Un libro di Laura Pigozzi / Sorelle: il mistero di un legame
“La sorella rappresenta per ognuna un limite ma anche la possibilità di capire cos’è un legame: ci spodesta dal trono dell’unicità, fa argine al nostro narcisismo, può provocare una sconfinata gelosia, ma senza di lei non impariamo a far coesistere differenza e uguaglianza, cioè gli assi cartesiani di ogni progetto di umanizzazione”: così Laura Pigozzi riassume l’intento che guida il suo ultimo libro, edito da Rizzoli, dal titolo già di per sé esplicativo, Sorelle. Il mistero di un legame tra conflitto e amore. Attraverso il dono di una scrittura sospesa a metà tra rigorosa riflessione di teoria psicoanalitica e pretesto narrativo, Pigozzi racconta alcune storie di sorellanza, storie “vere” e talvolta tremende che offrono all’autrice il pretesto per riflettere sulle ombre di un rapporto tutto particolare, un rapporto che non si sceglie ma semplicemente accade; un affetto che, come ben avverte il sottotitolo, contiene in sé gli estremi delle passioni, e sa alternare amore a odio, condivisone a egoismo, nostalgia a rancore.
L’“architrave dell’inconscio”, è stato Freud a insegnarcelo, va rintracciata in ciò che la psicoanalisi ha chiamato Edipo, termine attraverso il quale si illustra quel misterioso triangolo che lega il padre, la madre, e il figlio. Fiumi d’inchiostro sono dedicati alla descrizione di questa complessa geometria famigliare, annotazioni che, proprio perché oramai note, il nostro orecchio tende a recepire quali fossero un adagio, dal tono quasi fiabesco, che recita più o meno così: il bambino desidera la madre, la vuole solo per sé, e ciò suscita in lui un sentimento di forte rivalità nei confronti del padre, il genitore del suo stesso sesso, che certamente ama e dal quale desidera essere amato, ma che ai suoi occhi rappresenta parimenti ciò che gli impedisce di congiungersi con il suo oggetto d’amore. Una simile rivalità è destinata però a durare poco; sul bambino cala ben presto il timore della castrazione. Egli non può competere col padre, inconsciamente lo sa; di conseguenza, anziché combatterlo, il bambino finisce con l’identificarvisi, imparando anche a dirigere il proprio desiderio non già verso la madre, ma verso una donna che ha ancora da venire.
Questo, più o meno, è il modello che ci è stato proposto e insegnato. Un modello, lo si nota subito, evidentemente maschile; si parla sempre di un maschietto, dopotutto.
Sorge allora una domanda, nient’affatto scontata: cosa accade se, al bambino del nostro adagio edipico, subentrasse ora una bambina? Qualcuno non mostrerà esitazione alcuna nel rispondere; penserà che basta capovolgere i termini in gioco, e le relazioni tra gli attori, tale per cui è la bambina ora a desiderare il padre e a provare un sentimento di forte rivalità nei confronti della madre. Facile, no? In altre parole, basta pescare ancora una volta dal teatro greco, e sostituire al personaggio di Edipo quello di Elettra, che bene incarna l’immaginario di una figlia così tenacemente affezionata al padre, Agamennone. Tuttavia, ciò che una simile proposizione ignora è il ruolo di “primo amore” che la madre incarna tanto per il bambino quanto per la bambina. In tal senso, già Freud aveva ravvisato una maggiore complessità nell’edipo femminile, non immediatamente risolvibile, al punto da riconoscere nelle sue stesse speculazioni un carattere “lacunoso” e “oscuro” lì dove l’attenzione veniva rivolta alla bambina – a conferma anche del fatto che, contrariamente a quanto si pensa, Freud dal femminile era rimasto profondamente turbato; la psicoanalisi, non lo si deve dimenticare, nasce a partire dai racconti delle donne, delle isteriche, e Freud, del tutto consapevole della provvisorietà delle sue proposte, confidava piuttosto nella capacità dei posteri, perché sapessero dire qualcosa in più sul quel “continente nero” che nel femminile si manifesta.
Pigozzi, in tal senso, nel suo nuovo libro accetta la sfida lanciata da Freud, abbraccia una simile complessità, la fa propria. Partendo dall’ascolto attento dei racconti di alcune pazienti, e attraverso una scrittura tanto minimalista quanto efficace, l’autrice intreccia con sapiente maestria simili racconti a casi clinici noti, come quello delle “gemelle silenziose” June e Jennifer Gibbons, passando poi alle sorelle “criminali”, le francesi Christine e Léa Papin, che già avevano attirato l’attenzione di Lacan, Sartre e de Beauvoir, per citarne solo alcuni, e include anche casi “letterari”, dedicando ad esempio pagine interessanti all’ambiguo legame tra la scrittrice Virginia Woolf e la sorella Vanessa Bell. L’obiettivo è quello di immaginare una differente geometria famigliare; più precisamente, Pigozzi sceglie di aggiungere un tassello al triangolo edipico freudiano, affiancando alla relazione madre-figlia, quella non meno complessa ma fondamentale tra sorelle.
Mentre leggevo, mi tornavano alla mente catene di citazioni, un po’ alla rinfusa, attorno alla questione del materno e della sorellanza, a partire da Adrienne Rich, la quale avvertiva con tono perentorio che “prima del legame tra sorelle c’è il legame – transitorio, frammentato forse, ma fondamentale e cruciale – tra madre e figlia”. Sì, effettivamente è così, e Pigozzi lo conferma, sostenendo però allo stesso tempo che l’importanza della relazione tra sorelle, che è stata “perlopiù occultata a favore di quella con la madre, immaginando per esempio che una sorella sia il dono della madre all’altra figlia”, debba essere ripensata, se non anche valorizzata. Di qui, l’insinuazione di un dubbio, di una falsa credenza con un peso psichico notevole: insistere unicamente sul rapporto verticale madre-figlia rischia di avallare “la falsa credenza che il rapporto tra le sorelle non esisterebbe senza la mediazione materna”. Come uscire, allora, da una simile impasse? La soluzione pare risiedere nel matricidio, nell’uccisone simbolica della madre, nella separazione dal suo corpo e dai significati che ad esso si accompagnano; un gesto forte ma necessario, che permetterà alla bambina di procedere con il proprio ingresso nel mondo, realizzando al contempo un tentativo di singolarizzazione della propria esistenza.
Per continuare il gioco di citazioni e richiami polifonici cui ho fatto cenno poco sopra, mi piace ricordare le parole di Luce Irigaray, che da qualche parte, nel suo Étique de la différence sexuelle (1984), scriveva di come “il legame tra madre e figlia, figlia e madre deve spezzarsi perché la figlia divenga donna”. Ahimè, bisogna forse dare credito a Irigaray su questo punto, anche se Pigozzi preferisce dialogare con altre donne, altre psicoanaliste, in primis con Julia Kristeva, e in particolare con un testo che lei dedica alla collega Melanie Klein, parte della trilogia sul genio femminile. Alle parole di Kristeva per cui “la madre non basta, la madre non riesce a soddisfare i bisogni affettivi del bambino; lasciate perdere la madre, non ne avete più bisogno”, fanno eco quelle di Pigozzi, ancor più esplicite, secondo cui “perché ci sia sorellanza occorre accettare una quota d’odio per la madre”. E continua: “Se non si opera un matricidio immaginario, che genera un valore simbolico, cioè pensiero, potrebbe operarsi un ben più dannoso sorellicidio”, gesto senza alcun valore, “banale amputazione” che priva la donna di una preziosa opportunità.
Ed è proprio questa, o per lo meno così a me pare, la scommessa più grande che Pigozzi affida alla sua indagine. Il rapporto sororale è un rapporto di conoscenza; è un affetto che si muta in conoscenza. Conoscenza di che, qualcuno si domanderà? Della propria femminilità, dei suoi misteri, e di come ogni donna scelga, più o meno inconsciamente, come e se affiancarvisi. Una sorella, in tal senso, rappresenta una straordinaria palestra di femminilità, alternativa alla figura della madre, che è dopotutto ancora maschile e iscritta all’interno di un sistema patriarcale. Vivere al fianco di una sorella significa prima di tutto riconoscere che questa non è “un’intrusa”, spiega ancora Pigozzi, bensì un’altra, uguale e differente, un’alleata che, sì, per un certo periodo “ha ingombrato il corpo della madre”, ma che poi è anche riuscita ad uscirne, “soprattutto psichicamente”. E magari ora può inconsciamente indicare all’altra, alla sorella, la via per la stessa liberazione.
Con queste ultime osservazioni credo forse di voler giustificare la mia presenza intrusiva in questo libro; avevo persino pensato di iniziare il mio commento con delle scuse. Io, io che c’entro, dopotutto? Sento, in altre parole, di dover giustificare il fatto che sia io a recensire il saggio di Laura Pigozzi, non senza imbarazzo. Io, un uomo certamente affascinato dal femminile, ma pur sempre un uomo; io, che una sorella ce l’ho, ma insieme noi non siamo “sorelle”, ma siblings, per utilizzare questa bella parola, dal valore neutro, di cui l’inglese dispone. Eppure, più andavo avanti con la lettura, più avevo l’impressione che il saggio di Pigozzi parlasse anche a me, e confermasse una mia intuizione scomoda, quella per cui v’è una certa difficoltà per le donne a fare genealogia, a costruire per sé e dopo di sé una tradizione. Forse è proprio questo ciò che il saggio discute, e forse è per questo che la sua autrice dedica ampio spazio alla descrizione di casi in cui la relazione con la sorella finisce per riflettere i toni non solo del conflitto, ma anche della follia, come se lì dove si scansa lo stereotipo materno non resta altro che una forte crisi d’identità.
Pigozzi, in questo senso, è profondamente lacaniana, e sa che ogni donna è una, è l’Uno singolare, inassimilabile al resto; se non lo fosse, smetterebbe di essere donna. Non esiste un’essenza universale del femminile, nonostante in molti e in molte l’abbiano cercata, così come non esiste identificazione che possa garantire alla donna l’autentico cui lei agogna. Quello verso la femminilità è un viaggio che non può che essere condotto in solitaria… allo stesso tempo, però, Pigozzi scommette sulla sorellanza come momento di passaggio, occasione di confronto, di dialogo, persino di scontro, che offre la possibilità di capire cosa si è e (perché no?) anche, e soprattutto, cosa non si è, o cosa non si è più… Un simile coraggio, che è fors’anche lotta strenua contro una connaturata solitudine, caratterizza la donna, o meglio, chi dalla parte della donna vuole situarsi, al di là di un certo banale, sciocco persino, cameratismo maschile – quello stesso cameratismo che anche un certo femminismo nostrano ha per molto tempo inseguito.