Speciale

Speciale Gianni Celati | Dormire con Celati

11 Aprile 2013

È molto vera una cosa ripetuta dalle persone che stanno raccontando il loro rapporto con Gianni Celati, e cioè che – rispetto ad altri autori magari più amati, o a torto o a ragione considerati più “importanti” – la sua scrittura fa appello a qualcosa di profondo e intimo, o magari nient’affatto profondo e forse neppure così intimo, ma che sentiamo ci riguarda a un livello molto personale. Qualcosa nella sua scrittura, ribadisco; anche se questo qualcosa di personale si precisa solo una volta che di Gianni si sia fatta la conoscenza di persona.

 

La prima volta che l’ho visto avevo letto, credo, solo Verso la foce. Eravamo alla fine degli anni Novanta, anzi era il ’98, il centenario di Leopardi. Quel libro, Verso la foce, mi aveva lasciato alquanto incerto. Proveniva da quella che mi appariva, ancorché così recente, un’altra epoca – anni che mi facevano antipatia. Ma già non mi sfuggiva il suo fascino. Sia come sia, Gianni venne alla «Sapienza» a parlare appunto di Leopardi. Ricordo che alla pomposa Aula Uno di Lettere lo presentò un vecchio professore che per tutto il suo discorsetto lo chiamò «Citati». «Gianni Citati è uno scrittore, uno studioso, un traduttore; Gianni Citati ha insegnato all’Università di Bologna», e via dicendo. Quando il vecchio professore finalmente tacque, lui prese il microfono e con pacatezza esordì dicendo che sì, non poteva negarlo, era uno scrittore, uno studioso, un traduttore; però «non era Citati». Poi cominciò a leggere da certi appunti. Un discorso elegante ma, mi parve, troppo autoriferito. Qualche tempo dopo fece un seminario più ristretto, nei sotterranei della Facoltà dove avevano sistemato un pretenzioso museo con le riproduzioni in gesso delle statue classiche.

 

Fu lì che si produsse la folgorazione.
Parlava a voce bassa, lentamente e come incerto, accendendosi ogni tanto in frasi tutte smozzicate e accavallate una sull’altra. Anche stavolta aveva portato con sé un quadernuccio dove c’erano, trascritte a mano, lunghe citazioni dallo Zibaldone e da testi di Spinoza. Leggeva un passo di Leopardi, poi uno di Spinoza, ogni volta facendoci notare le somiglianze e le differenze. Non si sognava di cercare di dimostrare se e quanto il primo avesse letto il secondo, come avrebbe fatto un professore di quelli cui ero abituato. Semplicemente voleva farci sentire il suono delle frasi di quei due – e come quel suono, forse, ci poteva aiutare a vivere.

 

Era tutto un ruminare parole mentre il tempo passava e il discorso, era evidente, non andava a parare da nessuna parte. Un’ora, un’ora e mezza, due ore e mezza. Fuori intanto calava la sera, e i due o tre docenti che si erano scomodati per fare presenza cominciavano a guardare nervosi l’orologio. Intanto Gianni aveva abbassato il tono, ormai, sin quasi all’infrasuono. La maggior parte degli studenti e dei dottorandi se l’era squagliata da un pezzo; io invece stavo arrampicato sulla punta di una sedia scomodissima, rosicchiandomi le unghie e prendendo una quantità di appunti, avrei poi constatato, sconnessi e illeggibili. Poi mi pare che lesse un pezzo di Deleuze, L'esausto, «la voce estingue il possibile mentre lo spazio estenua le sue potenzialità […] l’immagine è quel che si spegne, si consuma, è una caduta»… Concluse con A se stesso: facendo notare come, anche in quel contesto esausto, a ogni enjambement Leopardi facesse avvertire un soprassalto minimo, una specie di pulsare biologico, come quello del sangue nei polsi o la sua eco nelle orecchie. Assai – pausa lunghissima – palpitasti. Eccetera.

 

Non avevo mai pensato che si potesse leggere in quel modo. Una poesia così consumata dalla scuola, poi, per non parlare delle menate adolescenziali. Ero stupefatto. Mi stupiva anche come mi sentissi: elettrizzato e insieme rincoglionito, anzi semiaddormentato. Come un incantatore di serpenti Gianni – alla lettera – mi aveva ipnotizzato. Solo molto tempo dopo avrei capito che questa ruminazione del tempo è parte integrante della sua scrittura. Quando vedrò Passar la vita a Diol Kadd mi si chiarirà questa concezione dilatata, rallentata e allargata, dell’esistenza.

 

Il libro che lessi dopo quella sera abissale fu, appena uscì, Cinema naturale. Ogni resistenza era crollata. Quanto avevo ammirato con freddezza Verso la foce, tanto mi innamorai di quei racconti. Uno in particolare mi rimase impresso, Nella nebbia e nel sonno. C’è una donna che si annoia con un «intrampano universitario», il quale non fa altro che accumulare fotocopie impolverate. Lei allora comincia a parlare a un altro uomo, gli parla per ore finché si fa notte. Continua a parlare anche mentre lui, piano piano, si assopisce. Anche al telefono è sempre lei a parlare: «Di notte lasciava il telefono per terra e la sentiva bisbigliare, o fare piccoli squittii che gli ricordavano i versi d’un topo. A volte nel dormiveglia la sentiva chiedere: “Mi capisci?”, e dal letto le rispondeva: “No, ma vai avanti lo stesso”». La donna parla tanto che a un certo punto anche lei comincia ad addormentarsi senza smettere di parlare: «Allora in un certo senso loro dormivano assieme, e forse sognavano assieme, ma ognuno in assenza dell’altro, e questa mi sembra una fortuna».

 

Qualche anno dopo mi trovo a Milano e vengo a sapere che Gianni è di passaggio a Cinisello Balsamo, dove proietteranno uno dei suoi documentari per ricordare Viaggio in Italia. Tante volte ho sentito parlare di questi film, ma non li ho mai visti. È cominciata da poco la mia storia con Lena e abbiamo appena fatto l’amore lì, a Milano, a casa di un amico. La trascino con me, anche se lei è stanca e Celati non l’ha mai letto, sa a malapena chi sia. Arrivare lì è una piccola odissea però lei è di buon umore, mi offre delle arance; alla fine ce la facciamo e troviamo anche posto in prima fila. Poi succede che il proiettore non funziona, il film – credo fosse Visioni di case che crollano – s’interrompe di continuo. Gianni parla, continua a parlare a voce molto bassa non si capisce bene di cosa, cerca di intrattenere le persone in attesa che il film ricominci. Ancora una volta sento le palpebre pesanti ma cerco di restare attento – sono o no un coscienzioso intrampano a mia volta? –, poi mi volto verso Lena Così mi accorgo che lei, invece, sta dormendo della grossa. Provo a scuoterla senza dare nell’occhio, lei alza mezza palpebra, scuote piano la testa, mormora qualcosa che non capisco, si riaddormenta.

 

Più tardi andiamo a salutare Gianni. Lui si deve essere accorto che Lena ha un’aria strana e le chiede se le è piaciuto il film, allora lei candidamente confessa di aver dormito tutto il tempo. Mi raggelo nell’imbarazzo, poi vedo che lui sorride, si illumina, e lei si unisce alla sua risata. Anche Lena, quella sera, mi ha dato una lezione di lettura.

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