Conversare con Celati: cosa significa stare al mondo

12 Novembre 2022

Il volume in cui sono raccolte molte interviste e colloqui di Gianni Celati (Il transito mite delle parole, Quodlibet, pp. 644, € 24) curato da Marco Belpoliti e Anna Stefi, aiuta a capire molte cose che riguardano lo scrittore. C’è una esuberanza, una generosità, un senso dell’umorismo che strabordano da Gianni Celati verso gli interlocutori e intorno ai progetti suoi o di altri, che ce lo restituiscono in modo diverso dai suoi libri. Se volessimo sentire anche la sua affettuosa presenza con tanti amici, varrebbe la pena raccogliere anche la corrispondenza, così ricca delle idee che si trovano discusse in queste interviste e nei libri.

Per parlare di Il transito mite delle parole mi limito a tre ambiti: il suo lavoro, il lavoro degli altri e lo stare al mondo più in generale. 

Gianni Celati e i suoi libri: Gianni non crede fin dall’inizio al romanzo o alla poesia come eventi eccezionali. Nel leggere le interviste raccolte in questo volume si ha spesso la sensazione di essere in un ambito che, sia stilisticamente che per i contenuti, fa parte dello stesso mondo dei racconti e dei film, così come il suo lavoro letterario ha una porosità su materiali attigui che richiede una riflessione. In che modo quello che lui scrive per e nei libri ha a che fare con quello che c’è prima e quello che c’è dopo (non necessariamente in quest’ordine)? Nel colloquio con Freak Antoni (vedi su "doppiozero", qui), ad esempio, c’è un registro che è simile al registro di Lunario o che è comunque piuttosto artato. Cosa ci dice questa prossimità?

Soprattutto all’inizio del suo lavoro, gli viene proiettata addosso dagli intervistatori un’attesa, come se sapesse qualcosa e dovesse rispondere alle loro domande su cosa sia la filosofia, la musica, il romanzo. Gianni si destreggia bene, ma non è ovviamente in grado di dare delle risposte. 

Resta così un atteggiamento, una forma di esuberanza piuttosto teatrale e fortemente anti-romantica, così la definisco io nel dialogo che è inserito nell’antologia, dove lui mi risponde piuttosto piccato che gli dà fastidio D’Annunzio, che né io né lui consideriamo un autore su cui valga la pena fermarsi. 

Vorrei brevemente approfondire sia la mia domanda che la sua risposta. Quello che io cerco di fargli dire è che il ruolo dell’autore cambia tante volte nei secoli e in diverse parti del pianeta: dei tantissimi che scrivono nel medioevo non abbiamo spesso neppure il nome, poi naturalmente con l’invenzione della stampa e di lì a breve del privilegio, che è il primo nucleo del diritto d’autore, l’insistenza sulla centralità dell’autore diventa sempre più invadente, sia dal punto di vista industriale che identitario. Altre pratiche narrative del tutto diverse avvengono in altre parti del pianeta, tra altri popoli. So che il nodo dell’autore è un punto polemico tra noi, e cerco di provocarlo, di portarli lì. Lui cerca di riallacciarsi a una narrazione diffusa, corale. Il suo percorso letterario è scandito da questa ricerca. 

Ci sono ragioni ideologiche e ragioni letterarie che lo incamminano in questa direzione. Quelle ideologiche provengono da un socialismo che resta sempre il suo sfondo politico, uno schierarsi dalla parte di chi non racconta o se racconta non diventa autore, rimane un parlatore, uno di tanti. Una riflessione sullo stile la troviamo condivisa con il gruppo ’63 e lo porta a opporsi a una lingua che lui definisce ottocentesca (Morante e Moravia). A volte le risposte che dà sono agili, ma anche poco impegnate nel capire quale sia la distanza da questi autori, cosa si può guadagnare e perdere in questa distanza. Perché viene in mente di raccontare una certa storia? O costruire dei personaggi?

A me pare che non sia così importante chi sia un autore, ma che un certo materiale in qualche modo si dica, che ci sia un nodo da sciogliere, un evento da spiegare. Sono le cose stesse che si devono dire, come in Se questo è un uomo

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Gianni teme sempre l’agguato dietro l’individuazione dell’autore di una autorevolezza, o più precisamente di un arrogarsi un ruolo sociale attraverso la penna. Per questo riapre continuamente all’esterno dei libri e da questo punto di vista Il transito mite delle parole è davvero istruttivo. Il modo in cui risponde a Carlo Gajani e Freak Antoni nelle prime interviste raccolte in questo volume mostra la grande difficoltà che ha con il ruolo che gli viene attribuito. Lo trattano come un autore e lui si sottrae. Non è solo, come ho detto all’inizio, perché la stessa voce entra e esce dai libri e dalle interviste e da questi incontri con altri, sono gli stessi temi e contenuti che si mescolano al materiale del mondo. Il libro in altre parole non nasce in opposizione a quello che si può dire, ne è la continuazione.

Questo è un punto fondamentale per capire come lui concepisca il libro. Secondo me per essere fedele a questa sua poetica, Gianni evita sistematicamente nei romanzi l’amore e la morte. Sull’amore c’è qualcosa in Lunario, nella signorina Frizzi, in Veronica Lake, e poi sempre meno. Di morti poi mi sembra non ce ne siano quasi affatto. Non vuole che eventi che diventano centrali nelle esperienze biografiche obblighino alla sottolineatura di sensibilità individuali. Quando a qualcuno capita qualcosa di decisivo, facciamo attenzione a lui o lei. Sentiamo che vogliamo telefonare o passare a salutare qualcuno per fare le condoglianze, o lo ascoltiamo quando parla d’amore, di matrimonio o separazione. A questo qualcuno si gonfia la voce e nel romanzo questo avviene con una tradizione letteraria, si mette a parlare come Dante o Leopardi perché si è innamorato o gli è morta la mamma. 

Gianni evita questo nodo e tutto avviene di conseguenza in uno spazio sospeso, simile a quello delle case che crollano, a un passo dalla scomparsa e dal lutto o dalla passione e magari dai gentili errori leopardiani. Viaggi, molti ambienti scolastici, persino una barca al largo di Ravenna.

Sia quel che è lirico che quel che è tragico gli destano sospetti, vede la prosa come uno spazio comunitario che non individualizza un destino, ma al contrario dove ci assimiliamo a modelli. In fondo, tende a ritrovare la Commedia dell’Arte, i tipi e le maschere contro i personaggi.

Questo lo mette in rotta di collisione prima di tutto con l’industria editoriale: il diritto d’autore sancisce appunto una proprietà del discorso, chi dice qualcosa ne è autore e lo possiede. Ma a parte l’aspetto commerciale c’è una domanda più sostanziale: diciamo mai qualcosa che venga davvero da noi, da un sé, o siamo comunque sempre parlati da qualcosa che è a monte? A parlare, in altre parole, non è in fondo sempre una comunità?

A questa domanda si aggiunge una difficoltà ulteriore, che in Gianni si affina in Inghilterra e di cui ho anche io, per ragioni analoghe, esperienza: quando cioè si vive in un paese dove si parla un’altra lingua e gli stessi contenuti morali e psicologici vanno in qualche modo tradotti quotidianamente, quando insomma si diventa linguisticamente e spesso anche in molti altri sensi davvero soli, cosa accade? In fondo fin da Dante questo è un filo della tradizione letteraria italiana. 

Mi rendo conto che continuo a parlare di queste cose con Gianni nello scrivere questa recensione, e che lui non mi può più rispondere, e che magnifica pazienza ha avuto con me perché a ragione mi metteva in guardia da certi rischi (e con quanto affetto e amicizia!). Inoltre scrivere di queste cose su "doppiozero", che ha tra i redattori principali Marco Belpoliti e Anna Stefi, che curano il volume, rischia di avvitare quel che va detto in qualcosa di privato. 

Detto questo, non posso non dirle. Penso al contrario di lui che se è vero che il lavoro è continuo, passa da un libro a un’intervista e così via, si scrive un libro sulla nostalgia, uno sull’amore della giovinezza, uno sulla paternità, uno sullo scacco di fronte alla storia e così via. Che cioè ci sia nel cuore di ogni narrazione un aggrumarsi tematico e traumatico che ha sue radici, un cuore narrativo, un climax, uno svolgersi che sono pertinenti a quel libro particolare. Per quanto poi vengano traslate e metaforizzate dal racconto, l’esperienza del vivere ci costringe a misurarci con una materia e ad individuarci come destino. Non il destino di autori, quello umano. Essere innamorati della tal dei tali, padri di certi figli e non di tutti, figli di quei due ecc. ecc.; quando ci muoiono i genitori questa non è un’esperienza comunitaria, ma al contrario capita proprio a noi.

L’altra cosa che ritrovo in Gianni è l’atteggiamento nei confronti del lavoro degli altri. Gianni promotore, raccoglitore, coinvolgente e coinvolto nei progetti di altri. Già nell’intervista a Severino Cesari questo è già chiaro, ma ovviamente si distende nel modo più chiaro nei documentari, che gli offrono la grande occasione di registrare dei discorsi fatti con altri, tra altri, che sono dei veri e propri insieme a lui di vari interlocutori. 

Del vorace lettore che Gianni è sempre stato ci sono tracce un po’ ovunque, ma le osservazioni più interessanti sono quelle fa su Joyce con Cortellessa. Joyce è un autore che lo struttura e nel dedicarsi alla traduzione rivede tutto il proprio modo di presentarsi nella letteratura, che è per lui stare al mondo. Tra l’altro con una consonanza importante con quanto dicevo sui suoi libri. Joyce infatti diceva di non voler fare del melodramma. Ne aveva fatto parecchio in Dubliners, ma è vero che in Ulysses c’è uno sforzo anti-enfatico, un continuo tentare di mantenere ogni pagina in un registro medio, capace di assorbire il rumore quotidiano del linguaggio che ha attorno. Non è realismo o verismo, è piuttosto un bricolage di pensieri e emozioni, soprattutto nel monologo di Molly. Alto e basso, sesso e anima, famiglia e amanti.

In Il transito mite delle parole, cosa significa stare al mondo è forse la parte più interessante del libro. Proprio perché si sottrae al proprio essere autore nel senso romantico e si schiera con lo scrivente di Roland Barthes, Gianni ha sempre una interlocuzione alla pari con chi lo intervista, chiunque sia. Un rispetto per l’altro e per il percorso che questi sta facendo, che è poi la cosa più bella che lui trasmetteva nell’amicizia, agli studenti, penso anche negli amori, dal modo così pacato e complice con cui Gillian ha continuato in qualche modo una loro vita insieme nelle cose di cui si è dovuta occupare anche dopo la sua morte. A me pare sia stato un essere umano di straordinaria leggerezza non per superficialità, al contrario, piuttosto perché ha intonato una melodia che ha qualcosa dei fratelli Marx, qualcosa di Leonard Cohen, qualcosa di Joyce, in cui un senso dell’umorismo sempre vivo non si è mai lasciato marginalizzare in un registro subalterno al serio e alla tragedia, ma che ha invece continuamente riportato la propria obiezione a una sudditanza al maggiore, che sia letterario, un fratello o la politica. Sembra in questo l’autore più affine a quello che avevano teorizzato Gilles Deleuze e Félix Guattari quando hanno scritto di Kafka e della letteratura minore.

L'immagine di copertina è di Luigi Ghirri

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