. Certo, lo fanno tutti, ma questo non lo rende meno speciale. Note alte e note basse, una pedalata dopo l'altra. Ma ho ancora qualche dubbio. Da una parte c'è tutto l'entusiasmo del viaggio, lo ammetto, dall'altra la sensazione che alla prossima caduta mollerò tutto, per l'ennesima volta.

 

È forte la tentazione di scrivere che ci riuscirò... ma ho passato troppo tempo a ricamare metafore sulle due ruote e sulla vita: concludere così non mi renderebbe giustizia. Se ho veramente capito qualcosa di tutta questa storia è che a volte non devo stare tanto ad arrovellarmi su dove sto andando, ma godermi quello che sto facendo. E che io riesca o meno a diventare un pericolo pubblico su due ruote, avrò comunque imparato qualcosa in più su di me, sulla mia strada.

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