Antonio Moresco: vedere nel buio

14 Novembre 2024

Farò una lettura idiosincratica, soggettiva, personale e impressionistica dell’opera di Antonio Moresco, che da qualche mese è in libreria con il suo Canto del buio e della luce (Feltrinelli, 2024). Cioè commetterò tutti gli errori che un recensore e soprattutto un critico letterario deve evitare come la peste. Ma critico non sono e recensore chissà cosa significa.

Dunque all’inizio (non cronologicamente parlando) secondo me c’è una pallina da ping-pong che durante una partita si ferma a mezz’aria portando al culmine un rallentamento dell’azione ma soprattutto segnalando con la sua umile e insieme immane presenza che la vera partita che si sta giocando riguarda ben altro che il ping-pong.

Per me, l’opera di Antonio Moresco comincia da questa pallina ferma che troviamo nella prima delle tre scene in cui si compone il suo “Gli esordi” (Feltrinelli, 1998), cioè la “Scena del silenzio”. Non è un inizio temporale, come se tutto quello che l’autore ha scritto prima non avesse rilevanza, anzi: è proprio perché quella scena mette in immagine e parole, immediatamente fruibili da chiunque, il nucleo profondo dell’immenso sabotaggio/ripensamento del tempo che prorompe in tutte le migliaia di pagine di questo inaudito, splendente e irriducibile autore, che la ritengo iniziale e fondativa.

Durante la prima lettura degli Esordi, pur essendo affascinato e rapito dal profluvio di scene e invenzioni che scaturivano da ogni pagina, una zona profonda del mio essere lettore che dall’infanzia non era più stata turbata, cioè nutrita – salvo per qualche rarissima eccezione adolescenziale – anziché giacere sonnolenta sotto la superficie dell’entusiasmo per la bellezza della lettura, a poco a poco si risvegliava. È una zona in cui la sensibilità del lettore riesce ad avvertire i movimenti e gli slittamenti che un testo, quando si apre in tutte le direzioni e dimensioni ulteriori rispetto al mero intreccio degli eventi che racconta, porta dentro di sé in ogni sua molecola. Sono opere rare. Sono opere dalla genetica così potente che nemmeno la figura del frattale può aiutarci a descriverle. Sono opere precedenti e successive insieme. Dentro il semplice nome “Sindbad” sono inizializzate tutte le “Mille e una notte”. Un ragazzo lo sente.

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E così la pallina ferma, ma anche la luce che – in un’altra scena – è così intensa da premere sulla superficie delle cose schiacciandole, per non parlare dell’abolizione di ogni correlato psicologico (notata da Tiziano Scarpa, a cui si deve nientemeno che l’esistenza concreta di questo libro), per non parlare delle altre centinaia di scene che scaturiscono dalle pagine, entravano nella mia immaginazione di lettore come un prestigiatore che sia anche un ipnotizzatore entra nella visione e nella mente del suo pubblico. Perciò, nonostante questa ricchezza esagerata di meraviglia, ecco che sotto sotto l’immaginazione fino a quel momento un po’ atrofizzata del lettore cominciava a risvegliarsi. Cosa sentiva? Sentiva che tutto quanto stava smottando lentamente verso una dimensione che non era esplicitata nel testo (dove anzi le palline potevano imbambolarsi e galleggiare nella loro ferma vibrazione). E a poco a poco, ma con sempre maggiore certezza e forza, questo movimento cominciava a rivelarsi. Il libro che stavo leggendo puntava con decisione in una direzione certa.

Faceva parte del godimento della lettura avvertire una tale deriva, faceva parte dell’ammirazione per il gesto narrativo che veniva manifestandosi tanto più palesemente quanto più venivano manomesse e slogate le abituali mosse del raccontare. Gli esordi sono tre scene incardinate insieme grazie a due straordinarie ellissi narrative in cui i passaggi del protagonista da seminarista a militante politico e da questo a scrittore sono semplicemente, radicalmente taciuti. E nella sovrabbondanza di senso e immagine la scrittura andava come un fiume inarrestabile ma discreto, tanto che a volte veniva da chiedersi “ma cosa fa? ma come fa, l’autore?” quasi sospettando una sua fanciullesca vena datagli in dotazione dalla natura. Ma poi ecco che un’abissale consapevolezza splendeva nei punti giusti: una maestria narrativa nutrita da infinite letture condotte corpo a corpo con i grandi libri, una sapienza tecnica infallibile nell’usare lo strumento linguistico e letterario insieme, dove “tecnica” va intesa nel senso di quella del fuoriclasse sportivo.

Insomma: dentro un libro che non era il suo primo libro e che per quindici anni ha cercato un editore e che si intitola Gli esordi, c’è una pallina che fa esordire uno dei più grandi terremoti non solo narrativi, ma anche concettuali, archetipali, psichici, esistenziali e tematici cui abbiamo assistito non solo in letteratura.

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Nella sua mente tripartizionale dantesca Moresco aveva fin da subito collocato Gli esordi all’interno di un progetto di cui quel libro era la prima di tre parti. Per me era impossibile immaginare come sarebbe stato il volume seguente, perché tale e tanta era la solidità e la compiutezza del volume da rendere misterioso il secondo e successivo passo, per non parlare del terzo (Moresco racconta che a lui è venuta in mente in un solo colpo tutta la trilogia, come dal nulla). Ricordo che alla mia domanda esplicita l’autore rispose mostrandomi dei disegnini geometrici. L’ultima cosa che mi sarei aspettato. Non li ho ancora capiti adesso, ma rendono bene l’idea di un movimento (eccolo là!) che dapprima si è formato come in fermentazione dentro uno spazio protetto e adesso ne spalancherà i portali per andare a folleggiare in campo aperto.
E così ecco Canti del caos (Mondadori, 2009). Sono talmente numerose le voci che cantano nell’opera e ciascuna è talmente identificata e inconfondibile che sarebbe riduttivo chiamare “polifonico” o “corale” il testo che le contiene (che le scatena, meglio). L’invenzione accelera, i tempi verbali collassano e rinascono, i cosiddetti “personaggi” proliferano, un semplice loro catalogo alfabetico sarebbe già una lettura avvincente. Ma lasciamoli alla fruizione del lettore. Ricordiamo solo che nel caos (“sì, ma di forme”, ha ribadito l’autore) a poco a poco emerge anche in modo figurale quel punto di attrazione verso il quale si percepiva con l’immaginazione ridestata fin dagli Esordi che la massa incandescente e in crescita si stava spostando. Si lascia al lettore di individuare qual è.

Canti del caos è, di tutta la trilogia, il libro più scioccante e avvincente insieme. Gli esordi è avvincente, Gli increati (terzo passo; Mondadori, 2018) è scioccante. E lo sono in modo massimale. Canti del caos è la cerniera che partecipa delle due qualità (il che rende questa trilogia l’opera fuori concorso – purtroppo – di un fuoriclasse purosangue).

Delle vicende editoriali di Moresco si è parlato più che a sufficienza. Qui va solo ricordato che il buon senso avrebbe preteso che la trilogia vedesse finalmente la luce tutta riunita insieme. Capiterà, ma intanto non è ancora capitato. E così è più facile sparare il molosso dei Canti del caos sul mercato da solo che non insieme alle altre due sezioni. Ma forse ciò fa parte di una ulteriore manomissione del tempo, ironica e di ritorno, iniziata da quella pallina.

Delle vicende editoriali si sa. Delle vicende di ricezione dell’autore e della sua opera, molto meno e sempre partigianamente, lamentando la sufficienza con cui si accetta l’esistenza del fenomeno Moresco, oppure (fronte avverso) stigmatizzando la sua pretesa di importanza. In ogni caso, quello che a me sembra è che pensare alla letteratura italiana (e non solo) facendo come se Moresco non ci fosse è come fotografare il paesaggio australiano togliendo con il photoshop l’intera massa di Ayers Rock per poi mostrare la foto agli amici dicendo “guarda che bei posti”. Sottocapitolo a parte, grottesco, è quello degli interventi derisori e faciloni sull’autore e sulla sua opera che persino ancora oggi non mancano, addirittura su stimate (un tempo) testate giornalistiche in avvitamento semiconscio e perpetuo verso il nulla che da secoli si intravede oltre il tabloid.

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Opera di Nicola Samorì.

 

Riassumendo: c’è una sola cosa da fare, anzi due: lato editore, compattare l’intera trilogia (il titolo c’è, “Giochi dell’eternità”); lato lettore, leggerla.

Perché negli anni da questo monolite vaporoso, da questa condensazione di elementi sfuggenti e volatili in un blocco di densità fuori scala, si sono staccati lune e satelliti fatti della stessa pasta ma più trattabili sugli scaffali delle librerie e dentro le tempistiche di noi lettori. Cito La lucina (Mondadori, 2013), corpo orbitante intorno al monolite, lettura squisita, apripista per traduzioni straniere (in Spagna la presentazione degli Esordi, recentemente tradotto, registra come ovvietà le caratteristiche portentose del volume, che in patria a dirle si passa per facenti parte di una setta segreta), ma non è l’unica lettura che può fungere da introduzione al corpo pulsante del “Giochi dell’eternità”. Ricordiamo qui una delle pochissime (spero che dicendo l’unica mi sbaglierei) segnalazioni critiche serie di tutta la trilogia, ovviamente straniera.

Tuttavia va detto con semplicità e chiarezza che la trilogia, per chi minimamente si interessa a una lettura non solo di intrattenimento o evasione (ma forse anche a loro, perché no?), è (sarà) una lettura inevitabile.

Tutto ciò non è una lunga premessa al discorso sulle seicento pagine del Canto del buio e della luce, bensì il tentativo di rendere l’idea di un’opera profondamente compatta che con Gli increati si è impennata in verticale giungendo a un apice che resta fisso e che quindi ci fa domandare dove si situi la sostanza di questo nuovo libro potentissimo: va oltre il finale degli Increati? Va interpolata nella trilogia come suo commento? Va intesa come riassunto di tutto il percorso?

Credo che per l’autore vada messa prima.

Da un punto di vista concettuale, spirituale, ontologico e politico, il numero dei contendenti nell’agone originario dell’umano e del cosmo si riduce a due. E i due non sono “tempo” ed “eternità”. Nemmeno “verità” e “falsità”. Non sono “bene” e “male”, “vita” e “morte”, “femminile” e “maschile”, “essere” e “nulla”, “spirito” e “materia”, “guerra e pace”, “necessità” e “libertà”…

Sono il Buio. E la Luce.

Qui sta il nocciolo e il portato di questo libro, estremo ed estremistico come tutti gli altri dell’autore.

Un tale assalto narrativo al buio e alla luce direi che è senza precedenti, se non fosse che conosco la mia ignoranza. In ogni caso dalla semplice cellula iniziale, che qui riportiamo nella sua articolazione minima, partono strade inedite per lo stesso Moresco.

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Opera di Nicola Samorì.

 

Inizio:
Come farò a raccontare e a testimoniare una cosa simile?

È cominciato a poco a poco, lentamente, impercettibilmente.

Per questo, all’inizio, non si è capito bene cosa stava avvenendo, perché i nostri cervelli si rifiutavano di prendere in considerazione una tale enormità. Come si può concepirla?

Invece stava succedendo davvero.

“Cosa sta succedendo?” si chiedevano le persone, guardandosi attorno prima stupite, poi sbalordite, poi spaventate, atterrite. Gli umani facevano sempre più fatica a riconoscere le cose sul filo dell’orizzonte. Le città a poco a poco sparivano, i contorni svanivano, il cielo e la terra si confondevano, era sempre più difficile distinguere la notte dal giorno.

Gli automobilisti guidavano con gli occhi sbarrati lungo i rettilinei delle autostrade, leggevano sempre più a fatica i nomi delle località scritti sopra i cartelli. Gli orologi indicavano un’ora diversa da quella della luce. Donne e uomini si vedevano sempre meno dentro gli specchi. I bambini all’inizio si divertivano, perché potevano giocare meglio a nascondino.

“Dove sei?”

“Cucù, sono qui!”

Però, da un certo punto in poi, anche i bambini hanno cominciato a spaventarsi, perché non sapevano più neanche loro dov’erano, non si trovavano più.

Poi c’è stata un’accelerazione e allora ce ne siamo resi conto all’improvviso, di schianto.

La luce se ne sta andando. Il mondo sta diventando buio.

Sta accadendo qualcosa che non è mai successa prima oppure che è già successa? Stiamo precipitando in un evento che ci precede o che ci oltrepassa?”

Strade inedite fatte di interviste a persone e a prelievi da libri che riguardano discipline e attività umane specialistiche. Moresco ha lavorato al suo libro andando per mesi e mesi a intervistare sul buio e sulla luce pittori, registi cinematografici, musicisti, matematici, fisici, linguisti, ballerine, ipnotizzatori, pubblicitari, orafi, responsabili di supermercati, infermiere, maghi, magazzinieri, esperti di logistica, bancari, insegnanti d’appoggio, esperti di teatro d’ombre, personal shopper, emulsionando nel testo anni di ritagli e citazioni, inserendo suggestioni ricavate da decine di persone ricordate insieme e nemmeno tutte in una nota finale.
L’impostazione nuova e per così dire di giornalismo esploso allestisce una narrazione fatta di innumerevoli vene che si intrecciano, scompaiono e poi riappaiono, tutte all’interno di una meditazione accanita sul tema del buio e della luce come elementi della scissione originaria, la madre di tutte le scissioni. Ecco però che la ricerca dell’originario individua sì i due contendenti nel buio e nella luce, ma ha di mira il tentativo estremo di rendere parola l’inestricabile complessione dei due, l’inimmaginabile crasi universale di entrambi. È, come si vede subito dalla citazione iniziale, un libro di immaginazione e domande. Tante domande: agli esperti, a sé stesso, ai lettori, a nessuno in particolare... Precisamente 1930 domande (quelle dirette).

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Opera di Nicola Samorì.

A questo punto potrebbe cominciare una recensione come si deve, magari registrando altre nuove entrate nel gruppo dei personaggi moreschiani (quello che fa le bolle di sapone, il formichiere creato dall’I.A., i due pornodivi Sbrego e Sbrega, Gesù Cristo, Putin…), magari prendendo le mosse dalla ribadita tripartizione del testo (Parte istruttiva, Parte sacrificale, Parte abissale), ma invece il pezzo va a finire.

Finisce però dicendo che, così come Moresco va letto in toto per capire bene di cosa stiamo parlando, anche questo suo libro va letto fino alla fine (e possibilmente tutto di fila e senza troppe pause) perché è dell’acrobata, è dell’atleta, è dell’umorista, è del fanciullo la capacità di ribaltare masse infinite facendo perno su un punto.

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