Walter Siti, i vecchi e i giovani

13 Agosto 2024

In una bella intervista rilasciata a Tommaso Giartosio nel programma radiofonico “Fahrenheit” (Raiplaysound, dal min. 13:26), Walter Siti esplicita tre sensi in cui va inteso il titolo del suo libro I figli sono finiti (Rizzoli, 2024). Il primo senso, quello immediato, è che in Occidente si fanno sempre meno figli, per una serie complessa di ragioni, non ultima quella che l’inquinamento ambientale avrebbe ridotto del 50% la produzione di spermatozoi. Il secondo senso riguarda la possibilità, non attuabile per motivi etici ma non scientifici, di sviluppare ovuli e spermatozoi artificiali a partire dalle cellule staminali. Il terzo senso, che emerge come portato inconscio dell’autore dopo aver riflettuto sulla propria opera, deriva dalla constatazione di avere una resistenza personale all’apparizione di “bambini nuovi” in ciò che ha scritto.

Il terzo senso è naturalmente quello più pregnante per l’interpretazione di questo romanzo così strutturato e complesso, così limpido e contemporaneamente oscuro. Tuttavia è il secondo senso quello che vorrei prendere come chiave d’accesso al labirinto esplicito del testo, sulla cui copertina giace un magro, ignudo e desolato Minotauro.

Secondo l’autore il fatto che esseri umani possano essere (saranno) messi al mondo artificialmente li renderebbe non-figli. Ma questa loro caratteristica mi sembra quantomeno derivata da una situazione causale che sta a monte, sia concettualmente sia empiricamente: a essere finiti sono in primo luogo i genitori. Nella visione suggerita e scientificamente attuabile la specie continuerà, perché esisteranno individui-non-figli, ma soprattutto non esisteranno individui-genitori.

È una sottile e intelligente modalità di spostamento autoriale dalla causa all’effetto. Si tratta di un’opera che armonizza insieme una nutrita varietà di opposizioni, di contraddizioni, di tensioni polarizzate. A un primo sguardo la “storia” stessa che racconta si rivela progettualmente come allestita componendo il rapporto tra due personaggi emblematicamente portatori di due slanci opposti: l’anziano Augusto e il giovane Astòre, accomunati dal caso fortuito di ritrovarsi vicini di casa. Il primo vive il lutto prepotente della morte incidentale del suo compagno, ha subìto un trapianto di cuore, è ufficialmente un vecchio che guarda al passato. Il secondo è un ragazzo cerebralmente superdotato che ha scelto di stare da solo sostanzialmente per recidere i contatti sociali, in primo luogo quelli famigliari, e su questa base darsi all’immaginazione del futuro che verrà.

In questa scelta narrativa appare come ovvia ed evidentissima la volontà di sottoporre il nostro presente alla massima tensione, a una torsione che permetta il tentativo di ricavarne pervicacemente ancora qualche immagine non banale. Nella relazione tra due esseri che fuggono dal presente in direzione opposta consiste la struttura architettata del libro.

Talmente architettata da apparire apertamente come un gioco. Solo che il gioco vero è quello di sabotare l’architettura stessa e già a questo immediato secondo livello emergono una vivacità, una carica, un dinamismo di scrittura assai felici.

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Il primo sabotato è l’anziano, che è in verità mosso da appetiti conoscitivi, erotici e vitali. Il desiderio sembra intatto, qualunque cosa possano pensarne lo stesso Augusto o il polimorfico Narratore che lo ha creato. Le sue “faccende di cuore” appaiono come un territorio senza età, persino ora che il cuore non è più il suo, ma di un donatore esterno (gioco). Il secondo è il giovane, che nonostante la sua scelta di isolamento è precisamente l’opposto di un hikikomori e dunque, in questa scissione tra come è presentato e come avrebbe potuto esserlo in una stanca figurazione metaforica, è un personaggio-UFO completamente eccentrico e discutibile come emblema generazionale (gioco).

Altro sabotaggio è quello ai danni della simmetria stessa tra l’Anziano e il Giovane. Quest’ultimo appare via via sempre di più come una invenzione (ma con tratti di crescente verosimiglianza) dell’Anziano in grandissima combutta con il Narratore. Qui si gioca ad alti livelli di padronanza stilistica di scrittura, in un percorso acrobatico fatto di slittamenti pronominali, di rivitalizzazione del concetto stesso di “erlebte rede”, di reciproca porosità dei diversi punti di vista.

Quando il Narratore e Augusto appaiono come se condividessero la stessa forma, ecco che il primo subito si distanzia, vestendo con ironia i panni dell’Autore, e piazza escursioni fatte di note al testo – molte delle quali cariche di finissimo umorismo – in cui la differenza tra i due è raffinatamente ribadita, testualmente ripristinata (gioco).

La tessitura della lingua è rapida, la battuta e la controbattuta sempre attive, i dialoghi sono vivi e senza indugi, i luoghi evocati di scatto. Il lessico preleva lemmi da vari cespiti gergali, i giochi di parole fanno ogni tanto capolino come una spezia ulteriore in un già ricco masala.

La tridimensionalità dei personaggi convocati al gioco di società è congegnata in modo e misura tali da non offrire elementi inerti, nulla gira a vuoto nella narrazione. A questo proposito e con un plauso all’autore mi permetto un appunto del tutto idiosincratico: non credo esista al mondo una configurazione fisica e visiva che mi interessi meno dei corpi scolpiti dal bodybuilding, eppure registro che ogni ingresso in scena del mastodontico Canepari è stato per me una ventata di allegria, persino il disgusto provato da Augusto in certe suzioni fa talmente parte del gioco di contrasti da costringermi al sorriso.

Il Giovane auspica, aspetta e profetizza un futuro postumano, non tanto (non solo) fatto da innesti meccanici ma piuttosto di ibridazioni fra codici di informazioni, dove sentimenti, emozioni e pensieri, così come le complessioni organiche di cui siamo fatti, ormai desuete in sé e inadatte all’ambiente (impareremo a respirare anidride carbonica, risolvendo così il cruccio dato dalla scomparsa dell’ossigeno, gas vitale del passato) verranno depotenziati e riformulati in configurazioni inedite. Si sente destinato a collaborare offrendo la propria smisurata intelligenza a un progetto di Elon Musk, tuttavia è talmente avanti come genio e cultura da non aver perso tempo a laurearsi, e questo è un po’ un problema (ancora). Ovviamente l’Anziano è invece un insegnante che con lo studio ha costruito gran parte della propria identità.

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Opera di Larry Madrigal.

Tuttavia è l’Anziano ad apprendere dal Giovane, assai più del contrario. È l’Anziano, tra i due, ad avere in sé protesi e innesti tanto bio quanto tech. Sono però entrambi a consumare sesso virtuale come se in questo segmento non ci fosse differenza fra loro. Ciononostante è l’Anziano a rincorrere con pervicacia anche un sesso per niente virtuale, dando prova di una vitalità incomprimibile che il Giovane non ha mai neppure sfiorato.
È l’ex professore a permettersi scorrettezze politiche anche di genere nella propria visione del presente e può farlo giocando appunto alla confusione fra punti di vista (qui intesi nel loro aspetto valoriale) nella quale confluisce come un dato di fatto acquisito, portato dal Giovane, un mondo in cui la differenza sessuale (una delle tante differenze ormai museali) è svanita come d’incanto. Vale a dire: nel virtuosismo di questo gioco il Narratore c’è e non c’è, l’Autore c’è eccome, ma dove?

Ancora: Augusto è mentalmente configurato dalla cultura in cui si è formato, Baudelaire appare d’incanto quando ha il massimo senso, la consapevolezza dei registri linguistici e retorici è giocata in lirismi di cui poi l’Autore si scusa in nota, promettendo di non cascarci più e puntualmente ricascandoci, però è Astòre a essere visitato in sogno dalla Musa della Poesia.

E soprattutto è lui, il Giovane proiettato nel nulla del suo futuro, a venire illuminato da un’agnizione linguistica (grazie, involontariamente, all’Anziano) decisiva per la rilettura del proprio rapporto con i genitori, un lampo proveniente dal passato, un insight che vale contemporaneamente come trauma e come elaborazione dello stesso. Sono al contrario i ricordi dell’Anziano a resistere nel presente e a spingerlo ancora, fin che ciò è possibile, nel futuro. Non solo: è proprio l’Autore in carne e ossa a intitolare il suo libro nel senso che si diceva sopra; è lui a prefigurare un tempo (a desiderarlo fortemente, purtroppo chissà quando si realizzerà…) senza alcuna figura genitoriale, invece è il Giovane che in tutto ciò fa i conti con padre e madre, da cui è in fuga. L’assenza di padri e madri per gli individui futuri sembra quasi essere (per l’Autore) una soluzione radicale ai problemi che tali figure implementano, esattamente speculare a quella (del Giovane) della transizione alla respirazione di anidride per risolvere la carenza di aff…, chiedo scusa, ossigeno.

E così via.

Certo, poi la festa finisce, il testo va a concludersi e rivela un concerto degli addii molto dolente, anch’esso assai articolato, con mesto abbandono anche da parte del Lettore di personaggi con cui ha, per così dire, vissuto, o quantomeno passato momenti non banali.

Qui il programmatico amaro cinismo e la desolazione del tempo che si svuota e del polisemico Minotauro che ci aspetta (e che, se nel mito è sconfitto da un giovane, nella realtà sconfigge chiunque, essendo tra l’altro una figura del Tempo, ovvero l’istanza che cancella la giovinezza) emergono nudi e con crudezza, con il loro portato di impotenza, di inanità del vivere, di solitudine del e nel nulla.

Però, a libro chiuso, resta una domanda aperta, che poggia su una contraddizione fra opposti che nell’arte della scrittura, qui, non viene sciolta, anzi viene esaltata. Come mai questo allestimento del senso di resa, sconfitta e inutilità che ci sostanzia è condotto dall’Autore con così ariosa, finissima, intrinseca festevolezza? Come mai un carnevale di Rio raccontato da Winfried Sebald risulterebbe così tanto più triste di queste pagine di Walter Siti sulla morte, sull’umiliante sconfitta di ogni desiderio e pulsione, sul congedo dalla vita, sul buio?
Ripetutamente l’Autore in merito a questo suo libro ha dichiarato che sarà l’ultimo che avrà scritto. Intende dire l’ultimo romanzo, cioè dedicherà la propria raffinata arte scrittoria ad altri tipi di testi? O intende proprio appendere in assoluto la stilo al chiodo? Se è la seconda, allora non è convincente. Sono molto più realistiche le sue invenzioni finzionali che questa risoluzione dichiarata di persona. Forse vuole che gli si dica “no!, ti prego, continua a scrivere! è così una festa per noi leggerti!”, vuole che si ceda a questa sua debolezza, a questa sua richiesta implicita?
Ok, va bene, se è questo ciò che vuole, lo facciamo.

L'illustrazione in copertina è di Larry Madrigal.

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