Dubravka Ugrešić, note a piè di pagina

27 Marzo 2023

Probabilmente abbiamo metabolizzato nella nostra cultura la figura emblematica del labirinto, che tanta letteratura ha posto sia come struttura di molte opere sia come metafora del mondo e della vita. Ma se il labirinto è di derivazione slava le cose non stanno così e la metabolizzazione non è certo scontata. La volpe (La Nave di Teseo, 2022, pp. 383) dell’autrice croata Dubravka Ugrešić, recentemente scomparsa (Kutina, 27 marzo 1949 – Amsterdam, 17 marzo 2023), posto che appartenga alla classe dei testi labirintici, ci mette di fronte a dinamiche e riferimenti letterari e in generale culturali verso cui siamo molto più ignoranti e disarmati di quanto lo saremmo di fronte a un labirinto costruito con pezzi e geometrie che in qualche modo ci appartengono, ci suonano famigliari.

La prima delle sei parti che compongono questo libro importante ha per titolo “Racconto su come scrivere racconti”, cioè lo stesso titolo di un breve testo dello struggente scrittore russo Boris Pil’njak, così che siamo immersi fin da subito in una dimensione metanarrativa assai complessa: il titolo di questa sezione è il titolo del testo di Pil’njak che l’autrice affronta analizzandolo ma anche raccontandolo e facendone emergere gli elementi sfuggenti, i giochi vertiginosi fra l’autore e un altro scrittore, di cui lui narra, conosciuto in Giappone, Tagaki, famoso per aver narrato di una donna russa, Sofja. Pil’njak forse avrebbe dimenticato di aver conosciuto Tagaki, se non avesse poi trovato in un archivio la richiesta di rimpatrio di Sofja, che aveva vissuto una storia d’amore con Tagaki o aveva creduto di viverla, poiché scoprirà di essere non tanto la compagna dello scrittore, quanto il modello inconsapevole della donna di cui lui aveva narrato nel suo romanzo…

Sono realmente esistiti Tagaki e Sofja? “Difficile saperlo”, è il commento della Ugrešić, “in ogni caso, durante la lettura di questa storia magistralmente raccontata, al lettore non viene in mente neanche per un secondo che la storia potrebbe essere costruita”. Raccontando ciò, Pil’njak racconta anche che il suo ospite del consolato sovietico lo porta sui monti di Kobe (che sia Kobe, Pil’njak lo dice in una nota di un altro suo scritto) e gli mostra il Tempio della Volpe. La Ugrešić quindi cita Pil’njak: “La volpe è l’incarnazione dello spirito dell’astuzia e del tradimento. Se lo spirito della volpe s’insinua in un uomo, la sua stirpe è maledetta. La volpe è lo spirito degli scrittori”. Qui le virgolette potrebbero tranquillamente non esserci, sono entrambi a parlare all’unisono, Boris Piln’jak e Dubravka Ugrešić (la quale preleva la volpe e la manda nel titolo del suo libro).

Pil’njak ha scritto il racconto in 10 pagine. Qui siamo alla sesta pagina di La volpe.

Da questo nucleo così denso e complesso (e misterioso) hanno origine le altre 400 pagine circa di La volpe. Impossibile rendere tutta la gamma di livelli che si intrecciano in queste pagine, rendere anche solo alla lontana le sinuosità estreme dei collegamenti interni, gli scarti, le loro ragioni e i loro ritmi. La maestria dell’autrice. La sua crudeltà. Il suo accennato umorismo. La sua disidratata disperazione.

Anche se l’autrice passa stilisticamente attraverso una varietà di registri con agilità impressionante, la sua voce resta unica e inconfondibile. Lo spettro dei suoi giudizi va dalla massima epochè allo stizzito risentimento personale. Quando tratteggia un personaggio può essere contemporaneamente feroce e ammirata, la sua intolleranza si applica tanto all’enormità dei fatti storici quanto alla singola indelicatezza patita di persona.

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Il trauma bellico iugoslavo che l’ha fatta diventare esule (va ricordato qui Il museo della resa incondizionata pubblicato nel 1996, testo basilare, riproposto dalla Nave di Teseo quest’anno) viene ora incorporato in un contesto fatto di tanti temi che si rincorrono, si richiamano, si rispecchiano. Sull’argomento ecco a distanza di anni cosa vede Dubravka Ugrešić nel mondo come è diventato, sta diventando: 

Oggi, un quarto di secolo dopo, forse per un’illusione ottica, dalle incubatrici democratiche dei nuovi Stati, dalla Croazia e dalla Serbia, dalla Bulgaria, dalla Polonia, dalla Russia e dalla Romania, ma anche dalla Grecia, dall’Italia, dalla Spagna, dalla Finlandia e dalla Norvegia, stanno rotolando fuori uova di serpente. Nasceranno da queste uova uomini nuovi che, travestiti e mascherati, si scaraventeranno con le mazze contro i migranti che da tutte le direzioni stanno inondando l’Europa?

Ma torniamo al labirinto e ai suoi temi. C’è il mondo letterario che muore, sia nell’emblema della massima spinta creativa che si sia avuta nel mondo e della sua devastazione staliniana, sia nelle attuali figure singole di editori e addetti culturali e di aspiranti scrittori, ritratte senza pietà; c’è una storia di amore e morte; ci sono personaggi e luoghi (e rapporti tra personaggi, e rapporti tra personaggi e luoghi) descritti con estrema precisione ma alcuni probabilmente inesistenti. E c’è una profonda riflessione sul narrare, come è nell’intenzione stessa dell’opera, che, senza dare punti fermi, anzi abbattendoli proprio là dove fanno capolino, mette però capo a un paio di suggestioni di radicale importanza. Una porzione del testo, mescolata insieme ad altre ad arte, è dedicata al rapporto tra l’autrice e la sua nipotina. Sembra (qui tutto “sembra”) un racconto di relazione tra zia e nipote, con tanti dialoghi, con tanta arguzia e affetto. Ma è proprio lì che tanti fili si dipanano. Intanto il rapporto fra generazioni diverse consente all’autrice di delineare il collasso presente e futuro della letteratura, almeno per come la conosciamo. Inoltre, con classe ed eleganza, Dubravka Ugrešić suggerisce un neologismo (complimenti alla traduttrice Olja Perišić), affidandone l’invenzione alla nipotina, che ci indica una strada inconsueta per pensare all’arte del racconto: 

“Le storie vengono create nella tua testa. Le immenti,” disse.

La mia bambina aveva unito i due verbi “immaginare” e “inventare” e ne aveva creato uno nuovo: immentare!

Ecco, per esempio, pensiamo all’arte del racconto con una parola nuova, immentata ad hoc.

Sempre nello stesso dialogo emerge un elemento che forse è uno dei motivi per cui questo labirinto non è così simile ai labirinti cui siamo avvezzi, vale a dire l’importanza del corpus di fiabe e narrazioni popolari slave. Si tratta di un deposito immane. La sua densità fa squilibrare il labirinto verso qualcosa che reca in sé i germi del racconto. Come si scrivono i racconti? Immentandoli come fossero fiabe. Questa potrebbe essere una via, più che una risposta.

Ma se il ganglio è nella fiaba, ecco che, in un passaggio finale del libro, una singola parola detona, “veridicità”: 

La magia non funziona se le parole sono pronunciate invano. Per questo in ogni storia, anche nella fiaba, dovrebbe essere incorporata la componente di una “veridicità” superiore (allo stesso tempo la veridicità non va confusa con la verità, la credibilità, l’esperienza di vita, né con la morale), perché altrimenti la storia non “funziona”.

Si può in prima ipotesi vedere nel concetto di “veridicità superiore” l’esito della questione di come si raccontano i racconti. È un concetto che sposta molti equilibri nel deposito stanco dei termini con cui si parla delle storie: fantasia, realismo, fiction, autobiografia, romanzo storico, romanzo, racconto, ucronia, memorie, genere letterario, nicchia, best seller…

È verso questo concetto (il cui significato è in tutto questo libro della Ugrešić, darne un’altra definizione è impossibile) che chi scrive, cioè chi ha incontrato nel proprio destino la “volpe”, si muove a proprio rischio e pericolo:

La volpe è Sheherazade. Sheherazade è la volpe […]. La volpe, il totem che secondo Boris Pil’njak, è toccato in sorte ai poveri scrittori, è ingannatrice, truffatrice, messaggera divina, serva della dea del settore alimentare, Inari. Occasionalmente la volpe si occupa del traffico delle anime dei morti; la volpe è esperta di giocoleria, bugiarda, ipocrita, adulatrice, ruffiana, avida, ingorda, lussuriosa, una ladra che si espone a pericoli mortali per un misero bottino: il collo di una gallina, la zampa di un’oca, un pezzettino di formaggio che cade dalla bocca di qualcuno. La volpe è destinata alla solitudine, alla vita fuori dalla sua specie: l’accoppiamento è breve, la maternità dura un po’ di più, ma non abbastanza da colmare l’abisso della solitudine. In quanto ladra di galline, la volpe è l’alibi e il bersaglio dei cacciatori pragmatici […]. La volpe ha poteri magici, si può elevare fino allo status di volpe celeste e ottenere le sue nove code, ma per questo bisogna aspettare ben mille anni.

Negli innumerevoli sottolivelli di questa narrazione compaiono lotte mitologiche tra sirene e muse, dove le sirene stanno alla creatività originaria femminile come le muse all’ancillarità del femminile al maschile; compaiono personaggi ed enti con la medesima potenza epifanica (scrittori, vedove di scrittori, oggetti venduti nei musei, il vulcano Eyjafjallajökull, OBERIU, bambine mute e glaciali…); compare in posizione centrale Nabokov, cui è dedicata la straordinaria quinta parte dell’opera, che si apre con la citazione, tratta da Fuoco pallido: “La vita umana è soltanto una serie di note a piè di pagina a un vasto, oscuro e incompiuto capolavoro”.

Ai labirinti cui siamo più avvezzi non fanno certo difetto vastità, oscurità e incompiutezza. Ma in questo che ci presenta Dubravka Ugrešić è la parola “capolavoro” a darci uno scarto in più, una novità, tutta interna alle nostre vite a piè di pagina e alla letteratura colta come un insieme.

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