Anne Berest, La cartolina

12 Luglio 2022

Non è mai stato compiuto uno studio psicologico sull'idiozia profonda che contagiò l'apparato amministrativo, economico e militare, le strutture burocratiche – dai piccoli comuni ai municipi delle grandi città, dalle stazioni di polizia ai tribunali – e che portò, dal 1933 al 1944, allo sterminio di oltre quindici milioni di persone, tra cui 6 milioni di ebrei, organizzato dal nazismo e dal fascismo. Si è cercato di spiegarlo prendendo a pretesto la follia, la crudeltà, il razzismo, l'odio, l'homo homini lupus e altre semplificazioni filosofiche. Manca un approfondimento sulla stupidità, che certamente si somma alle altre concause: quella degli impiegati, dei sindaci, delle così dette forze dell'ordine, dei vicini di casa delatori, degli ufficiali, dei kapò, di alcuni uomini di Stato.

"Ogni settimana Brians, il sindaco di Les Forges, deve mandare alla prefettura dell'Eure una lista che ha per titolo 'Ebrei esistenti oggi nel comune'. Quel giorno, con la sua bella calligrafia rotonda e la soddisfazione del lavoro ben fatto, il signor sindaco scrive: nessuno". Lo dice Anne Berest nel suo romanzo La cartolina (traduzione di Alberto Bracci Testasecca, e/o 2022), dove la stolida ottusità dei rispettabili assassini che svuotano un paese denunciando e condannando alla deportazione nei campi di sterminio gente per bene, risalta ancora di più poiché la storia che si racconta è quella di una famiglia ebrea colta, di un padre e di una madre coraggiosi, di tre figli studenti di liceo, che amano la musica, i libri, la natura.

Quando tutto sarà finito e l'hotel Lutetia a Parigi ospiterà i reduci da Auschwitz, Buchenwald, Dachau, saranno sempre gli utili idioti del potere, ex collaborazionisti del regime di Vichy a cercare di mascherarsi da deportati, nascondendosi vigliaccamente tra quelli veri, per cercare di sfuggire alle rappresaglie. La miseria umana, la meschinità, l'ignoranza, la mancanza di comprendonio di questa massa contagiata dalle folgoranti intelligenze di Hitler, di Mussolini, di Petain ha prodotto la più colossale impresa dell'idiozia umana, quella di chi si era ficcato nella sua testa vuota che attraverso le leggi, l'organizzazione e la tecnica si potevano eliminare intere specie (ebrei, rom, sinti, jenish, ma anche massoni, omosessuali, testimoni di Geova e Pentecostali, portatori di handicap) per avere finalmente una "razza" pura.

Fa perciò impressione che ancora oggi esistano epigoni di questi beoti, variamente strumentalizzati da politici che aizzano il loro razzismo dicendo sciocchezze, tipo l'emigrazione si ferma chiudendo i porti, prima gli italiani, dio patria e famiglia: come se il passato non avesse insegnato niente. Può sembrare irrispettoso dire che sia stata la stupidità a muovere questo genocidio, mai visto nella storia dell'umanità. Ma proprio leggendo la ricostruzione di Anne Berest, salta agli occhi questa disparità sconvolgente: da una parte famiglie ebree con saldi principi morali e religiosi, cultura, conoscenza del mondo, fiducia nel dialogo; dall'altra omuncoli squallidi, con una limitatezza delle facoltà intellettive acuita da vite provinciali, anche quando si svolgevano a Parigi.

Così una ragazza di diciannove anni che voleva diventare scrittrice viene mandata a morire in un campo di concentramento ("Noemie muore di tifo poche settimane dopo essere arrivata ad Auschwitz. Come Irène Némirovsky. La storia non dice se si siano conosciute"), suo fratello diciassettenne ucciso in un forno ("Vedo la faccia di Jacques, la sua testa bruna di adolescente sul pavimento della camera a gas. Poso le mie mani sui suoi occhi spalancati per chiuderli in questa pagina"). È enorme la sproporzione tra l'orrore compiuto e la leggerezza adoperata per compierlo. Com'è possibile che nessuno si sia ribellato? si chiede Bruno Bettelheim nel suo magnifico libro Il prezzo della vita.

Com'è possibile che sei milioni di persone si siano avviate al martirio senza opporre resistenza? Alcuni studi, per esempio un saggio di Marcella Ravenna sulla Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia (gennaio 2013) intendono confutare la rappresentazione stereotipata degli ebrei "come pecore al macello", prendendo in esame le reazioni psicologiche di chi si trova in una situazione di pericolo: cercare di attenuarlo, paralizzarsi, sottomettersi, fuggire. 

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Ci pensa Quentin Tarantino a farci sentire almeno idealmente vendicati di questa idiozia criminale: in Bastardi senza gloria, il regista americano rappresenta i nazisti come una manica di imbecilli. E in Dijango i razzisti non fanno una figura migliore. Ephraim, il capofamiglia, il padre di Noemie e di Jacques, si rifiuta di credere che faranno del male ai suoi figli. Collabora fiducioso con il sindaco di Les Forges, che non vede l'ora di scrivere "nessuno" sulla lista di ebrei presenti nel suo piccolo paese. Quando verranno ad arrestare anche lui, la moglie farà la valigia, prenderanno tutti i soldi che hanno, nell'attesa di ricongiungersi. Finiranno nelle camere a gas.

È l'intelligenza umana che non si può capacitare dell'ottusità delle "brave" persone, che non può riconoscerla né accettarla nella sua mostruosità e quindi ne diventa vittima. Lo dice anche Sandra Bonsanti, nel suo Stanotte dormirai nel letto del re (Archinto, 2020): gli ebrei italiani avevano donato il loro oro al re, si sentivano italiani, erano patrioti. Non riuscivano a credere che le leggi razziali di Mussolini e di Vittorio Emanuele III li riguardassero. Proprio come la famiglia Rabinovitch, emigrata dalla Russia in Lettonia, poi in Palestina e alla fine a Parigi: si sentivano francesi, non erano nemmeno ebrei praticanti. Il romanzo di Anne Berest comincia con una cartolina, spedita da un anonimo a Lèlia, figlia di Myriam, la sorella di Noemie e di Jacques, unica sopravvissuta della famiglia.

La riceve nel Natale del 2003: sopra ci sono scritti solo quattro nomi, Ephraim, Emma, Noemie e Jacques ossia i nonni e gli zii di Lèlia, morti ad Auschwitz. Anne, figlia di Lèlia vuole sapere chi l'ha spedita. È l'inizio di un'indagine a ritroso nel tempo che la porterà a ricostruire la storia della sua famiglia. L'autrice la conduce con l'aiuto della madre, esplorando tutte le ipotesi. Si fa aiutare da un investigatore privato e da un criminologo, fa analizzare la grafia e i pochi elementi che il messaggio anonimo mette a disposizione, interroga gli abitanti del villaggio in cui i Rabinovitch furono arrestati e mette in atto ogni mezzo per rintracciare il misterioso mittente. Dopo quattro anni di ricerca, riesce, inaspettatamente, a identificare l'autore. Il libro è sapientemente condotto come se fosse un giallo, catturando l'interesse del lettore e non mollandolo mai, tra l'ostinazione di Anne e la riluttanza della madre a seguirla in una ricerca che fa emergere un passato che vorrebbe dimenticare.

Un libro che contiene molte vite, che si interroga sul significato della parola "ebreo", ancora oggi fonte di discriminazioni ("Quelli della tua famiglia sono morti in un forno", dicono i compagni di scuola ad Anne bambina, nei primi anni '80). La cartolina tiene viva la memoria sulla Shoah, come si deve continuare a fare, per le nuove generazioni, che devono sapere.

Il romanzo di Anne Berest è stato meritatamente premiato e, curiosamente, oggetto di una polemica, alla sua uscita in Francia, un anno fa: una critica di Le Monde (una scrittrice con il sopracciglio alzato) lo ha stroncato, infastidita da un'idea di letteratura che, secondo lei, in questo romanzo sarebbe ridotta al solo "contenuto", a scapito della letteratura stessa, cioè dello stile, che sempre deve avere a che fare con l'etica, ancor più quando si parla di un argomento intimidatorio come la Shoah (maliziosamente Les Inrockutibles ha fatto notare che la stroncatura uscì dopo che il romanzo di Anne Berest era stato selezionato per il prestigioso Premio Goncourt, al quale concorreva, guarda caso, un altro romanzo sulla Shoah, quello scritto dal fidanzato della critica di Le Monde).

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TAGGED: Anne Berest , shoa , nazismo