Culicchia, La bambina che non doveva piangere

1 Luglio 2023

Contravvenendo a qualsiasi decalogo del buon recensore, comincerò parlando di un ricordo mio personale.

Pochi anni fa mi trovavo al cimitero del paesello dei miei nonni paterni, in Valsugana, a Tezze di Grigno. Guardavo i cognomi sulle lapidi: molti erano lo stesso mio, molti quello della nonna da ragazza.

Ero in visita solitaria, finché non giunse nel cimitero anche una giovane, direi sui vent’anni o poco meno. Si avvicinò a una tomba, mise un fiore. Restò ferma per qualche minuto, poi cominciò a piangere, dapprima sommessamente, poi, via via, sempre più disperatamente. Finché se ne andò, colma di una tristezza senza fine.

Allora io, incuriosito, raggiunsi quella tomba, anziché provare riserbo e rispetto, per vedere chi fosse il defunto o la defunta. Era un morto della Grande Guerra. Il fronte bellico passava in quel paesello. Il Monte Ortigara non è lontano da lì.

Racconto questo perché lì mi fu chiaro come il dolore, anziché venire lenito dal tempo, può sovente trapassarlo, il tempo, uscirsene fuori dai suoi carsi e affliggere generazioni dopo generazioni. Non tutti i lutti fortunatamente sono così, ma quelli dei morti ammazzati lo sono spesso. Quante generazioni separavano quella ragazza dal defunto per cui piangeva? Tra la morte di lui e la nascita di lei c’erano stati un’altra guerra (secondo me, sempre la stessa), innumerevoli fatti, cambiamenti radicali di vita, di epoca. Erano passati decenni, era cambiato persino il millennio. Eppure eccola lì che piange, che non trattiene i singhiozzi.

E ora questo libro di Giuseppe Culicchia, centrato sulla figura di Ada Tibaldi, la madre di Walter Alasia, zia di Giuseppe. Sul cugino Walter era centrato il libro precedente (Il tempo di vivere con te, Mondadori, 2021, pagg. 162, vedi qui la recensione). L’amore supremo che ha legato lo scrittore a Walter e quello infinito che ha legato Walter a Ada, sono il tema dei due libri presi insieme. Ma, mentre il libro su Walter è scritto in seconda persona direttamente con l’autore che si rivolge al cugino Walter, La bambina che non doveva piangere (Mondadori, 2023, pagg. 227) allarga l’obiettivo sulla storia di famiglia dagli anni Trenta agli Ottanta dello scorso secolo e la vicenda della morte di Walter Alasia è quindi inserita in un contesto storico che parla, ma proprio tanto e assai sentitamente, anche del nostro Paese e di noi italiani.

Si tratta di due libri strazianti.

Ada, che non doveva piangere, pena la riapertura di un labbro leporino, è descritta dal nipote come una donna di straordinaria vitalità, traboccante di gioia di vivere, sempre allegra a dispetto delle congiunture drammatiche attraversate. Piangerà tuttavia la morte del figlio con tale intensità da morirne lei stessa. Questa, in sintesi, Ada.

Culicchia tesse la storia di famiglia, cioè le storie delle persone che la compongono e di coloro che vi si relazionano, insieme a quella che lui stesso chiama la Storia: “Questa storia è la storia di Ada. È una storia con la s minuscola, di quelle che vengono schiacciate dalla Storia con la S maiuscola. La storia di una figlia che non doveva piangere e che vent’anni dopo essere diventata madre ha pianto fino a morirne. Questa storia è la storia di Ada Tibaldi, nata a Nole Canavese il 16 giugno 1933 e morta a Sesto San Giovanni il 20 gennaio 1985. Ada Tibaldi in Alasia, sposa di Guido Alasia e madre di Oscar e Walter Alasia” (pag.9). 

Il figlio Walter muore in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine il 15 dicembre 1976. Prenderà il suo nome una colonna delle Brigate Rosse. Nel conflitto a fuoco muoiono anche il maresciallo Sergio Bazzega e il vicequestore Vittorio Padovani.

Quelle di Ada, Walter, Sergio, Vittorio e delle loro famiglie sono “le storie”. Fascismo, Mauthausen, guerre, rivoluzioni, terrorismo, politica, relazioni internazionali, conflitto di classe… queste sono “la Storia”. Il punto di contatto tra le s minuscole e la S maiuscola potremmo forse individuarlo, in emblema, nel seguente passo di Il tempo di vivere con te: “Da parte mia, non ho mai voluto incontrare Renato Curcio. Ne avrei avuto la possibilità, bastava che lo avvicinassi al Salone del Libro di Torino. A volte penso che se tu [Walter] non lo avessi incontrato quel giorno in Ticinese saresti ancora vivo. I tuoi figli giocherebbero con i miei. Quelli di Padovani e Bazzega non sarebbero cresciuti orfani. Le loro mogli non sarebbero state vedove. Tua madre non sarebbe morta di crepacuore. Aveva appena cinquantadue anni. Lo so, sono pensieri inutili” (pag. 141).

Il narratore Culicchia ha il dono di dosare nel racconto i fatti storici con quelli privati in modo tale da farne un tessuto di quelli ottimi, riconoscibili a colpo d’occhio dal sarto che intenda cucire l’abito di qualità. L’effetto letterario di una tale tessitura è, soprattutto nel libro su Ada, quello di comprimere in un unico nucleo l’amore e il dolore: un nucleo ineluttabile, vien da dire, emendato da qualunque tipo di consolazione, laico, duro, minerale. Ci sono voluti quarant’anni per Culicchia affinché trovasse il modo e la forza di dare pagine a tutto ciò, che pure sta alla base stessa del suo essere scrittore, la sua origine. Il nome “Walter” è già presente nel suo libro d’esordio, Tutti giù per terra (1994). Forse solo l’atto letterario, creativo e artistico, può rendere questo nucleo qualcosa di leggermente diverso da sé, perché è un atto d’amore che può stendersi sia sulle storie sia sulla Storia, dichiarando gli enigmi e i non detti di quest’ultima, anziché lasciare che continuino a operare nell’oblio che ne conserva l’orrore.

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L’Italia, per dirla con le parole di un altro scrittore, Antonio Moresco, che ne ha attraversato momenti di quelli con la S maiuscola, è un paese fratricida, in cui si sentono scricchiolare le ossa dei torturati nei sotterranei. È molto significativo che nel libro di Culicchia non compaia mai il “Sessantotto” con i connotati di festevolezza e conquistate libertà con cui è facile pensarlo di primo acchito: l’ottica da cui si guarda il passato in generale e quindi anche il “Sessantotto” è plumbea, dato che la questione per così dire strutturale (lotte operaie, scontro di classe) risulta molto più importante di quella (che pertanto appare come sovrastrutturale) della liberazione dei costumi nata della contestazione studentesca. Come struttura generale, Culicchia pone nella situazione che si è creata nel secondo dopoguerra – che lui chiama, senza tentennamenti, di “guerra civile” – la messa a punto delle dinamiche che poi hanno funestato il Paese nei decenni successivi, nei cosiddetti “anni di piombo” e che sono ancora presenti oggi. C’è questo video struggente in cui Culicchia e Giorgio Bazzega (il figlio del maresciallo ucciso) dialogano insieme delle loro storie e della nostra Storia. 

Culicchia, lì come anche nei libri di cui qui stiamo parlando, vede il caso Moro come emblematico dell’abominio di segreti, non detti, omissis, insabbiamenti, false piste, obnubilamenti, buchi neri, giochi di potere e quindi di morte che tumoreggiano nei tessuti del nostro Paese. Per il compianto, caro Daniele Del Giudice forse l’emblema era il caso Ustica. Nel mio piccolo propendo per l’ingresso italiano nella Grande Guerra (ok, la Valsugana di cui ho detto sopra ha un certo ruolo in ciò). Ma il fatto è che c’è solo l’imbarazzo della scelta. Nel video in questione suonano infatti terribili le parole di Giorgio Bazzega, per cui il caso Moro, al confronto con lo “stragismo”, è quasi un libro aperto, leggibile, completo e senza residui.

Il tallone del “divide et impera” sotto cui come italiani stiamo immutabilmente e senza redenzione, capponi di Renzo come siamo, fa sovente capolino nell’opera di Culicchia ed è forse proprio questo l’aspetto che ci tocca tutti, oltre le storie strazianti e la Storia devastante.

Io ritengo che “storia” sia una parola a cui attribuiamo un significato sbagliato, pensando che sia oggettiva e fattuale, mentre soggettivi e interpretativi sono i racconti che ne facciamo. Non voglio fare il narratologo pazzo, ma mettere una pulce nell’orecchio, sì. Simile all’inattingibile cosa in sé kantiana, una storia, qualunque essa sia, a me sembra che esista solo nel suo darsi in un racconto. No racconto, no storia. Che sia con la s minuscola o che sia con la S maiuscola, non fa differenza.

Riporto un passo molto tenero in cui lo scrittore, lambendo quasi un lapsus (benedetto sia il lapsus) si fa scappare, secondo me, quello che lui sente davvero essere il rapporto tra le storie e la Storia: 

“Dopo pranzo, Walter mi prende in braccio sul divano di finta pelle rossa mentre mia madre fa il caffè. Io mi godo le sue coccole; mia sorella chiede a Walter se non si è ancora stufato di questo cuginetto che non lo molla un istante, e lui le spiega che il suo piano in realtà è farmi diventare dell’Inter. Ada e mio padre si accendono l’ennesima sigaretta. Quei pochi metri quadri si riempiono di fumo e dell’aroma del caffè, ma non solo. La pienezza che sento è quella che prova un bambino nell’istante in cui è sicuro di essere amato e non sa che un giorno le persone a lui care non ci saranno più se non nei suoi ricordi. Allora guarderà ancora una volta le foto scattate da uno zio, si chiederà perché tutto sia passato troppo in fretta, maledirà il tempo che porta via ogni cosa con sé, senza che lo si possa fermare lì, proprio in quell’istante, di cui resta solo un’immagine, e con essa l’eco sempre più lontana e tuttavia indimenticabile delle voci, e il colore degli occhi, il calore delle mani, un certo modo di camminare, ridere, abbracciarsi, stare assieme, un lampo irripetibile di felicità.

In tutto questo, l’Italia è attraversata dalle proteste operaie e studentesche. A Milano, dove intanto è stato arrestato l’altro anarchico Pietro Valpreda, Antonio Amati, capo dell’ufficio Istruzione, accoglie la richiesta di archiviazione per la morte di Giuseppe Pinelli […]” (pagg. 117-118).

Ecco, quel raccordo quasi-lapsus (in tutto questo) segnala come sia la Storia, per Culicchia, a infiltrarsi in qualcosa di più grande, che è fatto delle nostre storie, non il contrario, come ci si aspetterebbe. Un piccolo, gracile segnale palpitante di vita.

E quindi è questo che salutiamo nell’opera di Culicchia, il suo racconto che ci chiede di impegnarci a produrre altri racconti e altri racconti ancora: racconti che facciano anche del collasso tra storie e Storia qualcosa di finalmente, umilmente, potentemente umano.

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