Zumba si può!

10 Luglio 2013

La prima volta sono terrorizzata. Mi avvicino alla responsabile e le dico che non l’ho mai fatta in vita mia. Lei, senza una parola, m’indirizza verso la tale Alessandra, che invece prova a tranquillizzarmi: «Vieni dalla danza o dal fitness?». Per l’eterogenesi dei fini, scatena in me un vero attacco di panico. Vengo da casa, scrivevo recensioni sul Corriere («della Sera o dello Sport?»), ora non più, ma sarebbe lunga spiegare perché, e la taglio in partenza. Entriamo. Le altre sanno già di che si tratta, mi rassicurano a loro volta, devi solo seguire lei, l’istruttrice, Alessandra. E dai, mi butto. Alessandra è talmente brava che dopo appena due o tre coreografie impariamo a imitarla. Apparentemente è una danza tra il tribale e il sexy, i movimenti sono sincopati (a rischio sincope, cioè), il corpo si agita tutto, in particolare le gambe, sempre in movimento, e le braccia pure non scherzano. Mi dolgono i polsi, le caviglie. Si sorride, si sorride sempre, si battono le mani, si urletta. Poi si apprende la logica dei passi, sempre simmetrici: si ripetono identici da destra a sinistra, se si va in avanti, di sicuro di lì a un giro s’indietreggia. Nello spazio di una canzone si memorizza quel che c’è da memorizzare. Il dramma è che però non si riparte poi da capo, come nella danza, ma si va di filato, come nel fitness. Alessandra nello spogliatoio parla di esami universitari. Oltre a studiare e insegnare qui, va in altre palestre, in parti opposte della città. Dice che si riposa solo la domenica pomeriggio, ma non le pesa, anzi, le piace. In effetti piace anche a noi, a me. Torno a casa e non vedo l’ora che arrivi la lezione successiva, sono fissa su Youtube a cercare le canzoni, i video coi passi. Alcune di noi hanno comprato la wii. Ci piace, questa zumba, com’è nata. Pare sia stato un certo Beto Perez a inventarla, istruttore sudamericano di aerobica che avendo dimenticato il cd solito, quella volta s’arrangiò con le musiche latine dell’ipod, improvvisando una lezione tra l’aerobica e la salsa, e poi il merengue, la rumba, la capoeira, la cumbia, il reggeton, l’hip pop, in una caotica e poco ortodossa mescolanza, senza un grosso impegno nell’esecuzione e con gran divertimento. Il nostro gruppo si compone di una dozzina di donne, dalla ragazzina di undici anni alla vedova di sessanta. Subito negli spogliatoi ci raccontiamo di noi, di come è morto suo marito o mio padre. Colpa dei medici o della sfiga. E poi andiamo alla festa della palestra, e ci chiedono di salire sul palco a dimostrare la zumba. Bello, facciamolo. Noi che nella vita ci arrabattiamo dietro ai figli o i pezzi da scrivere, ma sì, per una volta, saliamo su un palco. A dimostrare la zumba. Le amiche mi chiedono: «Sei diventata pazza?». No, sono viva, ballo, il mio corpo si muove al ritmo di una musica supercafona, mi compro la maglietta con le frange. Non c’è età, non ci sono regole, non ci sono limiti. Si zumba. Ogni mercoledì, alle 19.50. 

 

 

«Questa è l’ultima lezione»,  annuncia all’improvviso Alessandra. «Siamo poche, non ci danno più la sala». A contarci ora siamo 4 o 5, in effetti, ma le studentesse sono sotto esame, è febbraio, torneranno. No, non vogliono sentire ragioni, la zumba finisce, non la vogliono. Tra decidere di guidare una vera e propria sommossa e farlo non c’è nessuna soluzione temporale, né di tempo ne passa troppo perché la voce abbia modo di circolare fino ai piani alti della palestra. Vengo convocata nello studio della titolare, Giordana: «Mi hanno detto che dici che dico (ops) che in questa palestra non vogliamo la zumba. In realtà io direi che a volerla siete in 4. Cioè, poi, in finale, soltanto tu: le altre ragazze fanno trx, pump, fusion, pilates, spinning, posturale, sei l’unica a seguire solo (il tono è indubitabilmente sprezzante) zumba». Improvvisamente è un’onta, una macchia, un peccato. Ma perché? «Non è un allenamento», m’illumina, «è un divertimento. E qui ci si allena».

 

 

Perfetto. Ma ci si allena ciascuna a suo modo, obietto, e io alleno  l’umore. La zumba mi ha salvata dalla depressione (attivo il pathos), mi serve. «Se te la paghi, ti diamo la sala. Alessandra per noi è licenziata. A meno che non si trovi una vera classe, cioè almeno dieci iscritti».

 

Alessandra non cede al ricatto, se ne va. Le chiedo se posso attivarmi al posto suo per provare a tenere in piedi il corso, insieme al gruppetto del mercoledì e qualche altro nuovo iscritto che dovesse farsi avanti. Siamo 4, siamo 5, siamo 8. Il mercoledì successivo non c’è più il foglio delle prenotazioni, e Alessandra ci conferma di doversene andare, per volontà della titolare. Save the zumba diventa una missione, devo farcela. Torno alla carica, ma Giordana è implacabile. «Qui non si è mai lamentato nessuno, e la mia palestra è frequentata da professionisti: hai mai visto uno con un tatuaggio, qui dentro?». Registro di no, in effetti. Non ci sono i palestrati classici o i culturisti di Walter Siti, e negli spogliatoi si parla di scienza delle costruzioni o di feste al jetset (al?). Sono medici, giornalisti, impiegati al ministero: una middle classe senza tatuaggi che vuole allenarsi e non divertirsi. Che tiene il corpo in forma, come il resto: alla festa della palestra le donne esibivano hot pants rasomutanda e un marito ricco e stempiato (ma allenato, certamente). E poi ballavano anni Ottanta, con le braccia tese al cielo e i sorrisi obbligatori. Quando era arrivato il momento della fatidica dimostrazione, Alessandra ci aveva avvisate che canzoni da ballare si erano ridotte da 4 a 2. «Ci ho rimesso anche dei soldi, per farvi fare sti balletti», mi apostrofa senza più preoccuparsi di nascondere il suo disprezzo Giordana.

 

Intanto scopro che la zumba è un marchio: l’abbigliamento è disponibile on line o nei meeting a prezzi tutt’altro che popolari. Una canotta costa non meno di 30 euro, i pantaloni alla zuava tipici, 60. Le zumbere sono molto colorate, e devono indossare almeno due o tre capi uno sull’altro. Poi le scarpe, i calzini, i braccialetti. Beto porta con sé una ragazzina di non più di dodici anni, nei suoi show. Ovviamente vestita in modo canonico. A esibirsi con le altre scalmanate. È un’energia controllata quella che sprigiona lui, i pezzi che balla sono delle hit ma più spesso delle canzoni esclusivamente dedicate al ballo, a questo ballo: alla zumba si arriva per caso, per sbaglio, e capisci che è come tutto il resto del marketing, un abbaglio. Si potrebbe continuare a chiamarla aerobica, o latin aerobica, al più, e andarci con la stessa maglietta di sempre. Ma si chiama zumba, ha 25 milioni di fan nel mondo, è il must dell’anno in tutte le palestre, ti alleni divertendoti. E pagando caro. «Un istruttore qualunque mi costa 20 euro all’ora. Per la zumba ne spendo 25 e la lezione dura  45’, inclusi riscaldamento e stretching», si lamenta Giordana.

 

Alessandra ha trovato lavoro in un’altra palestra e ogni tanto mi chiama per le master class o gli open day. Lei non c’entra col business, è una ragazza di 22 anni che dell’istruttrice di fitness non ha nemmeno il fisico canonico, anzi, è rotondetta e ha ancora i brufoli dell’adolescenza (o delle paste, che non ci pensa proprio a disdegnare). Però rinuncia a quell’entrata settimanale senza tentare una soluzione di compromesso, nonostante il mio appoggio. «Non voglio l’elemosina da nessuno», mi dice, «nemmeno se muoio di fame». Beto Perez intanto fa beneficienza con gli enormi introiti del business zumba. Costruisce ospedali per i bambini del suo paese. Il business e i morti di fame, la middlle class e l’istruttrice della Tiburtina, la vedova, l’orfana e le studentesse di medicina.  Zumba chi può, e chi non può, si faccia un tatuaggio.

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