Il carabo nella calza
Lo sguardo cade sempre tra le ombre dei sassi sommersi, oltre la punta dei piedi, nel greto in primo piano, luogo tipico in cui vive il piccolo Coleottero. L’albero accanto a me ha un fusto liscio dello stesso colore del mio corpo. Il nastro argenteo del torrente che ho risalito in cerca dell’insetto diventa uno specchio in cui si riflettono il cerchio celeste del cielo, i colli screziati dagli ulivi. Sul candore dei margini risaltano esili piante acquatiche, brune stampigliature come pressate tra i fogli d’un erbario. Ranuncolo, borragine, felce, edera, tarassaco. Mi sporgo in avanti, facendo leva sul piede destro. Tendo avanti il tallone, flettendomi, mentre il braccio è proteso e il palmo della mano aperto verso l’acqua cristallina che serpeggia in mulinelli. Su un ramo posano due damigelle verdi dalle ali di vetro affumicato.
M’incuneo tra pruni e rovi, infiltro il corpo diafano nel paesaggio senza aprire varchi, adattandomi ai rudi passaggi, oltre l’ansa erbosa dove, in prospettiva, spuntano ceppi d’alberi tagliati. Intorno al capo e nei capelli s’intreccia un serto di foglie e ghirlande di pollini di pioppo, di fiori di tiglio. Tra le fronde trapelano cediglie di luce, ombre che si rimpiattano fra le pietre. Sul greto dilavato gli echi si moltiplicano fino ad acquietarsi in un’ansa sabbiosa. Resto in equilibrio, seduto sui talloni, immobile sul masso più grande. L’orizzonte diventa il suolo, la superficie stessa del fiume da cui si schiudono altre dimensioni. Mi sento impacciato quando spogliandomi, curvo tra i salici sulla riva, giro prima il torso e poi il braccio per togliermi dal collo e dalle spalle i panni che m’impastoiano. Resto fermo al gelo come un Battista vestito di corteccia lionata. La chiostra dei colli e gli antichi casolari circondano il basso argine, mentre il cielo appare freddo, rigato da poche nuvole sottili e parallele.
La luce scende omogenea dall’alto. Il ghiaieto è terso e l’atmosfera immobile come il cipresso sulla cima della collina brulla. Tra penduli stocchi d’erba spada disincaglio una pietra scabra. Schioccano, se ribaltati, i ciottoli algosi lasciando orme, il loro negativo sul limo. Sullo sfondo della sabbia, una luccicanza abbacina dallo spazio retrostante macchiato di riflessi. Così incontro l’ospite atteso. Lo smeraldo del prato fa da cornice alle elitre del minuscolo Carabo che saetta in diagonale, da sotto superfici oleose in cui cerca riparo, infrascandosi tra le foglie cadute. Corre lucente lungo le anse scure e i piccoli golfi, come un bagliore improvviso, per puro sforzo d’autoconservazione. Nessuna punta di spillo lo può trafiggere. I suoi movimenti sono mitigati dalle asperità del suolo in linee rifratte. Circumnaviga una ghianda, il frammento di foglia che interrompe l’andamento zigzagante. Nelle brevi fughe il suo incedere non può che adattarsi ai contorni sinuosi delle cose.
Il Carabo cerca rifugio nella fertilità delle tenebre, al riparo nel grembo accogliente della materia. Depongo l’attrezzatura, le pinze, il flacone, mentre una coda di ramarro fruscia tra le foglie, su cuscini di romice rossastra. Studio la superficie liscia delle elitre sulle quali sono rifratte le mie pupille. Ricchi dettagli dei quali figuro con la fantasia i profili, l’esile contorno, in un esercizio che conduco in meditazione solitaria. Frammento grande quanto un chicco di riso, arcaico monile splendente, l’insetto risalta sulla patina effimera delle barbe algose, è uno dei primi gradini che conducono alla trascendenza. Sotto il cipiglio dei solchi le trepide ombre maculate gli fanno da riparo, come la chiostra meridiana dei colli, i lecci, gli ulivi, ogni pianta nostrana, le colture antiche e l’antica gramigna, le strade bianche di polvere, parti di mondo nitidamente allumato. Scintilla, adesso, in fondo all’algida conca delle mie mani.
Fisso le sue chitine, attento ai movimenti vigili e impercettibili delle antenne, fra strati di sabbie e minuscoli detriti fluitati dalle piene invernali. Per un istante col palmo riesco a fermarne la corsa, cosicché tra indice e pollice percepisco il moto reiterato dei femori e delle esili zampe fulve, la sua fugace vita vibrare. Il prodigio supera la rappresentazione. Staziona coi tarsi distesi, il Carabo, al centro chiaro della mano che ne rimarca il contorno. La sua forma non vive una vita individua ma è connessa alle altre in un armonico intreccio di viluppi e spirali. Le elitre sono larghe e convesse, con lati e omeri arrotondati. I tegumenti paiono lucidissimi, privi di microscultura. Immagino relazioni indissolubili, coreografie risarcitorie con impercettibili crostacei, invertebrati, gasteropodi, soprattutto nello stadio larvale. La manifestazione della sua compressa energia che sfugge sulle sabbie adesso non ha scampo. Immobile, si lascia osservare. Immacolato. Risalta netta l’organicità dei dettagli, la livrea dei riflessi di cielo, le chitine che per la tensione s’aprono, fessurandosi, quando il prigioniero socchiude il margine delle elitre fino a quel momento nascosto. Sembra voler volare via, divaricando appena la sutura.
La fragilità dei suoi arti, delle antenne preste a slogarsi, mi inducono alla cautela. Superiormente è bluastro metallico scuro, sotto è scuro con l’addome un poco schiarito all’apice. La nostra relazione s’incrementa di gesto in gesto, in equilibrio sui ciottoli, in una coreografia che segue e s’adatta al paesaggio. L’energia fluisce, vibrando nello scroscio armonico dei mulinelli originati dallo scorrere delle fresche acque tra le pietre. C’è un’aura che circonfonde il piccolo Carabo metallizzato, il sole che sparge spicole minute, e tutto risuona e vibra della medesima energia. In ogni cellula di quel corpo c’è l’immediata, armoniosa coscienza del tutto. Resisto alla tentazione di toccarlo, di catturarlo: mi limito a osservarne i dettagli del corpo, per sentirlo più vicino. Cerco di aver cura nei suoi confronti, del filo effimero che ci tiene uniti alla vita. Abbandono il cenno perentorio della predazione e oscillo, esito, cerco di entrare in sintonia con la sua immagine prima che svanisca, riassorbita dal buio sotto alla fitta tessitura delle radici.
Congiungo le mani a sfiorarsi appena l’una con l’altra. Con l’acqua che poi con una faccio risalire su di me e colare sulla fronte, bagno l’insetto, che si fa ancor più lucido, di smalto. Ricongiungo la molteplicità di dettagli infimi e fondamentali. Un riverbero scende verticale dalle fronde. Con i suoi occhi sporgenti il Carabo m’osserva da dietro i solchi frontali, netti, paralleli e lisci. Forgiati nel metallo. La base del pronoto è punteggiata. I tarsi e le tibie sono testaceo-rossastri, suggelli di segnature, testimonianze d’un altro mondo. Alleggerisco i polpastrelli della loro necessità prensile e in un istante tutto il corpo dell’insetto diventa più attivo. I continui minimi spostamenti che lo rendono inafferrabile, oltre l’accumulo di detriti sulla riva, si placano all’ombra d’un ciottolo. Laggiù non è necessario credere: il prodigio è palese.
Seguendo la danza cieca tra frammenti di materia faccio esperienza della sua esperienza. Lo accerchio con la mano, applico una lieve pressione per fermarne l’irrequieta natura di predatore. Poi lo lascio andare, lo rincorro, ci rincorriamo l’un l’altro in uno spazio magico, sospeso. Attendo come in sogno che nuovamente esca dal suo rifugio di tenebra, dal giaciglio di foglie, la sua tana di drago. Cerco di farlo apparire di nuovo, per replicare la sorpresa di vederlo saettare, lo stupore primigenio dell’incantesimo. Sommuovo un poco la terra, la bagno col palmo ricolmo, ma il miracolo non si ripete. Rinuncio. L’acqua che scende sulla fronte entra negli occhi e la sagoma del carabo lacustre sfuoca. Nel bruciore della sfocatura non riesco più a individuarlo. Chiudo gli occhi e lo lascio esistere nella cornice dell’idillio. La mia vocazione è d’esser cosa tra le cose, popolato d’insetti.
Quando riapro le palpebre ho di fronte a me, in primo piano, l’immagine del Battesimo di Gesù di Piero della Francesca.
Natale 2023