Società autoritaria e democrazia insorgente
Pubblichiamo per gentile concessione dell’autore e dell’editore un estratto dal saggio Società autoritaria e democrazia insorgente in La democrazia in Italia (Cronopio, Napoli 2011), che attualizza la riflessione sulla cultura di destra In Italia.
La Società Autoritaria è una risposta al disagio e alla crisi della democrazia spettacolare. In tale crisi, una classe o elite particolare si è effettivamente appropriata dello spazio simbolico della politica e ha chiuso realmente ogni possibilità di trascendenza democratica dell’esistente. La disgregazione dell’identità individuale, unita al suo solipsismo narcisista e al venir meno di ogni legame sociale e di ogni sicurezza materiale, costituiscono il fondamento propizio della Società Autoritaria. Questa dà una risposta immaginaria alla richiesta di uguaglianza e di cittadinanza, a cui la democrazia formale non sa più rispondere. Alla separazione astratta delle identità, la Società Autoritaria risponde col calore iniziale della fusione: alle identità già in via di dissoluzione, essa offre un’apparenza di senso nella stessa distruzione. La crisi presente del capitalismo produrrà una forma di Società Autoritaria, a meno che non si attivi un incremento della vera democrazia, con una liberazione effettiva dell’ordine simbolico. La Società Autoritaria è la controfigura passiva e deformatadi ciò che sarebbe una rivoluzione democratica.
Esiste un progetto culturale e politico di destra, largamente diffuso nel senso comune, anche se non elaborato in libri, convegni e università: un’egemonia culturale che si esprime in comportamenti e linguaggi che toccano perfino il cuore degli pseudo-oppositori[1]. La Società Autoritaria attuale non si sta costruendo contro il popolo, ma al contrario col suo largo consenso, accettando il dominio di quella che Antonio Gramsci definiva egemonia di una classe o di una elite. Non è vero che la Lega, vero motore egemone del governo attuale, manchi di cultura, anche se si tratta di una cultura dell’esclusione e della separazione: l’aspetto più inquietante è anzi che a tale cultura vengano integrati elementi che - singolarmente presi - evocano frammenti di discorso della sinistra, estratti dal loro contesto originario e piegati a significare il contrario di ciò che inizialmente intendevano esprimere.
Il federalismo, la critica dello Stato-nazione, la difesa delle identità locali e dei dialetti, l’autodecisione dei territori, sono tutti elementi della cultura della Lega e non sono definibili come pura e semplice ignoranza: facevano tutti parte del linguaggio di sinistra –e di estrema sinistra- in Italia negli anni 70. Guattari a Bologna, durante le giornate del 77, citava ad esempio i contadini bretoni che puntavano i loro fucili contro la polizia francese; e libri di estrema sinistra sulla questione meridionale vedevano il Risorgimento come una impresa coloniale e una guerra civile. Mentre una opposizione che come suo unico valore rivendichi l’unità nazionale e la difesa della Costituzione (buoni al massimo per un decente programma conservatore) ha perso la sua cultura e la sua ragione di essere.
Il concetto di rivoluzione passiva è stato usato di recenteper definire il mutamento di attitudini e comportamenti politici avvenuto negli anni 80 del secolo passato rispetto agli anni 70. Mi chiedo se questo stesso termine non debba essere usato per comprendere l’attuale Società Autoritaria e l’egemonia culturale che in essa si viene realizzando, rovesciando l’interpretazione tradizionale di Gramsci, come ha scritto recentemente G. Santoro su Il ponte: "C’è il Gramsci ortodosso del Pci, cioè il teorico di una estenuante manovra tattica e anche un po’ doppiogiochista per la conquista delle 'casematte' del potere, che strizza l’occhio alla cultura 'nazional-popolare'… Al contrario, il dibattito internazionale e multidisciplinare sul Gramsci globale dei pensatori postcoloniali dei tanti Sud del mondo e degli intellettuali asiatici dei subaltern studies, ha il merito di farci incontrare un Gramsci ignorato dalle (ri)fondazioni e dalle icone del comunismo italiano”.
Tuttavia nella situazione attuale si deve dare al concetto di rivoluzione passiva una inflessione assai più negativa di quella originale. Più che una trasformazione sociale che avviene nonostante tutto, molecolarmente, nella profondità del tessuto sociale, nel caso dei fascismi italiani si deve sottolineare la deformazione che subisce una iniziale spinta rivoluzionaria. Il passo di Gramsci che sembra più significativo è quello in cui scrive della “necessità della ‘tesi’ di sviluppare tutta se stessa, fino al punto di riuscire a incorporare una parte dell’antitesi stessa, per non lasciarsi ‘superare’ cioè, nell’opposizione dialettica; solo la tesi in realtà sviluppa tutte le sue possibilità di lotta, fino ad accaparrarsi i sedicenti rappresentanti dell’antitesi: proprio in questo consiste la rivoluzione passiva o rivoluzione-restaurazione”. La terminologia dialettica può risultare schematica o fastidiosa, ma il significato è chiaro: la tesi è il potere in via di costituzione, in un compromesso tra le vecchie e nuove elites (come è descritto nelGattopardo di Tomasi di Lampedusa); l’antitesi è la possibilità di una rivoluzione e di una società possibile e altra. Nel senso proposto da Gramsci, frammenti della cultura rivoluzionaria vengono conservati ma distolti dal loro fine essenziale e dislocati in un contesto diverso e tendenzialmente opposto.
In genere i fascismi italiani collocano in una disposizione gerarchica ed elitaria elementi che inizialmente appartenevano a richieste partorite dal principio di uguaglianza. L’assistenza sociale viene concessa da Mussolini; purché venga subordinata allo statuto delle corporazioni, alla rinuncia alla trattativa sindacale, alla negazione di una classe antagonista (naturalmente l’assistenza viene concessa entro certi limiti, meno di quanto era inizialmente richesto dai socialisti, ma pur sempre più di quanto avrebbe accettato la vecchia classe dirigente).
La Lega sta compiendo un lavoro di assimilazione-deformazione per certi versi simile, attenuando la sua iniziale carica provocatoria (del resto a un certo punto perfino Hitler eliminò le SA perché non gli consentivano un compromesso decente con i vecchi poteri forti). Proposte della sinistra sociale, come federalismo, autodecisione dei territori, e perfino quella della cittadinanza dei migranti, vengono deformate nella loro formulazione iniziale e così omologate al progetto di Società Autoritaria, assumendo una caratteristica flessione gerarchica. Prendiamo ad esempio il tema dell’immigrazione. Non si tratta più semplicemente di dire “fuori tutti”, “non li vogliamo”, ma piuttosto: li vogliamo nella misura in cui ci servono, nella misura in cui non tolgono il lavoro agli Italiani, nella misura in cui accettano una cittadinanza dimezzata; a patto insomma, che l’integrazione si coniughi al comando della razza superiore e al principio gerarchico.
Tuttavia, a questo prezzo, a una parte degli immigrati vengono concessi certi diritti e certe garanzie di lavoro e sopravvivenza (come ai servitori neri nel Sud degli Stati Uniti di un tempo, o a quelli del colono europeo in Africa). In un certo senso, l’immigrato può perfino apprezzare questa parziale concessione di diritti (rispetto alla clandestinità), che è meno di quanto richiedeva o poteva richiedere, ma di più rispetto a quello che i padroni inizialmente erano disposti a concedere. Una tematica (la cittadinanza piena) che era patrimonio diffuso della sinistra, che si ispirava all’inclusione e al principio di uguaglianza, viene “corretta” dal suo assorbimento nella “tesi” opposta, una costruzione gerarchica del sociale, divisa in padroni e servi (cittadinanza dimezzata).
Questo richiamo deforme dell’antico elemento culturale di sinistra, basta a commuovere gli pseudooppositori di sinistra, che ebbero a definire la Lega “una costola della sinistra”. D’altra parte non a caso Gramsci parla di “sedicenti” rapresentanti dell’antitesi. Occorre che questi siano particolarmente sprovveduti, incapaci e collusi perché l’opera di passivizzazione abbia successo: o quanto meno che si ispirino a una cultura politica invecchiata. L’antitesi allora non si conserva come tale, ma si trasforma in tutt’altro: una versione edulcorata della tesi (non: facciamo una piena cittadinanza, ma: un pochino meno dimezzata, variazioni subordinate all’egemonia di chi ha in questo momento il potere della decisione). Nella storia italiana gli esempi di questo tipo di politica sono numerosi: i socialisti rissosi e parolai riassorbiti dal fascismo; gli aventiniani difensori dello statu quo indifendibile; e ora l’opposizione “parlamentare” dei democratici, in un momento in cui il parlamento non è più luogo di decisione politica, ma una semplice messa in scena di decisioni prese altrove (magari in qualche “fondazione”).
La sinistra parlamentare non contesta frontalmente questo ordine del discorso, non ne ha la forza, non possiede una sua visione o interpretazione del mondo alternative; si limita a chiederne un’applicazione un poco più tenue, configurandosi in effetti come la corrente moderata di uno stesso progetto politico e culturale (un po’ come si diceva che Bottai fosse più “a sinistra” di Mussolini, pur considerando il fascismo come orizzonte intrascendibile del senso). Così il PD non è un partito “antixenofobo”, ma solo un po’ meno xenofobo degli altri: accettando fondamentalmente la xenofobia come orizzonte di senso non trascendibile della attuale società autoritaria. Ma lo stesso discorso può esser fatto per ognuno dei temi politici attualmente in discussione: il PD accetta l’egemonia culturale dell’avversario e vi inserisce la sua critica timida e rispettosa (come un vecchio maggiordomo rimbrotta il giovane ed esuberante padrone).
Alla Società Autoritaria si contrappone la Democrazia Insorgente. Essa porta alla luce il conflitto latente nella realtà sociale, sottratto alla visibilità da rappresentazioni smortamente conciliative e ipocritamente “buoniste”; dà voce e articolazione alla lotta dei “senza parte”, e cioè di coloro che sono di fatto esclusi dalla cittadinanza e ancor più dall’elite dominante; impedisce che il conflitto sia risolto dalla polizia di stato o rimesso al puro arbitrio dei rapporti di forza. È lecito immaginare istituzioni democratiche diverse da quelle dello Stato, in cui sia possibile prendere decisioni che riguardano l’essere-in-comune, rispettando la differenza dell’altro, e la specificità dell’ambiente sociale in cui deve essere assunta la decisione. Al decentramento –ovunque possibile- delle decisioni politiche, meglio corrispondono istituzioni partecipative, invece che parlamentari; esse hanno fatto la loro comparsa nelle insorgenze rivoluzionarie del 900 e affiorano in movimenti di lotta vivi oggi in diversi luoghi del mondo. È un’utopia? E forse lo “Stato sociale” non è la più tramontata delle utopie? E lo “Stato democratico” non sta seguendo la stessa sorte? Almeno l’istituzione partecipata mira a trasformare in modo nuovo l’esistente e il futuro, a definire una nuova condizione di cittadinanza. Il realismo politico è tale solo in apparenza e non fa che aggrapparsi a forme di fatto già liquidate dalla storia, come lo Stato Nazione, subordinato alla logica economica mondiale e globale.
[1] Un’eponente del PD, a nome Fassino, ha recentemente declamato in una riunione dei dirigenti del partito il seguente alessandrino: “Qualche volta nel mio cuore il leghismo prorompe” (del resto non diceva un altro del PD, a nome D’Alema, celebrato per il suo fiuto politico, che la Lega era una “costola” della sinistra?)