I diritti dell'ambiente / Abitare Venezia

16 Maggio 2021

Che cosa diremo...

Che cosa diremo, noi che ancora ci abitiamo, ai bambini e ai ragazzi nati a Venezia o venuti ad abitarci, che oggi frequentano le sue scuole? Ci vorranno, ci potranno abitare e lavorare? O dovranno andare via, magari all’estero?

 

Calce, acqua e lingua

Aspetto il mio turno per il vaccino antinfluenzale davanti all’ambulatorio, appoggiato al muretto che divide il rio terà Cazza dal rio de San Polo. Sento le parole di un uomo che, in coda dopo di me, indica alla moglie due muri che affondano nel canale. Dice: «Àra la malta de sto muro, che xè ancora bona dopo tanti ani» e la confronta con quella tutta sbriciolata sul muro accanto. Gli chiedo di spiegarmi. Lo chiedo in italiano e lui capisce che sono “foresto” (pur residente da tanto) così mi risponde gentilmente anche lui in italiano. Dice che adesso certi muratori usano delle malte non adatte al salso. Basta confrontarle con quelle che invece durano, anche centinaia di anni: per esempio sul Canal Grande, dove, mi ricorda, ci sono affreschi che resistono sulle facciate. Ha lavorato una vita nell’edilizia e commenta: «Non dovrebbero neanche metterci le mani. È un sacrilegio».

La parola “sacrilegio” la dice con emozione. Esprime un sentimento per la città, per il lavoro fatto per costruirla e mantenerla, che non si riduce al risultato immediato, ma ha coscienza, amore, passione per un saper fare che è stato ereditato e mantenuto, ed è perduto. È un sentimento che molti lavoratori e artigiani come lui condividono. 

Condividiamo questa voce anche molti di noi residenti, che amiamo in Venezia la sua natura antica. Antica: è già per il fatto di esistere un segno di gratitudine verso chi nel tempo l’ha abitata e costantemente curata. È già per il fatto di esistere un segno di speranza riconoscente anche verso chi ci abiterà ancora e se ne prenderà cura. Non è una metropoli, e però è abbastanza grande e aperta ai “foresti” da avere sempre vita.

 

La voce che ha parlato di “sacrilegio” la senti, più spesso in veneziano che in italiano, quando stai in mezzo alla gente. Non appare sulle pagine politiche dei giornali. Abita nel tempo quotidiano, presente, di chi esercita un mestiere a contatto con i materiali; abita nel tempo lungo, lunghissimo del tramandare quel mestiere e quella cura. Quella voce non ha il tempo “attuale” dell’evento e della discussione politica. Non ha il tempo della “grande opera”, che si apre la comunicazione con la trivella e le cariche esplosive della “innovazione”. Non ha il tempo della notizia politica, che si fa strada con la lite. Se arriva al giornale, è nella pagina locale, come “caso”: il mestiere, l’artigiano che “resiste”, la bottega che non chiude nonostante tutto; o quella che invece chiude. Il caso è presentato con un tono che sta fra l’onore reso a un eroismo privato e la compassione.

Quella voce è diversa da quella del “lavoro” che c’è stato finora in prevalenza a Venezia, eco al turismo e al suo indotto. Quest’ultima, prima della pandemia, ha avuto toni molto sicuri, anche nella dimensione politica: resi perentori da certi risultati economici, a dispetto dell’emorragia di abitanti e della distruzione di una città. Di quel lavoro, colpito dal Covid-19 in primavera e ancora adesso e chissà per quanto tempo, è ancora la voce a prevalere, ma con toni angosciati.

 

Da questo stridore di voci non potremo uscire se non con altre politiche economiche, residenziali e urbanistiche per l’intera città e il territorio. Ci sono le competenze per farlo. Perché non è stato fatto?

Ho l’impressione che la forza per realizzare queste alternative manchi non solo a causa del basso numero di abitanti del centro storico, che si esprimono politicamente in questo senso, ma anche per un difetto di convinzione. Ci si lamenta, ci si sente impotenti. Forse, alcuni di noi che hanno casa perché avuta dai genitori, o perché acquistata decenni fa, quando i prezzi erano accessibili anche a redditi modesti; forse alcuni di noi che hanno avuto qualche possibilità di esprimersi in pubblico, magari considerati “intellettuali” (penso a una buona parte dei quattrocento che erano alla riunione di “Un’altra città possibile”, che per un momento ha dato speranza di non finire nella solita frammentazione, con un bel po’ di narcisismo); forse sono e si sentono in colpa in quanto “privilegiati”?

 

Venezia è unica?

Questo senso di privilegio è effetto di un’immagine di cui siamo vittima tutti noi abitanti di ogni mestiere. Essa, con una leggera narcosi, ci mette in soggezione e in obbligo di essere contenti a qualsiasi prezzo dell’unicità di Venezia come tesoro di monumenti d’arte. Va conservato assolutamente, il “bene culturale”! Ma può esserlo anche senza i suoi abitanti: ci saranno sempre i turisti. E infatti così è andata. C’è il bene, non la cultura. Fra poco non ci saranno coloro che dovrebbero apprenderla e praticarla.

Passa in secondo piano la possibilità di conoscere nell’abitare a Venezia una forma di vita e non solo l’“arte” istituzionalizzata. Passa in secondo piano la possibilità di vedere Venezia non come “unica”,

ma come un modo di vivere proponibile per tanti altri luoghi. Soprattutto ora, quando la vita nella metropoli non è più così desiderabile.

 

Certo che Venezia è, in un certo senso, unica. Chi, fra gli abitanti, può negare di essere stato segnato nel modo di vedere, camminare e guardare nella città? Per esempio dal girare, giù dal ponte di Campo Santa Maria Nuova, l’angolo della chiesa di Santa Maria dei Miracoli e avere a portata di mano il fianco (non l’hai mai toccato?) dei marmi policromi e geometrici che, dall’altra parte affondano nel canale? Che meraviglia! Anche se non lo sai, questo ti ha costruito internamente la vista, il tatto, lo spazio.

Questa formazione avviene in chi abita, cioè acquista un “abito” nella frequentazione ripetuta e fatta di molti momenti di grazia generati dal luogo, anche se rapidissimi e inavvertiti dalla coscienza nella percezione distratta quando si pensa ad altro, a un compito da assolvere in un altro posto. Stai andando a fare una cosa e l’occhio vede qualcosa o l’orecchio sente un suono e loro vanno nella memoria senza che tu lo sappia. Poi ci torni e te ne accorgi: e trovi che il posto è proprio giusto così com’è. Entri in una chiesa e il silenzio, la pace, lasciano l’occhio libero di guardare dove è attirato, nel dettaglio di un dipinto, nelle figure lontane, ma anche negli angoli, sulle cornici, sulle pietre del pavimento, sul legno lucidato dall’uso di un banco.

 

Queste percezioni sono libere da intenzione e a volte più incisive delle visite programmate con l’idea di avere un’esperienza “artistica”. Il moderno concetto di arte ha messo, anche quando non ci si accorge, uno schermo “critico” fra me e la cosa. Mi ha trasformato in un “soggetto” che valuta un “oggetto” e questo può impedirmi di esserne semplicemente attraversato e formato. E allora è quasi meglio quando la preoccupazione, l’idea urgente di ciò che è “da fare”, o anche un’interna conversazione verbale con se stesso, svaniscono per un momento di fronte all’improvvisa rivelazione di una cosa. Che liberazione! Essa apre una dimensione del tempo e della vita diversa dalle preoccupazioni: la dimensione del presente e del possibile, accessibile a tutti gli abitanti o ai visitatori che hanno la pazienza di acquisire familiarità con un posto.

Queste rivelazioni e formazioni avvengono soprattutto nei contesti dell’abitare: dove il dipinto è nella chiesa, la chiesa è nel campo o nella piazza in cui le persone vivono, si incontrano e forse riconoscono,

nei momenti felici e meno felici: i luoghi diventano volti della vita in tutti i suoi aspetti, nelle sue storie, nei suoi nomi.

Nelle città antiche l’architettura non era separata dall’urbanistica, come accade invece oggi. A Venezia, per fortuna, a nessuno viene in mente di farci in mezzo un’architettura-scultura à la Gehry, Hadid,

Nouvel... come si è fatto in tante altre città per “brandizzare” (orribile parola e concetto) una zona.

 

L’ambiente e suoi “diritti”...

L’ambiente non è solo il clima: è il modo in cui si abita. A Venezia, esposta all’innalzamento delle acque, i due fattori sono emergenze che si sommano e moltiplicano e ne fanno un problema esemplare. Per affrontarlo occorrono non solo grandi forze contrarie a quelle finora prevalenti, ma anche una consapevolezza culturale più precisa della attuale, per la quale la “cultura” viene troppo spesso ridotta ai suoi “beni” (qualcuno diceva “giacimenti”) e alle “arti”. Occorre la convinzione di scegliere di mantenere e promuovere qualcosa che appartiene a una forma di vita. Questa convinzione è già presente in molti abitanti di Venezia. Ha bisogno di rafforzare la sua voce pubblica.

 

Potrà avvenire nei prossimi anni solo se i ragazzi che qui abitano o vogliono abitare saranno convinti che vivere qui non è un privilegio di pochi, ma un modo di abitare che condensa in sé ed esemplifica qualcosa che va fatto anche in altre città e luoghi abitati. Insieme con il diritto alla salute, al lavoro, all’uguaglianza – diritti da difendere adesso più che mai e da compiere ancora per moltissima parte – ci sono anche dei diritti dell’abitare. Il primo è avere una casa. E ci sono anche questi altri che nominerò adesso, però solo provvisoriamente, “diritti”:

 

Il diritto allo spazio

Louis Aragon scriveva, con parole rese acute dall’amore e da un’ira stemperata dall’ironia, della distruzione del Passage de l’Opéra per la realizzazione del Boulevard Haussmann, in Le Paysan de Paris.

A Venezia l’Ottocento e la ferrovia sono riusciti a produrre al massimo Strada Nuova. Vecchi, adulti, bambini, diversi mestieri, qui si incontrano ancora in calle e in campo. Questo è lo “spazio” come un

posto dove puoi uscire di casa e avere metri davanti, a destra, a sinistra, come vuoi, per camminare, incontrare, fermarsi, sostare senza timore di essere investiti. Senza allarme. Uno spazio non sbarrato

da grandi strade di traffico.

Qualunque direzione tu prenda, alla fine arrivi sui bordi di una fondamenta e ti si apre il respiro della Laguna, il suo orizzonte piatto e circolare che non obbliga a una prospettiva, a infilarvici l’immaginazione per un da-fare. Le isole sono riferimenti aggirabili, manovrabili dall’acqua. Nelle braccia della Laguna si può respirare a fondo rilasciando la tensione che, anche inconsciamente, gli spazi già direzionati producono. Qui lo spazio orizzontale ha la sua massima potenza.

 

Sul pontile che dà sulla Laguna nord, appeso lungo il fianco dell’Arsenale, stai in sospensione fra questo spazio orizzontale dell’acqua e quello della città di pietra e legno. Ma entri in città e ti accorgi che anche i campi sono a volte un po’ così: che non c’è una sola direzione. Campo San Polo: qual è il suo prospetto? Dove sono il davanti e il dietro? Ti metti in qualsiasi punto e il prospetto cambia. Posso girare con gli occhi chiusi su me stesso, come a volte facevo da bambino per giocare a perdere l’orientamento, apro gli occhi ed è comunque il posto giusto (sono persino in dubbio se l’eliminazione della chiesa di San Geminiano dalla “piazza” San Marco e la definizione perentoria dell’unica prospettiva abbiano giovato allo spazio generato dall’energia della basilica... Io lo vedo meglio quando le giro intorno).

 

Fotografia di Fulvio Roiter.


In campo San Giacomo de l’Orio mi fermo su una panchina o bevo alla fontana e mi guardo intorno: uno esce da una calle e va in un’altra dall’altra parte, oppure in un’altra ancora, e ci sono tanti percorsi diversi. Campo Santa Margherita è più lungo che largo ma ha direzioni quanti sono i posti in cui ti trovi: sembra in un modo se vieni da San Pantalon e se sei presso l’Auditorium, in un altro se invece vieni dal ponte dei Pugni, in un altro ancora vicino alla Casa del Boia o ti siedi sulle panchine sotto gli alberi; o se vieni dai Carmini; o dalla calle Contarini per andare in calle del Magazen e continuare per angoli a zig-zag fino al campiello dei Squelini.

 

C’è una piccola scultura di Alberto Giacometti alla Guggenheim di Venezia. Si chiama Piazza. È una superficie su cui passanti senza identità vanno in direzioni che si incroceranno, ma senza guardarsi. Sarà la piazza di una metropoli, non di una città italiana, tantomeno un campo di Venezia. In campo è il contrario. Ti guardi intorno e vedi le persone, spesso le riconosci, anche da dietro da come camminano, portano un abito. O le guardi necessariamente anche per lasciare il passo. Il campo è molte direzioni possibili e anche luogo di legittima esitazione: andando a piedi, posso permettermi di fermarmi un momento in qualche punto, prendere una “sconta” diversa, o anche cambiare direzione. C’è una differenza essenziale con l’attitudine di chi venne chiamato flâneur: qui ci vivi e ci lavori, il movimento per andare a lavorare non è separato da quello della vita.

In altri luoghi le delimitazioni nello spazio sono anche o soprattutto sociali. La struttura urbana di Venezia non favorisce divisioni sociali precise di zone, di ceto. Anche quando arrivano i “foresti”,

non si costituiscono zone separate e gentrificate come invece in molte città europee. La formazione di zone-ghetto studentesche, come campo Santa Margherita, è risultato di una mancanza di politiche

abitative opportune. Questa mancanza uccide lo spazio della città.

Anche in molti altri centri storici di città italiane c’è uno spazio con caratteri assimilabili a quello di Venezia. Sono spazi costruiti nel medioevo, nel rinascimento, in età barocca, settecentesca. Oggi

anche in città moderne si cerca di rifare questo tipo di spazio, dove si ripropongono le pedonalizzazioni e attività con esso compatibili. L’antichità di Venezia, il suo passato, è un futuro non solo per Venezia. Pratichiamo qui questo “diritto” allo spazio e facciamolo come esempio per tutti gli abitati, anche in terraferma, oltre il ponte, in tutte le città, oltre l’oceano...

 

Il diritto al silenzio

C’è un’intervista a John Cage che si può ascoltare/vedere su Youtube ed è indicata con le parole In love with another sound. Cage risponde stando seduto davanti a una finestra che si apre su una strada della metropoli. Dalla finestra entra il suono di un traffico intenso: fatto di particolari sonori sempre diversi ma con un elemento costante. Improvvisamente, Cage dice una cosa che spiazza l’intervistatore e chiunque abbia recepito superficialmente la sua poetica del silenzio. Dice «Silence is traffic». Ma come?! È una risposta interna alla sua poetica, per cui ogni suono è degno di essere ascoltato, e per fare questo bisogna fare silenzio nella mente: tacitare le chiacchiere dei pensieri che la invadono continuamente e producono aspettative secondo abitudini, anche musicali – per esempio quel tipo di suono piuttosto che un altro... Il traffico zittisce le chiacchiere della mente e le aspettative. Può essere usato come un mantra sui cui concentrarsi, di cui cogliere i dettagli con l’attenzione che viene consentita da un ascolto rilassato di chi non si aspetta un determinato, preferito cambiamento. Ma è anche un modo di sopravvivere all’invasione sonora della metropoli, grazie alla capacità di fare del suono un’occasione di ascolto per guadagnare in consapevolezza.

 

A Venezia ci sono suoni familiari: le voci dalle calli e dalle finestre, i suoni delle barche che passano in canale, dell’acqua… Si può imparare ad ascoltarli. Una volta, in un giorno d’estate, ero uscito di casa per andare a una mostra. Ma era una bella giornata e ciò che avevo imparato da Cage mi ha risolto a non chiudermi in un museo e andare invece al Lido, al mare. Mi sono messo in fondo a una diga e lì ho potuto ascoltare i ritmi diversi e la diversa intensità delle onde, secondo che battevano sulla spiaggia a destra, a sinistra, o sugli scogli dietro le mie spalle. È stata musica. C’erano tre strumenti e tre ritmi.

Mentre dirigevo un gruppo di improvvisazione nel laboratorio di Musicafoscari per gli studenti, ho proposto di fare questo esperimento: tre gruppi avrebbero dovuto suonare contemporaneamente,

ma ciascuno con un ritmo diverso, e non necessariamente in modo che ci fosse una cellula ritmica comune. Mi chiedevano perché e io dicevo che così si apprendeva un ampliamento della capacità di

ascolto del ritmo; e magari avrò anche citato qualche esempio colto della composizione, come Gruppen di Stockhausen… Ieri sera, venendo dal Canal Grande per la calle che va in San Cassiano, un magnifico suono di campana è arrivato e subito si è aggiunto quello di un’altra campana, con un ritmo diverso. I due ritmi erano contemporanei ma non c’era una frazione comune percepibile. Mi sono ricordato di aver fatto la stessa considerazione una volta, in piazza Sordello, a Mantova, ascoltando le campane del Duomo. Mi è venuto da ridere. Non avrò avuto nell’orecchio tutto questo, prima della musica d’avanguardia?

 

Ma ascoltiamo Luigi Nono:

 

Venezia è un sistema complesso che offre esattamente quell’ascolto pluridirezionale di cui si diceva [...]. I suoni delle campane si diffondono in varie direzioni: alcuni si sommano, vengono trasportati dall’acqua, trasmessi dai canali [...] altri svaniscono quasi completamente, altri si rapportano in vario modo ad altri segnali della laguna e della città stessa. Venezia è un multiverso acustico assolutamente contrario al sistema egemone di trasmissione e di ascolto del suono a cui siamo abituati da secoli. Ma la vita quotidiana, nella sua dimensione più “naturale”, conserva possibilità contraddicenti la nostra percezione più consapevole, la quale ha scelto soltanto alcune dimensioni fondamentali, trascurando tutte le altre. Epperò ciò significa anche che, mentre si va all’opera o al concerto idolatrando quelle uniche condizioni e dimensioni di ascolto, nello stesso tempo naturalmente si continua l’esperienza di quest’altro multiverso… Si tratta allora quasi di un’urgenza di risveglio a questa maggiore ricchezza “naturale”.

 

Forse a Venezia l’esercizio di risveglio Zen che Cage suggeriva è più duro perché non c’è tanto traffico che zittisce i pensieri, e comunque il silenzio fisico lo puoi sempre incontrare girando un angolo. E te lo trovi quando torni a casa. Non è sempre benvenuto. Non c’è l’allegria del chiasso distraente. Qualcuno si deprime fra silenzio e desertificazione delle relazioni e delle attività. Per qualcuno è solitudine, ed è una brutta cosa. In ogni caso, il silenzio fisico inclina a confrontarsi con i propri pensieri. È un male o è un’occasione di crescita interiore? Io penso che per diventare migliori, per se stessi e per gli altri, anche il silenzio esterno è prezioso. Come non solo i monaci e i mistici, ma anche l’“industriale” Adriano Olivetti diceva:

 

Il mondo moderno ha chiuso l’uomo negli uffici e nelle fabbriche, tra l’asfalto delle strade e il disordinato intrecciarsi delle macchine, come in una prigione ostile e assordante dalla quale bisogna, presto o tardi, evadere.

 

Lo diceva nel 1956. E ha cercato di intervenire a favore del silenzio in posti come Ivrea e in Valle d’Aosta. Noi che lo abbiamo qui, da secoli, permettiamo che sia distrutto.

Pratichiamo questo a Venezia, per tutti i luoghi abitati.

 

Il diritto al presente

Non c’è bisogno di molte spiegazioni per capire che la pratica del silenzio cambia anche il modo di stare nel tempo. A Venezia già lo spazio lo cambia, perché tutti i percorsi sono rallentati. Il silenzio invita ad ascoltare e conoscere meglio sia le linee di fuga dell’immaginazione, sia, al contrario, il presente.

 

Se per eternità intendiamo non una durata temporale infinita, ma assenza di tempo, allora vive eternamente chi vive nel presente (L. Wittgenstein, Tractatus, 6.4311).

 

Stare al presente non significa abbandonare la memoria o la speranza nel futuro. Al contrario. Il presente è il massimo della realtà e delle possibilità concrete. Nessuna situazione, se non al limite, è completamente condizionata. Stare al presente è anche capire le diverse possibilità di scelta. E noi ne abbiamo diverse. Accade, invece, che narrazioni sul futuro già impacchettate dalla propaganda, o racconti nutriti di pregiudizi, nascondano queste possibilità.

 

Il diritto alla grazia

Oggi si parla tanto, troppo di “creatività”. È un concetto su cui pesa un’enfasi eccessiva, anche pericolosamente strumentale, da parte della new economy, allo scopo di immettere tutti i giovani che

non hanno un lavoro in un orizzonte di precariato strutturale, a inventarsi qualcosa. Se non lo inventano, peggio per loro: sarà loro la colpa! Ma il presente apre vie diverse, e anche l’insistenza sulla creatività è ambivalente: segno di una trasformazione in cui possiamo scegliere e agire consapevolmente. Prendiamo la parola d’ordine per buona e intendiamola come possibilità di inventarci (invenio: una parola antica e più adatta di “creazione”, che significa che trovo qualcosa in quello che c’è) un altro modo di vivere.

 

L’invenzione nasce dall’ispirazione. I greci la chiamavano entusiasmo, cioè ingresso nella sfera di un dio. O anche “bello”. Io direi anche: “grazia”. Nella vita ci sono quasi sempre, anche se sparse, delle scintille di grazia. Faticano a trapassare la nebbia o non si fanno notare, si lasciano facilmente dimenticare se il pensiero è occupato a guardare avanti con la mente indietro: i cosiddetti “progetti” che nascono da abitudini indiscusse. Per spiegarmi meglio, invece che di grazia potrei parlare di amore: non solo per le persone ma anche per un posto, sia fatto da uomo o sia natura, che a un certo punto può apparirmi bello così com’è, non sento il bisogno di cambiarlo, o se vi faccio qualcosa è per rispondere meglio alla grazia che esso suggerisce. Questo suggerimento è gratuito e questa grazia non la posso impacchettare, esportare, vendere… È gratis.

Ogni “invenzione” nasce da un simile innamoramento di opere già esperite come grazia o/e materiali che suggeriscono un loro uso per nuova gioia. Esperiti da operai, muratori, falegnami, fabbri, costruttori e pittori, scultori e musicisti antichi e nuovi. Il lavoro fatto con gioia trattiene l’elemento sorgivo con amore, lo rivela come grazia e la passa ad altri.

La grazia può arrivare in un momento inatteso, ma la sua consapevolezza e la sua cura richiedono silenzio. Il diritto alla grazia va insieme con il diritto al silenzio. Esercitiamoli a Venezia come un luogo da cui possiamo farne esempio per tutti gli abitanti di altri luoghi (e impariamolo anche da altri luoghi).

 

Nostalgia come energia. Diritto a tornare

Spesso si sente parlare con sufficienza della nostalgia. Molti la considerano una debolezza. Si sbagliano. Omero ragionava meglio. La nostalgia, nella sua natura originaria, non è il secondo tempo, una reazione a un primo che ci sarebbe stato ma non c’è più, ma appartiene già al primo momento di una coscienza. La coscienza come memoria ricostruttiva è il secondo. Così mi piace interpretare queste parole di Caproni:

 

Sono tornato là 

dove non ero mai stato.

Nulla da come non fu, è mutato.

 

Che cosa sono un luogo, una casa, una città? Un posto dove tornare. Si torna dove si riposa e si era persa la coscienza nell’abbandono del sonno. Si ritorna dove non si è mai stati.

Ciascuno abita un posto che non ha fatto tutto da sé, dove non è sempre stato, ma che ha almeno una terra, un ambiente che c’era prima e accoglie – il fiume, il mare, il deserto, la prateria, il colle, la

montagna. Là c’è il genius loci che è anche la fonte di ogni energia, invenzione e tecnica.

Ciascuno nasce dove non è mai stato. Ci torna. Il momento luminoso della vita ha anche la luce scura di questo ritorno. La luce del futuro sorge dall’oscurità che protegge ogni abitare. In questa reciproca necessaria implicazione è il carattere terribile, visto dagli antichi, dell’esilio.

L’antichità di un abitare evoca già la possibilità del ritorno. Chi si trova bene in una città antica accende il suo spirito del fuoco del ritorno. Il turista ama la città vecchia perché è vecchia, più vecchia di ognuno che oggi viva e prima di ogni ricordo.

 

Ma quanto costa?

Abitare è tutto questo: vivere lo spazio, il silenzio e l’ascolto, la presenza, la grazia, ritornare.

Ma uno ci vuol presentare il conto e chiede: quanto costano? Venezia costa!

Sì, certo, ma con differenze. Il silenzio, ascoltare, il presente, la grazia come momento in cui l’animo si schiude, non hanno costi di produzione. Sono gratis. Lo spazio è gratis.

Ma no, si dirà: c’è la rendita! Non è così: se dico “spazio” non dico “rendita”. Il suolo è diventato “rendita” in un contesto di compravendita: rendita rispetto al profitto (calcolerò sempre il non-guadagno come perdita? Sono colpevole verso l’economia se non faccio reddito della mia casa?). Lo spazio viene molto prima del mercato.

Certo che camminare costa: le scarpe. E cosa costa un campo? La manutenzione della pavimentazione. Ma la conservazione dipende anzitutto da una cultura e da una tradizione i cui “costi di produzione”

sono incalcolabili, perché la costruzione di una forma di vita non è computabile in denaro. Allora la domanda è piuttosto: che cosa si perde quando si perdono lo spazio, il silenzio, il tempo, la grazia, il ritorno e tutta una forma di vita? Nessun calcolo economico può dire quanto si perde con un abitare privato di gioia, di invenzione e lavoro. Quello che la teoria e la pratica economica corrente non riescono a calcolare è però esperienza comune inconfutabile, quando ci si accorge che una società o una comunità vengono spogliate della loro energia.

 

Prima dei diritti

Ho usato provvisoriamente la parola “diritti”. Ho parlato di diritto alla grazia e ho prodotto un paradosso: so che non si può aver diritto a ciò che è gratuito e non è riproducibile a piacere. L’ho fatto consapevolmente, in un contesto di discussione politica che riconosce solo un argomento valido per resistere verso l’interesse economico: l’argomento dei diritti. Se per sostenere il “diritto” ad abitare

mancano le parole adeguate, la ragione è che abitare viene prima della legge e dei diritti. O meglio: viene prima della legge come la conosciamo oggi.

Il diritto che conosciamo nasce per impedire il torto, perciò viene dopo un torto avvenuto. È preventivo in quanto reattivo: c’è un fatto giudicato e una punizione. Questo diritto e il suo gesto punitivo si erigono fuori e sopra il torto e il colpevole, e questa estraneità e superiorità giustificano la punizione. Ma c’è una legge non scritta della grazia, che esige di realizzarsi nella gratitudine. Nel vigere di questa legge non c’è differenza fra l’azione e il suo effetto. Se causo una situazione priva di grazia, la mia vita diventa altrettanto ingrata. Per questa legge non vengo giudicato in tribunale, non pago ammenda. Non ci rimetto economicamente.

 

Nota bibliografica

L. Nono, Verso Prometeo, in Nono, a cura di E. Restagno, Torino, EDT, 1987.

L. Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti, Torino, Einaudi, 2014.

A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma di accumulazione, Roma, Carocci 2011; D. Goldoni, The economy of creativity and the inhabitant, in «Studi di Estetica», XLVIII, IV s., n. 17, febbraio 2020. 

G. Caproni Ritorno, in Id., L’opera in versi, Milano, Mondadori 1998.

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