Ritratto della regista tedesca candidata all'Oscar / Vi presento Maren Ade

7 Aprile 2017

Ironizzare sulle storpiature che le distribuzioni italiane operano chirurgicamente sui titoli dei film stranieri è pratica diffusa anche tra gli spettatori meno agguerriti e spesso ci si immagina i responsabili di questi provvedimenti come gli indolenti sceneggiatori di Boris che, tra un pisolino e l’altro a bordo di uno yacht, appena uno apre bocca l’altro urla “Genio!”. Vi presento Toni Erdmann non fa eccezione e chi sia a presentarci Toni Erdmann (il titolo originale) rimane un bel mistero. Di certo non lo fanno i protagonisti. Winfried, padre buontempone che da Toni si traveste grazie a protesi dentale e parrucche, più che introdurlo pacatamente in società, tende a lanciarlo come un treno in corsa pur di disturbare la noia mortale dei giorni passati a Bucarest in compagnia della figlia e di colleghi e colleghe di lei. Da Ines, visti i ripetuti imbarazzi cui il padre provincialotto la sottopone nel bel mezzo di incontri cruciali per la chiusura di contratti milionari, non ci si può certo aspettare grande smania di presentarlo. Tuttavia questo di-più del titolo può prestarsi a un’altra domanda: Come presentare Maren Ade, regista di Vi presento Toni Erdmann

 

Maren Ade.


Se è vero che a Cannes il film ha riscosso consensi pressoché unanimi, tanto da mettere in moto la macchina hollywoodiana per farne un remake (al quale la regista non prenderà parte), pochi, molto pochi conoscevano Maren Ade. Eppure i due film precedenti, Der Wald vor lauter Bäumen (2003) e Alle Anderen (2009), erano entrambi stati premiati, rispettivamente al Sundance e alla Berlinale: non proprio festival periferici. La svista, invece di scaricarla senz’appello sugli addetti ai lavori, può essere tutta racchiusa in uno scambio di battute tra Claire Denis e Kent Jones, durante la proiezione del secondo lungometraggio di Ade al Festival di Buenos Aires: “è davvero così bello come penso che sia?” chiede Denis. Il critico annuisce silenzioso. Il cruccio è giustificato, anche se i due, inesauribili amatori del cinema, la loro idea se l’erano già fatta. A una visione distratta, o semplicemente a una prima visione, i film di Ade si dipanano speditamente, con una regia e un montaggio agili e precisi, ma senza colpi ad effetto riconoscibili. Si può al massimo notare la raffinata direzione degli attori, abilità di cui si parla sempre troppo poco rispetto ai ben più celebri movimenti di macchina e scelte di montaggio. Se si è costantemente alla ricerca di un roboante cambio di direzione nel modo di fare cinema, della continua innovazione dello stile, si finisce per permettere a quest’ultimo di fagocitare la narrazione e dimenticare la necessaria contaminazione tra i due, con la traballante giustificazione che la serialità televisiva fa l’opposto.

 

Ade, che con il digitale non ci è scesa solo a patti ma sembra andarci piuttosto d’accordo, al racconto non rinuncia e la scelta delle inquadrature, la pianificatissima recitazione e tutti gli strumenti a sua disposizione sono dispiegati a costruire un film che solo ad una visione attenta svela le increspature, le eccedenze, gli scarti, quel di-più che in definitiva ci fa dire “è davvero così bello come penso che sia”. Ciò che rende il suo cinema speciale e toglie la parola facile al critico è l’impossibilità di individuare questo di-più in uno dei due elementi dell’illusoria dicotomia forma/contenuto, avviluppati sapientemente l’uno sull’altro facendo perdere le tracce dell’origine delle scelte.

 

 

C’è un punto nel quale i tre film della regista tedesca si incontrano ed è il punto più banale del mondo: il centro. In Der Wald vor lauter Bäumen la protagonista Melanie è un’insegnante incapace di prendere le giuste misure rispetto all’età adulta, troppo ingombrante per occupare adeguatamente il centro, ovvero il luogo dell’incontro con l’Altro, e trasformare un contatto in legame. Proprio come afferma il titolo, il suo essere fuori-centro porta Melanie sempre a confondere “l’albero per la foresta”. Alle Anderen, storia di una giovane coppia, Gitti e Chris, in vacanza in Sardegna, è spaccato proprio al centro da un netto cambio di direzione del rapporto tra i due e dei toni del film. Se fino a quel punto il rapporto di complicità e coesistenza veniva tenuto insieme grazie ai continui scambi di ruoli, nel momento in cui Chris ottiene un riconoscimento lavorativo (sembra essere la prima volta) mette se stesso al centro, occupandolo pienamente e precisamente, convinto ora di poter incontrare “tutti gli Altri” (traduzione del titolo) senza bisogno di condividerlo con nessuno.

In Vi presento Toni Erdmann il centro vive una smobilitazione generale. Ai tempi dell’eclisse dei Padri, l’autorità, centro per eccellenza, sembra kryptonite. Ines, dirigente di una corporazione, presenta piani di delocalizzazione a imprese che delegano questa responsabilità per dimostrare ai propri lavoratori di non avere alternative (Austerity, anyone?). Il superiore di Ines in riunione non apre bocca, scaricando qualsiasi onere sulla sua iena. Ines, da iena qual è, si sente altrettanto deresponsabilizzata nei confronti dei lavoratori che consiglia “per lavoro” di sacrificare, in nome dell’efficienza. Impossibile inoltre non notare che siamo in Romania, paese dove sono state delocalizzate numerose imprese dell’Europa occidentale per il minor costo del lavoro. La Bucarest di Vi presento Toni Erdmann è una città non-riconoscibile, gli spazi ripuliti e freddi degli hotel, degli uffici, delle spa e degli appartamenti è tutto ciò che vediamo (potrebbe benissimo essere la New York di Side Effects di Soderbergh). Non è però una questione di qualunquizzazione della città, un’ipotetica perdita di autenticità a causa della globalizzazione, ma l’emarginazione proprio di quei lavoratori a cui non solo si requisisce il lavoro, ma anche la voce. Non è un caso che l’unica scena in cui appaiono, in un cantiere, lo spettatore ha accesso solo al loro borbottio, non alla loro parola.

 

Pure Winfried, in fondo, tutta questa voglia di essere padre non ce l’ha. Il motivo della sua visita alla figlia non sta infatti in un malessere di Ines, ma nel suo, a causa della morte del vecchio cane. La prima settimana si consuma, prevedibilmente, nel tragicomico, con Winfried che, pur volendo rimanere al proprio posto, non ne azzecca una e finisce per far spazientire la figlia che tutto aveva in mente meno che doversi occupare del malinconico padre. Fa la valigia, saluta e Ines tira un sospiro di sollievo, seppur con qualche lacrima.

Winfried però, entrato un po’ per caso nella gelida vita della figlia, adesso vuole fare qualcosa per lei. Vuole essere padre, occupare il centro. Ma se non lo si vuole occupare agitando la bandiera dell’autorità, bisogna farlo con quella del sabotaggio; e per rivestire un ruolo inammissibile per un padre, Winfried ha bisogno di Un-altro da sé. La necessità della maschera sta nell’illusorio e problematico scarto che l’uomo pensa esserci tra l’essere e il fare. Dentiera e parrucca e Toni Erdmann fa il suo primo intervento a gamba tesa a una cena di Ines con due amiche. Da qui in avanti Toni apparirà a piacimento, scorreggiando nel cortile dove Ines discute col suo capo, grattugiandosi formaggio in testa mentre lei sniffa cocaina e presentandola come sua assistente a dirigenti incontrati in feste esclusive. 

Le scorribande di Toni sembrano esaurirsi nei propri tempi comici, orchestrati magnificamente da Ade, eppure c’è un lento e impercettibile scivolamento dall’umorismo, che appartiene a tutti, anche al più rigido dei burocrati (non a caso il dirigente che Ines deve convincere a firmare, prova una viscida simpatia per Winfried, che tratta alla stregua del buffone di corte), all’ironia, arma di sabotaggio del discorso.

 

La lezione di prendere la vita un po’ più alla leggera, che il padre vorrebbe passare alla figlia, entra da un orecchio e esce dall’altro. Quando i due, a casa di una famiglia rumena, tentano un improbabile duetto sulle note di Greatest Love of All di Whitney Houston, la comicità della performance viene mozzata dall’immediata uscita di Ines alla fine della canzone, sotto lo sguardo scoraggiato del padre. Eppure qualcosa rimane impigliato in lei che, dopo essersi incartata nella scelta del vestito da mettere al party del suo compleanno, rinuncia a vestirsi e decide di far entrare in casa solo chi fa altrettanto. Toni/Winfried si presenta alla porta con un costume kukeri che lo ricopre completamente di pelo: mascherandosi sempre di più ha insegnato a Ines a scoprirsi, a mostrarsi, in modo del tutto involontario. Il centro di Vi presento Toni Erdmann forse è proprio qui, perché se il padre non riesce a insegnare niente alla figlia, non significa che la figlia non riesca a imparare qualcosa dal padre. 

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