Perché le persone sono tutte uguali / Uguaglianza
Il testo qui presentato è quello del secondo intervento tenuto ieri, martedì 22 marzo, da Salvatore Veca all’interno della serie di incontri intitolata “Parole in dialogo” promossa dalla Fondazione Unipolis, i cui assi fondanti sono “cultura, ricerca, sicurezza e legalità, e solidarietà”. In questa sua prima esperienza l’iniziativa coinvolgerà alcune scuole torinesi, ma il progetto prevede una loro estensione anche ad altre realtà scolastiche e geografiche. Le parole chiave individuate per questa prima serie sono, oltre a “Solidarietà” di cui ha parlato Elena Pulcini il 10 e l’11 marzo, e questo “Uguaglianza, “Sostenibilità e Sacrificio”, affrontati rispettivamente da Enrico Giovannini e Massimo Recalcati. In occasione di ciascun incontro saranno forniti alle classi materiali preparatori, e altri, in forma multimediale, saranno prodotti alla fine per offrire ulteriori opportunità di uso didattico e approfondimento.
Come ha osservato il grande filosofo morale Bernard Williams, l’idea di uguaglianza è usata nel dibattito politico e nella discussione pubblica sia quando si enunciano fatti – le persone sono uguali – sia quando si enunciano princìpi o valori – le persone devono essere uguali. Se ci riflettiamo su, ci rendiamo conto che ci possiamo facilemente trovare di fronte a un paradosso. Sappiamo che le persone sono fra loro differenti per molte caratteristiche e quindi sembra a prima vista che, dicendo che esse sono uguali, diciamo qualcosa di falso. Se vogliamo difendere la nostra idea di uguaglianza, possiamo concedere che le persone sono fra loro diverse e, tuttavia, sostenere che esse sono uguali semplicemente per il fatto che sono persone: è la loro comune umanità a rendere conto della loro uguaglianza.
Così, quello che ci sembrava un paradosso finisce per ridursi in una tautologia o una banalità. Gli esseri umani sono uguali in quanto esseri umani. Ma, se prendiamo sul serio l’idea di uguaglianza, non ci lasciamo intrappolare dalla banalità. Proviamo a partire, nel nostro ragionare insieme sull’uguaglianza, proprio da questa banalità e cerchiamo di mostrare che essa può suggerirci molte cose interessanti a proposito di un ideale politico e morale importante, prezioso ed esigente.
1. Il grande filosofo politico John Rawls ci ha suggerito che, quando cerchiamo le basi dell’uguaglianza, possiamo considerare noi stessi e gli altri come inclusi in un campo. In uno stesso campo, pur occupando posizioni differenti. La nostra diversità va insieme a quanto ci accomuna. Al nostro appartenere allo stesso campo. Diremo allora che riconoscere l’uguaglianza fra esseri umani vuol dire semplicemente riconoscere che ci è comune una proprietà di campo. E sappiamo che vi sono istituzioni, poteri e pratiche sociali che non riconoscono quanto dovrebbe derivare dal nostro godere della proprietà di campo. Vi sono istituzioni o pratiche sociali che riconoscono ad alcune persone l’inclusione nel campo ed escludono altre persone dal campo. Dal campo della comune umanità. Gli esseri umani, nelle circostanze dell’esclusione, non sono riconosciuti come uguali e, quindi, non hanno diritto ad essere trattati ugualmente o a essere trattati come uguali.
L’esclusione si basa su caratteristiche di alcune persone o gruppi di persone che possono dipendere dal colore della loro pelle, dal loro genere, dalla loro religione, dalla loro nascita, dalla loro cultura, dalla loro istruzione o dalla loro etichetta sociale. Possiamo dire che l’esclusione, negando l’uguaglianza banale della comune umanità, istituisce socialmente la gerarchia e l’asimmetria fra persone e gruppi di persone. (Il giudizio di uguaglianza si basa sulla coppia inclusione/esclusione o, per così dire, sul dentro/fuori la cerchia o il campo della comune umanità.)
I negatori della comune umanità possono certamente riconoscere che gli esseri umani che condividono la comune umanità sono simili fra loro nella capacità di essere pazienti morali, di provare sofferenza e dolore, di avere deficit nei loro funzionamenti di base come esseri umani. E tuttavia possono sostenere che queste caratteristiche della comune umanità non contano, non sono degne di uguale considerazione e rispetto facendo perno su quanto ci differenzia piuttosto che su quanto ci accomuna. Razzismo, classismo, sessismo, xenofobia, omofobia esemplificano questo atteggiamento ricorrente, incorporato in istituzioni, poteri e pratiche sociali.
Un’immagine vivida dei negatori della comune umanità ci è consegnata dalle pagine dello straordinario libro di Primo Levi, Se questo è un uomo. Nel capitolo Esame di chimica, Levi è esaminato da uno dei capi del Reparto Polimerizzazione di Auschwitz, il Doktor Pannwitz. Levi ripensa allo sguardo di Pannwitz rivolto al candidato: “quello sguardo non corse fra due uomini; e se io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato come attraverso la parete di vetro di un acquario tra due esseri umani che abitano mezzi diversi, avrei anche spiegato l’essenza della grande follia della terza Germania”. Il campo della comune umanità è spezzato e lacerato nel male assoluto della Shoah.
2. Consideriamo ora un altro aspetto che ci contraddistingue come esseri umani: un aspetto che riguarda, questa volta, il nostro essere agenti morali. Come agenti morali, tutti noi abbiamo progetti e scopi e aspiriamo all’uguale rispetto per i nostri piani di vita. Ancora una volta, abbiamo a che fare con la banalità da cui siamo partiti ragionando sull’idea di uguaglianza. Si consideri che aspirare all’uguale rispetto equivale ad aspirare a che il nostro particolare progetto di vita sia riconosciuto come ugualmente degno di essere riconosciuto da altri e da altre. Immaginiamo il caso di uno che ha speso una vita e un mucchio di energie mirando a un’invenzione straordinaria. Immaginiamo che costui fallisca nell’impresa. Se guardiamo alla sua vita dal mero punto di vista delle etichette sociali, non avremmo esitazione a definirlo un inventore fallito. Le etichette sociali sono, del resto, il promemoria delle disuguaglianze nella stima e nell’apprezzamento sociale. Pensiamo alle etichette della stima nell’ambito della tecnologia, dell’economia, della conoscenza, della comunicazione, della politica, e così via. Ci chiediamo, allora: come possiamo introdurre la prospettiva dell’uguaglianza, se adottiamo su vite umane un punto di vista meramente tecnologico, scientifico, professionale, estetico, e così via?
Vi propongo di provare ad adottare un punto di vista umano su vite umane. Che cosa vuol dire? Vuol dire guardare alla vita del nostro inventore fallito come alla vita di uno che ha tentato in tutti i modi di essere o diventare un inventore riuscito. Vuol dire essere capaci di guardare quella vita immedesimandoci nel suo punto di vista e nel modo in cui quella persona guardava il mondo e la sua stessa etichetta. Così, l’uguaglianza di rispetto emerge dalla capacità di empatia e di identificazione nelle vite di altri che con noi sono inclusi nel campo della comune umanità. Ma, se ci pensate su, questa capacità coincide anche con la capacità di guardare vite umane, astraendole dalle etichette sociali e dai ruoli entro cui quelle vite hanno inevitabilmente luogo. Ciascuno di noi è immerso in un intorno sociale, in cui si danno differenze e distinzioni. E ciascuno di noi può riflettere su questo fatto elementare e prendere riflessivamente le distanze dai ruoli e dalle posizioni in cui è situato. E questa consapevolezza riflessiva può essere accresciuta o diminuita dalla nostra condizione sociale.
A proposito di etichette sociali e di ruoli, pensate all’immagine vivida del Lear di Shakespeare. Quando nella landa dove infuria la tempesta re Lear indaga con furia lunatica sulle cose umane e così risponde alla domanda: “non è, dunque, l’uomo altro che questo? Si deve dire che questo è il povero Tom di Bedlam, nella bufera. Il povero Tom che contrasta nudo con la feroce rabbia del cielo. Consideriamolo. Esaminiamolo, ora un po’: tu non devi né seta al baco né lana alla pecora né pelle alla belva né profumo allo zibetto. Eh, ce n’è tre qui: sofisticati, adulterati. Tu sei solo la cosa così com’è. L’uomo inalduterato non è altro che un povero animale nudo e forcuto come te. Presto, sbottonatemi qua. Via, via ciarpame! Basta. Via, via roba presa in prestito! La pelle nuda, il corpo nudo, senza più il paramento che lo tormenta e lo riempie di pustole, di ombre e macchie purulente. Via, via macchie!” Possiamo dire che Lear, nella scena della follia, prende distanza rispetto alla corona che, come etichetta, socialmente lo identifica.
3. Ora, questo modo di ragionare può indurci a riflettere sui fondamentali dell’uguaglianza politica, a partire dalla semplice tautologia da cui siamo partiti. Perché? Semplicemente, perché un’idea elementare di uguaglianza politica prende forma appena un passo oltre un qualche ancien régime. E una delle caratteristiche d’ancien régime è quella della gerarchia naturale che regola i nostri rapporti sociali e che dipende da quanto ci differenzia piuttosto che da quanto ci accomuna. Le differenze fra noi sono ascrittive, non dipendono dai nostri scopi, dalle nostre scelte e dai nostri progetti di vita. All’inverso, scopi, scelte e progetti sono per noi possibili solo in quanto dettati dal nostro appartenere a campi differenti, dal nostro avere etichette sociali differenti. Solo la condizione dell’uguaglianza politica soddisfa l’idea della nostra capacità riflessiva di guardare alle etichette e ai ruoli come a qualcosa che è socialmente determinato, e non come a qualcosa che è naturalmente così com’è. Assumere questo punto di vista equivale a immergere l’idea di uguaglianza nella rete dei nostri rapporti politici e sociali, nella rete delle nostre relazioni.
È solo in un mondo sociale di uguali che la disuguaglianza in potere, autorità, reddito, ricchezza, status, deve poter essere giustificata, alla luce di un qualche criterio. Essa deve proprio guadagnarsele, le sue risorse di legittimità. In un mondo d’ancien régime le cose non stanno così: la legittimità è un fatto, non un problema. I problemi chiedono di essere risolti. I fatti non si giustificano. Basta riconoscerli. Punto e basta. (Solo un folle come Lear nella notte della tempesta può sovvertire le cose, perché guarda al suo mondo come dal di fuori, come accade a chi si esilia nel suo delirio dal male del mondo.)
Adolphe William Bouguereau, Uguaglianza davanti alla morte.
4. Bisogna riconoscere che abbiamo fatto un bel tratto di strada, a partire dal riconoscimento dell’idea di uguaglianza in bilico fra paradosso e banalità. Siamo giunti a render conto dell’uguaglianza politica, un tema centrale per la qualità dei nostri regimi politici democratici in tempi difficili. Le nostre democrazie rappresentative non si trovano solo minacciate dall’esterno, dalla persistenza in larga parte del mondo di regimi totalitari e teocratici, nemici e negatori dell’uguaglianza umana, ma anche dall’interno, dal crescente peso di grandi disuguaglianze economiche e sociali entro le nostre società e fra le nostre società. Ci chiediamo, a volte: come può sopravvivere l’uguaglianza politica di cittadinanza in un paesaggio sociale marcato dalle vistose disuguaglianze di reddito, ricchezza e status? Questo è un interrogativo ricorrente e importante, se prendiamo sul serio la nostra semplice idea di uguaglianza. E ci suggerisce qualcosa, a proposito di quella che chiamerò la grammatica dell’uguaglianza.
Il grande filosofo ed economista Amartya Sen ha raccomandato di specificare, quando parliamo di uguaglianza, che cosa sia propriamente ciò di cui parliamo. Nel suo gergo, la domanda è: uguaglianza di che cosa? Di benessere, di utilità, di capacità, di risorse, di beni primari, di libertà, di reddito, di ricchezza, di diritti, di rispetto, e così via. E ancora: uguaglianza di che cosa fra chi? Quali sono i confini del campo che include gli uguali sotto un qualche aspetto rilevante? Possiamo continuare a pensare ai confini della costellazione nazionale, in cui sono nate e si sono consolidate dopo un qualche ancien régime le nostre imperfette democrazie costituzionali o non dobbiamo forse allargare lo sguardo alla costellazione postnazionale, per usare il gergo del grande filosofo sociale Juergen Habermas? Quali sono i confini del “noi”, ai tempi delle grandi migrazioni? Le domande di uguaglianza di qualcosa non finiscono in fondo per riguardare e investire la condizione di chiunque abbia una vita da vivere, ovunque abbia una vita da vivere nella gran città del genere umano, come usava dire Giambattista Vico? Quando parliamo della violazione e della tutela di diritti umani qua e là per il mondo, non stiamo forse – e ancora una volta – chiamando in causa i diritti fondamentali che le persone hanno o devono avere, in quanto persone, punto e basta?
Il lessico dei diritti umani, lo sappiamo, è dopo tutto un lessico recente nell’arena globale. Risale all’indomani della seconda guerra mondiale del secolo scorso e alla Dichiarazione universale dei diritti delle Nazioni unite. Esso è la risposta reattiva al male assoluto dei negatori della comune umanità, di cui ci parlava Primo Levi a proposito dello sguardo del Doktor Pannwitz ad Auschwitz. È difficile individuare un fondamento o una singola giustificazione di una tesi sui diritti umani in un mondo caratterizzato dalla frammentazione e dal pluralismo dei valori, etici, religiosi, culturali. Ricordiamo la lezione di un maestro quale Norberto Bobbio: quello che è importante non è tanto giustificare i diritti umani quanto difenderli, punto e basta. Tuttavia, possiamo ancora mettere alla prova il nostro promemoria della comune umanità, che oscilla fra paradosso e banalità, per ragionare in conclusione sulla radice etica, e non politica, di un’idea di uguaglianza incorporata e soggiacente al lessico dei diritti umani.
5. Chiediamoci dove trovare la radice etica dell’uguaglianza. E proviamo a rispondere mettendo a fuoco la contingenza di vite umane, qua e là, nella gran città del genere umano. Come ho sostenuto nel mio libro L’idea di incompletezza, formuliamo in questo modo la domanda difficile: esseri umani che trovano le loro radici e il senso delle loro vite da vivere in una essenziale e irriducibile varietà di identità, religiose, etniche, etiche, culturali, che cosa mai potranno avere in comune, se non forse i tratti biologici di una specie del tipo homo sapiens sapiens? Non sarebbe sufficiente il ricorrente elogio di Darwin, in proposito? Questo non vuol dire sottovalutare il ruolo della biologia in tandem con la cultura e la sua evoluzione, la sua storia. Vuol dire prenderle sul serio entrambe.
Vuol dire riconoscere che per gli animali umani è un fatto etologico il loro vivere entro culture e che, quindi, la varietà dei modi in cui vivono gli animali umani costituisce una variazione culturale. E se la biologia per qualsiasi tipo di animale ha bisogno dell’etologia, allora possiamo dire che l’etologia dell’umano implica lo studio delle culture umane. In questa prospettiva, la nostra questione dei confini variabili del “noi” assume una luce più chiara e forse promette, a suo modo, di prendere sul serio biologia e cultura in tandem. Com’è facile vedere, la stessa frammentazione del valore può essere connessa alla variazione culturale, nel senso di un’etologia dell’umano. E, al tempo stesso, si porrà inevitabilmente anche in questo caso il problema dei limiti e dei confini di Babele. Si darà il riconoscimento di un’incompletezza intrinsecamente vincolante che presidia i limiti biologici della variazione culturale.
In ogni caso, per ora, potremmo rispondere così, a chi ci chieda che senso possa avere il richiamo etico al promemoria umano della comune umanità. Il promemoria ci dice semplicemente che a ciascuno di noi è accaduto di essere qualcuno che, come ciascun altro, si riconosce contingentemente in una qualche forma di vita, in una qualche tradizione, in una qualche religione, in una qualche lingua, in una qualche dottrina etica, nella cerchia dai confini variabili di un qualche “noi”, qua e là, in giro per il mondo. Dopo tutto, come ho spesso ribadito nei miei scritti, è un fatto irriducibile e ostinato della vita che nessuno – fino a prova contraria – sceglie di nascere, qua e là, in giro per il mondo. Naturalmente questa constatazione è per un verso confortante in quanto sembra non controversa; per altro verso – è giusto riconoscerlo – il suo contenuto è molto povero, e si avvicina inesorabilmente alla banalità. Ma spesso, come ormai sappiamo bene, accade che vi siano banalità più feconde di quanto non si pensi a prima vista.
Pensate, in proposito, ai primi capitoli di Moby Dick di Herman Melville e all’incontro fra Ismael e Queequeg nella camera della Locanda dello Sfiatatoio a Bedford e al processo che passo dopo passo perviene al mutuo riconoscimento della comune umanità o della semplice eguaglianza umana. /…/
Così, in conclusione, ripensando alla recente eredità dell’Illuminismo dalle nostre parti, viene in mente una bella immagine di fine diciottesimo secolo, che dobbiamo a un grande illuminista europeo, Pietro Verri: “L’uomo è come nel deserto quando non trova i suoi simili. Il vivere è noioso o si viva co’ superiori o cogli inferiori. La uguaglianza umana è la sola che ammette società, gioia, cordialità”.