La traversata notturna: il maelström della depressione

11 Novembre 2022

Ci sono molti modi per entrare in questa altissima opera di Andrea Canobbio (La traversata notturna, La nave di Teseo, 2022), così come ce ne sono vari per percorrerla, leggerla, conoscerla. 

A me è più congeniale l’ingresso che porta direttamente alla sua qualità profonda, quella in cui vediamo giungere a piena maturazione il decennale lavoro di messa a punto della poetica dell’autore e del passo decisivo che ciò gli consente di compiere: Canobbio chiama qui a raccolta i propri raffinati talenti – taluni dei quali vertiginosi e comunque già tutti presenti in nuce fin dalle sue prime opere – per affrontare direttamente lo sguardo di Medusa. 

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La maggior parte dei talenti di Canobbio (come l’impressionante padronanza nell’edificare strutture narrative, la pulizia estrema della frase, la ragione geometrica che collega tra varie dimensioni ciascun elemento agli altri e tutti insieme all’organismo completo, la lucidità analitica, l’intelligenza splendida temperata da una costante e consapevole critica di tipo kantiano ai propri limiti, l’amplissima visione non letteraria della letteratura) è di impianto squisitamente razionale.

I suoi più vicini compagni di viaggio (per citarne alcuni, significativi: Queneau, Calvino, Perec) appartengono a questa zona razionale, combinatoria, astratta, di alta formalizzazione. Ma in La traversata notturna Canobbio chiama questo imponente esercito logico al confronto titanico con l’opposto, cioè con il maelström rappresentato dalla potenza della depressione che colse suo padre a un certo punto della sua vita senza abbandonarlo più. Un punto cieco e vuoto perennemente divoratore della vita, delle possibilità di gioia, felicità o anche solo di rilassamento del suo nucleo familiare. Si tratta di un opposto di grandezza isomorfa a quella dell’esercito che lo affronta con la scrittura, a esso simmetrico e negativamente speculare.

Il talento di edificazione strutturale di Canobbio qui si esprime ai massimi livelli per affrontare l’improvviso crollo della capacità di edificare paterna (era ingegnere civile, nell’epoca della ricostruzione postbellica aveva costruito tantissimo nella sua città, Torino), svanita nella depressione.

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Il talento lessicale e sintattico è spinto ai limiti superiori per calibrare ritmi e andamenti del discorso che siano simultaneamente ferrei e delicatissimi nel portare al linguaggio qualcosa che la depressione aveva sottratto radicalmente all’espressione.

La tessitura geometrica è di leggerezza pari alla complessità (entrambe estreme) per tenere insieme i luoghi fisici della città reale e quelli mentali della città immaginata, per tenere insieme l’urgenza della memoria e la sua falsificabilità perenne, per tenere insieme il desiderio filiale di felicità paterna e la sua impossibilità, per tenere insieme la necessità assoluta di scrivere questo libro e la pulsione a non provarci nemmeno e a lasciare il dolore dolere chissà dove, per conto suo, immodificato. Vince su tutto la forza centripeta che rende compatto e potentissimo l’esito di scrittura e che ha permesso al figlio di fronteggiare la forza demolitiva della depressione del padre.

La lucidità analitica è senza pause e quando giunge allo stremo per non avere messo capo a nessun risultato esplicativo della depressione, rilancia e rilancia ancora, con coraggio e sprezzo della disperazione, così a poco a poco l’inanalizzabile, pur restando tale per essenza e anche per rispetto, viene modificato nell’intensità e nella compattezza e miracolosamente, alchemicamente, qualcosa di sé lo cede al lettore, in un processo lento, ma perfetto.

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L’intelligenza in questo confronto con il non-più-pensiero paterno non cede mai di un millimetro, non arretra, non tentenna, e riesce a farlo frenando continuamente la propria pulsione verso la tracotanza conoscitiva, senza mai forzare, accompagnata dal dubbio, dalla consapevolezza delle innumerevoli variabili che vanno prese in considerazione e dalla difficoltà di farlo. Di fronte al sole nero paterno l’intelligenza del figlio scrittore procede come un organismo sofisticato ma non fragile, attento ma non timoroso. La tentazione di interpretare la depressione come debolezza morale e quindi di giudicare come debolezza d’animo la passività di chi ne è afflitto viene a poco a poco smantellata e una fase di accettazione, nel ricordo, prende il posto della rabbia impotente di un tempo. Il lavoro di elaborazione condotto con e nella scrittura produce, lasciandoci ancora di più stupefatti, raggi luminosi.

La ricchissima conoscenza letteraria di Canobbio qui incorpora una riflessione e un dialogo bellissimo con la ricerca etnologica quand’è stata sorgiva (Griaule, Lévi-Strauss, Leiris) e con mossa di cavallo porta la narrazione, con sapienza e anche istinto sicuri, fuori dalle mura domestiche e dalle pareti blindate del male oscuro paterno in spazi lontani dove popolazioni come i Dogon distraggono dalla presa del confronto maggiore permettendo al narratore (apparenti) digressioni ossigenanti, momenti di tregua e di respiro, soste all’autogrill, da cui ripartire per la traversata. La mitologia Dogon, i suoi straordinari personaggi, soccorrono il narratore permettendogli di allestire un paesaggio complesso e vivo che accolga lui e il padre in questo processo e in questo confronto. Il testo così si arricchisce di pagina in pagina di meraviglie conoscitive, dandogli spesso l’andamento che il pescatore dà alla lenza tirando e lasciando ad arte, per non perdere la preda. In questo movimento le digressioni diventano tutt’altro, cioè diventano la parte generale della riflessione di Canobbio, che è conoscitiva nell’essenza, e sottraggono al maelström la sua pretesa di assolutezza e singolarità.

Abbiamo finora detto qualcosa del libro? Sì e no. Ci siamo entrati dentro da una delle possibili e numerose porte. Altre si aprono se lo si affronta secondo l’ambientazione.

L’ambientazione è la città di Torino, nella sua pazzia razionale di scacchiera. Il padre di Canobbio, come si è detto, in qualità di ingegnere ha costruito molto nella sua città, nell’epoca in cui “ricostruzione” era il nome dello spirito dei tempi. Ribaltando da verticale a orizzontale lo schema derivato da Perec di una scacchiera percorribile tutta secondo la mossa del cavallo in modo da non passare mai due volte sulla stessa casella, Canobbio struttura il testo non tanto per capitoli quanto per luoghi (si veda questa mappa di Torino per farsi un’idea).

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Io credo che nessuna città sia stata mai così descritta in letteratura, nemmeno Paul Auster ci ha provato (la sua era di vetro, questa è di cemento). Sono fortuitamente concittadino di Canobbio e di suo padre, dunque la mia valga anche come testimonianza: dal punto di vista letterario la nostra città ha qui un disvelamento meraviglioso, sia planimetricamente, sia immaginariamente, sia come aderenza al suo enigmatico genius loci. La narrazione di Canobbio è innanzitutto spaziale e solo per effetto di ciò anche temporale. Il risultato è mirabile, letterariamente, narrativamente e artisticamente parlando.

Il libro può essere letto secondo la storia patria. Nella ricostruzione di Canobbio del quotidiano della propria famiglia, che fa da telaio alla figura del padre, entra tanta storia italiana, vissuta, sapientemente ricostruita, la storia di un secolo impervio e sconvolto, complesso e ricchissimo, doloroso e speranzoso. Qui, la Storia Italiana emerge dalle storie degli italiani che si allargano dai familiari stretti del narratore alle generazioni precedenti.

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Emergono elementi ignorati (come l’adesione al Fascismo di un predecessore) o appena accennati a dispetto della loro importanza (come la campagna di Russia e la ritirata del padre che porta fino in fondo in salvo i suoi soldati). Ricerche metodiche, agnizioni e scoperte fatte compulsando documenti, mentre ricostruiscono le figure parentali (e per contenimento anche quella paterna complessiva, vale a dire anche quella che il figlio non ha conosciuto in quanto non ancora nato), dipingono in modo vivido snodi fondamentali dell’Italia. Qui siamo all’affresco riuscitissimo di un Paese, che se fosse stato l’unico fulcro dell’opera sarebbe già stato una gran cosa, mentre invece è solo uno dei suoi tanti elementi.

Il libro può essere visto come una meditazione su cosa sia ricordare, su cosa sia la sostanza della memoria.

Può essere inteso come una prova altamente complessa di scrittura autobiografica.

Può essere interpretato come una singolare rivisitazione degli stilemi della saga famigliare applicati a una storia che ne rifiuta la portata epica.

Può essere goduto come una foresta di simboli che si richiamano reciprocamente (la figura del cavallo è un attrattore meraviglioso: la mossa del cavallo sulla scacchiera, il padre che era un grande cavallerizzo, poi uno spericolato motociclista-centauro…).

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Può essere amato come un’apertura della narrazione alla scoperta cognitiva e emozionale. Sono pagine bellissime quelle in cui il narratore, tallonando l’identità del padre e la sostanza del proprio rapporto con lui, quasi per serendipity si trova a fare inaspettatamente i conti con l’identità della madre e con la ridefinizione del proprio rapporto con lei.

Può essere apprezzato come l’assunzione autoriale di un compito affidato allo scrittore dalle sue sorelle, che, dopo la morte della madre, gli affidano una scatola-scrigno con le lettere d’amore dei genitori, epistolario di cui lui era del tutto all’oscuro e da cui parte il racconto. 

Ho dichiarato prima qual è il modo che ho scelto io di leggere questo libro, ma ce n’è un altro che mi piace altrettanto. Ed è quello che vede l’opera di Canobbio e Andrea Canobbio stesso come portatori di grande qualità, di squisita qualità artistica, nelle nostre patrie lettere. Il suo primo libro, Vasi cinesi (Einaudi, 1989), era già l’esordio di una poetica fondata e sicura, quella poetica che Andrea ha sviluppato negli anni con rigore e intelligenza, non solo come autore, ma anche come editore e come lettore (la sua prefazione a W o il ricordo d’infanzia di Georges Perec, Einaudi, 2018, è imperdibile e andrebbe letta a margine di questa Traversata) e lo ha portato a questo apice.

Ma in quegli anni sono stati molti gli autori che, fin dall’esordio, hanno portato nel campo letterario poetiche già strutturate e poi negli anni sviluppate. C’è stata una evoluzione poetica fatta di numeri considerevoli di opere e di autori. Un name dropping qui rischierebbe solo di fare grossolane dimenticanze. Ma, in generale, questo andrebbe riconosciuto e anche studiato e soprattutto valorizzato. Inoltre, dopo quegli anni e dopo quella generazione di esordienti (generazione che va vista in modo dinamico, perché ci sono autori che hanno impiegato lustri di attesa per vedersi pubblicare libri importantissimi che esistono per il pubblico da quelle date, ma nella realtà da molto prima) ce ne sono state altre e soprattutto ce ne sono nuovamente tante proprio in questi anni attuali.

Sono linee poetiche che vanno dal mainstream alla ricerca d’avanguardia, in uno spettro complesso e ricco, abitato più da personalità individuali che da gruppi con manifesto letterario annesso, e oggettivamente è difficile mappare tutto, seguire ciascuno, però è miope non vedere che le cose stanno così. Dico questo perché sono certo della vitalità della nostra letteratura e della sua altissima qualità, così come sono certo che questo sentire sia assolutamente poco diffuso, pregiudizialmente, anzi, negato.

È come se a una finissima, complessa, solida, plurale, generosa e altamente qualitativa produzione letteraria corrispondesse una ricezione trogloditica. Non sto dividendo il campo tra autori ottimi e ricettori stolidi, anche perché sovente l’autore ottimo è un ricettore stolido delle cose altrui: d’altra parte, non è nell’Eneide che troviamo l’elemento fondativo italico, non è nel Risorgimento, non è nemmeno nei Mondiali dell’82, ma è nei sempiterni capponi di Renzo.

Tornando a questa Traversata notturna piena di luce, che mi allieta come testo, come prova di un autore che amo fin dagli inizi della sua produzione, che mi conforta molto anche da un punto di vista professionale generazionale (siamo grosso modo coetanei), se tanti sono i modi per entrare in questa costruzione letteraria, uno solo ce n’è per uscirne: cioè dopo averlo metabolizzato, averlo letto come una spugna legge l’acqua, non staccandosene prematuramente, accettando il suo passo e vedendolo per quello che infine è.

Perché è una storia d’amore, anzi più d’una: è quella tra i genitori di Andrea, quella di Andrea per il padre, quella della famiglia al cospetto della malattia, quella dell’autore per il suo libro, per i lettori, per la misteriosa cosa che è la letteratura. Sono amori che si fondono in un amore supremo, anche artisticamente parlando. Quello che permise a Coltrane di riconoscere il proprio talento in maniera assolutamente non egoica.

Modificando un aforisma di Eduardo Finkler, tu uscirai dalla Traversata notturna, ma lei non uscirà da te.

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