Antonella Anedda, le piante di Darwin e i topi di Leopardi
Le piante di Darwin e i topi di Leopardi (Novara, Interlinea, 2022) di Antonella Anedda ha come oggetto l’analisi filologica e comparatistica dei testi di Erasmus Darwin (1731-1802) nell’opera di Giacomo Leopardi (1798-1837). I topi cui fa riferimento il titolo sono infatti quelli della Batracomiomachia, mente le piante sono quelle di Gli amori delle piante, unica parte tradotta in italiano di The Botanic Garden (1789) di Erasmus.
Edito nella serie “Il profilo delle parole”, curata da Franco Buffoni e Roberto Cicala, il piccolo e compatto volume è un libro di critica d’autore che non si limita solo ad analizzare quanto Leopardi sia stato accorto lettore delle traduzioni delle opere di Erasmus, ai tempi assai diffuse. A partire da quest’incontro testuale infatti, con strumenti filologici che ricostruiscono la discendenza dalle opere presenti nella biblioteca di Monaldo – da Lucrezio a Galileo, fino a Hume – Anedda mostra quanto Leopardi sembri essere sul punto di anticipare la teoria dell’evoluzione di Charles Darwin (1809-1882) in L’origine delle specie (1859).
Frutto di una ricerca discussa a Oxford nel 2010, il libro è suddiviso in cinque capitoli. Usando come reagente la prosa di Osip Mandel’stam (per il quale “leggere i naturalisti può spalancare nella nostra vita una radura”) Anedda affronta la costellazione di testi che unisce le opere darwiniane, avanzando ipotesi e considerazioni su ciò che avrebbe potuto diventare il pensiero di Leopardi se avesse vissuto abbastanza a lungo dopo la Ginestra, in modo da confrontarsi con la teoria dell’evoluzione.
Così come Leopardi, anche Charles Darwin nega qualsiasi tipo di intenzione benigna alla natura. Su questo condiviso substrato di anti-antropocentrismo – elemento fondamentale della poetica dello Zibaldone, delle Operette morali e dei Paralipomeni della Batracomiomachia – nel corso delle pagine Anedda conduce un’analisi letteraria delle discendenze, genealogie, eredità, evoluzione del pensiero, ricostruendo la costellazione di filosofi e naturalisti noti al poeta, tramite la comparazione dei passi e la citazione delle fonti critiche utilizzate come pietre di paragone.
Non si tratta quindi di un libro di sola analisi filologica e comparatistica, in quanto le analisi evidenziano anche la personale poetica di scrittrice della Anedda. L’impegno di rendere narrativo e aperto il discorso lo rende fruibile ai non addetti alle questioni accademiche, ponendo in rilievo i problemi filosofici dell’anti-specismo, dell’animalismo e della politica ecologica, aspetti che ne fanno un’opera non solo archeologica ma anche attuale.
La contingenza impedisce d’immaginare cosa Leopardi, fermato sulla soglia del baratro, avrebbe potuto scrivere dopo la Ginestra, testamento del suo pensiero insormontabile proprio per tale consapevolezza del limite. Con accortezza invece Anedda spinge oltre la riflessione e, superato qualche eccesso di “controfattualità”, crea un ponte di rispondenze testuali, ricollega gli esiti filosofici del pensiero leopardiano con la teoria dell’evoluzionismo.
Mirabile nel testo, oltre la trama tessuta come un arabesco di relazioni che si stratificano e gemmano a partire dalla triangolazione con Erasmus, è la volontà di rendere concreto il “come sarebbe stato”, come si sarebbe evoluto il pensiero di Leopardi se fosse vissuto più a lungo, se avesse potuto leggere la teoria sull’origine delle specie per mezzo della selezione naturale presentata alla Linnean Society nel 1858 e pubblicata l’anno successivo. Ipotesi affascinante, così come le coincidenze fortuite delle date giocate nel corso delle pagine, per esempio nel caso dell’anno di morte di Leopardi che coincide con la spedizione di Darwin sul Beagle.
L’auspicio di attualizzare i passi della Batracomiomachia ricontestualizzandoli con rigore filologico alla luce del pensiero dei Darwin (nonno e nipote) è quindi riuscito. Può sorgere qualche perplessità quando tali passi vengono posti in relazione con gli sviluppi successivi della teoria dell’evoluzione che, in quasi duecento anni, si è arricchita in maniera esponenziale.
Ricordare la differenza tra il pensiero di Darwin e il darwinismo sociale di Spencer è certo utile per mettere in guardia contro la strumentalizzazione fascista della teoria dell’evoluzione, così come è suggestivo accostare alla Ginestra l’idea del make kind di Donna Haraway, per la quale l’evoluzione non è solo competizione ma anche cooperazione: si tratta di accostamenti forse non del tutto leciti dal punto di vista del metodo, ma sono certo affascinanti e fecondi di ulteriori riflessioni assai attuali.
Se la trasmissione della cultura segue la teoria lamarckiana, nella teoria darwiniana invece, a prescindere che ci sia cooperazione o competizione, il contesto agisce come un vaglio e la forma non s’adatta bensì emerge per selezione.
Nella Ginestra è ancora presente un fine verso il quale tendere e proprio qui soggiace il rischio metodologico di accostare il Leopardi non già alle opere del nonno, quanto alla teoria successiva di Charles: certo già Lucrezio aveva compreso che il mondo non è fatto per l’uomo e certo proprio l’evoluzione della teoria dell’evoluzione ha mostrato come nell’ordine naturale non vi sia una gerarchia bidimensionale (filologica, a albero) quanto piuttosto una proliferazione multidirezionale, simile alle concrezioni del corallo. Eppure il paradosso dell’inesprimibilità di tale molteplicità attraverso la scrittura lineare resta irredimibile, perché la rappresentazione del mondo che abbiamo tramite il linguaggio è costitutivamente limitata.
L’evoluzione delle specie viene quindi solo intuita, in termini filosofici, da Leopardi, al quale manca la base empirica, sperimentale, della dimostrazione scientifica che solo Charles, o Alfred Russel Wallace, potranno avere pochi anni dopo. In quanto filologo Leopardi può essere tutt’al più considerato un anticipatore di Lamarck; ciò cui il libro tende infatti non è tanto far risaltare Leopardi quale anticipatore della teoria dell’evoluzione, quanto la sua consapevolezza dell’anti-finalismo teleologico, originato da comuni matrici di pensiero.
Darwin dimostra per via empirica qualcosa che Leopardi non avrebbe potuto esplicitare poiché non fu mai un naturalista, non misurò “il becco dei passeri” come Charles fece alle Galapagos. Gli esempi che pure Anedda porta citando i passi dello Zibaldone sulla lucciola e sul cane, i casi di osservazione da parte di Leopardi del carattere animale – animale e umano quindi, in quanto l’uomo è specie animale – non sono sufficienti a farne uno scienziato o un etologo ante litteram.
Ma anche il conte intuisce, come rileva Franco Buffoni, che l’uomo non è al centro dell’universo, però ci arriva non per calcolo ma per intuizione poetica, prima ancora che filosofica. Sia nelle Operette che nei passi dello Zibaldone e della Batracomiomachia v’è sempre, nonostante l’ironia – fino al riso dianoetico beckettiano – la necessità di ridurre la realtà allo schema di una narrazione, addomesticarla a una parabola che abbia un inizio e una fine.
La scienza invece mostra, per altre strade e con altro linguaggio (quello dei numeri, a sua volta relativo ma più efficace delle parole) ciò che le parole non possono esprimere se non per via di un’illuminazione, ovverosia che non v’è alcuna direzione, alcun fine o gerarchia, ma un intreccio di processi molteplici, un fluire ininterrotto che le parole non possono formalizzare se non in modo lirico.
Quindi le analogie tra Leopardi e Charles Darwin si dovrebbero, più che a una discendenza, a un caso di convergenza evolutiva. Da un punto di vista filosofico Leopardi sarebbe addirittura più avanti della teoria dell’evoluzione in virtù del pessimismo (e del nichilismo) che giunge alle estreme conseguenze proprio senza necessità di dimostrazione scientifica: la vita poggia su un processo dinamico e inarrestabile di morte e rigenerazione, di selezione e adattamenti al contesto in un flusso infinito senza fine o significato.
Tra lotta e cooperazione evolve non il più forte ma il più adatto, purché il discorso della vita vada avanti. Che ciò avvenga per gradi o per rivoluzioni poco importa: il problema resta quello dell’impegno per dare un significato – tramite il desiderio, la simpatia o la poesia – all’incessante accadere dell’esistenza.
Quello del senso non è un problema scientifico ma filosofico; anzi, è il fondamento del pensiero filosofico (“perché qualcosa invece del nulla”) o addirittura del pensiero in sé. Se c’è un dio, esso non parla il linguaggio umano teso a finalizzare o normare l’esistenza da un punto di vista antropocentrico (si tratterebbe in tal caso di un demiurgo); se c’è un dio esso è simile ad Arimane, principio primordiale, potenza spirituale insita nel flusso della materia stessa.
Oltre al valore filologico e comparatistico Le piante di Darwin e i topi di Leopardi porta in luce tali frammenti di senso, mostra echi e rispondenze, la solidarietà verso l’incessante metamorfosi che tiene unite le forme viventi. Sempre più tengo presente quel motto, ricordatomi da Eleonora Pinzuti, che si dice ritrovato a Delfi: non l'abusato "conosci te stesso" ma l'altro, meno noto, "pensa da mortale", motivo per cui quest’opera di Antonella Anedda insegna a pensare da mortali, affinando amore e solidarietà verso l’evoluzione stessa della vita.