A Edimburgo con Irvine Welsh
Da ragazzi non si partiva per il Marocco senza mettere nello zaino una copia di Le voci di Marrakech di Elias Canetti. E, prima di andare a New York, era utile leggere Il Grande Gatsby anche se ambientato più che altro a Long Island o, più tardi, Le mille luci di New York di McInerney. Arbasino suggeriva di affidarsi a Bret Easton Ellis e a Meno di zero per scoprire i posti da non perdere a Los Angeles. Nel suo America Amore nemmeno lui resiste al tic che ci perseguita quando andiamo all'estero: quello di fare confronti con l'Italia. Lo aveva fatto anche Bernard Berenson, il grande critico d'arte, che paragonò i grattacieli di Manhattan alle torri di San Gimignano, fornendo un alibi a Borgese che lo citò nell'Atlante americano e a Emilio Cecchi che se ne servì in America amara. Per Arbasino la sede del Monitor a Boston "è la cattedrale di Torcello" e il municipio di Beverly Hills ha dentro una biblioteca "uguale al cinema Odeon di Milano", ma gli scrittori americani sono molto diversi da quelli italiani, scrive, pensando a Kerouac e agli altri della beat generation e facendoci molto ridere: "Cerco di immaginare delle analogie: per esempio, io con Sanguineti oppure con Testori, che andiamo a trovare Ottieri oppure La Capria, e lì invece di parlare del Gruppo 63 ci tiriamo dei pugni per giocare, e a un tratto giù i calzoni, e poi fuori le bottiglie, e a giocare a dadi fino all'alba con Parise".
Avevamo capito subito che era meglio leggere le impressioni di un romanziere invece che affidarsi alle solite guide per turisti, quando si partiva per qualche luogo sconosciuto: nessuno come uno scrittore può farti venire la voglia che Ruskin fece venire a Proust di visitare Venezia o contribuire a demolire un mito, quando lo guarda troppo da vicino. L'editore Giulio Perrone ha intercettato questo desiderio e ha ideato, ormai dodici anni fa, una collana di scrittori che raccontano le città. L'ha chiamata "Passaggi di dogana" e viene voglia di possedere tutti quei volumetti dalla grafica elegante a colori vivaci, con il richiamo di Parigi, Berlino, Londra, Stoccolma ma anche Milano, Napoli, Venezia, Trieste, per allinearli nella nostra biblioteca e leggerli alla bisogna, prima di imbarcarci su un aereo o di prendere un treno.
Mariana Starke, poetessa e drammaturga inglese, che pubblicava dallo stesso editore di Jane Austen e Lord Byron, scrisse nel 1802 Travel in Italy between the years 1792 and 1798, una specie di guida antesignana della digitale Trivago perché la Starke usava raccomandare la visita di chiese, ville, alberghi e musei mettendo accanto alla descrizione da uno a cinque punti esclamativi, oggi rimpiazzati dalle stellette. Erano sempre scrittori quelli a cui gli editori si affidavano per redigere le guide: dai Murray Handbooks inglesi ai tedeschi Baedeker fino agli italiani del Touring Club la storia delle guide ci parla di prodotti pensati per una borghesia abituata a viaggiare, sempre infarciti di riferimenti letterari, a volte terribilmente politically incorrect, prima che, nella seconda metà del secolo scorso, con l'avvento del turismo di massa, le guide cominciassero a specializzarsi ed ecco quelle per gli amanti della musica, le gastronomiche, quelle Europe on 5 $ a day, per i giovani con la tessera Inter Rail, le Spartacus per gli LGTBQ+, le Lonely Planet che ebbero subito successo perché prodighe di consigli tipo: "in Afghanistan potete sballarvi semplicemente respirando profondamente quando camminate per strada" (i fondatori, Tony e Maureen Wheeler, la idearono poco più che ventenni, dopo un viaggio della vita lungo le rotte hippy dall'Europa all'America, all'Asia, all'Australia). Il romantico progetto di Giulio Perrone è nel solco di questa nobile tradizione ma la aggiorna, rivolgendosi ai nuovi viaggiatori indipendenti, in controtendenza con le fissazioni contemporanee di googlare per qualsiasi cosa. Tra gli scrittori arruolati uno degli ultimi è Andrea Pomella, autore di A Edimburgo con Irvine Welsh (2023).
Scrivere su uno scrittore che scrive di uno scrittore provoca un vertiginoso effetto matrioska, nello scandaglio dell'identità di chi scrive per come emerge dalla sua lettura dell'autore di cui parla. Alla fine del libro, si ha voglia di partire per Edimburgo e, per chi non lo conosce, saperne di più di Irvine Welsh, che quella città raccontò (è nato nel 1958 a Leith, la zona portuale) in Trainspotting, incentrato sulle vicissitudini di un gruppo di tossicodipendenti alla fine degli anni ottanta, e anche di Andrea Pomella.
Pomella, anche lui narratore, ci avverte all'inizio che detesta le "tradizionali guide di viaggio" e, nell'accingersi a scrivere di Edimburgo e di Welsh, sa che avrà a che fare con qualcosa di molto intimo, con la sua giovinezza, "con la disfatta che significava essere dei ventenni all'inizio degli anni Novanta". Se guarda a una guida che abbia contato qualcosa nella sua vita quella è Kerouac ("Ecco, era Kerouac la mia guida di viaggio"), uno "aggiornato e lucido", che "sapeva parlare di tutto", era lui il suo "malinconico eroe letterario" perché aveva già i suoi "tossici del cuore" – prima di conoscere Welsh – "ma abitavano oltreoceano, tra il Greenwich Village e San Francisco".
Come uno snob che non accetterebbe mai di far parte di un club che lo ammettesse tra i suoi iscritti, Pomella confessa che "bastava che qualcosa somigliasse di striscio alla mia vita, perché non la ritenessi degna di essere raccontata". Aveva ventidue anni quando mise piede "la prima e unica volta a Edimburgo", un ferragosto, approfittandone per seguire un festival di cui aveva sentito parlare nel treno che lo portava lì da Londra. Oggi, una strana legge del contrappasso lo vede impegnato a raccontare Welsh, diventato nel frattempo come Kerouac, "un polveroso mito", come se fosse un atto riparatorio, per aver scoperto troppo tardi lo scrittore di Trainspotting, il romanzo uscito due anni prima di quell'agosto del 1995, ed essersi così perso "le scudisciate iniziali del ciclone Welsh". A Edimburgo con Irvine Welsh è bello anche per quello che Pomella ci rivela di sé, mentre affronta il personaggio che gli è stato assegnato.
Dice per esempio che scrivere di qualcosa significa sempre raggirare se stessi "convincersi che quella realtà è schiusa perfettamente davanti ai nostri occhi, come una mela spaccata in quattro". Ma quanto ne sa, Pomella, di Edimburgo? e di Irvine Welsh? Quanto gli interessa, alla fine, il "tedioso edonismo del tossico", quando Welsh lo vuole convincere che è invece la società borghese e materialista ad essere insopportabile, che l'esistenza è solo dolore e "per sopportare l'una e l'altra c'è un unico modo": drogarsi? Bisogna leggere tutto a vent'anni, arrischia Pomella, "e mettersi magari a vivere qualche vita in più, perché il senso generale della vita, che a quell'età si ricava dai libri, dopo non lo si ritrova". Trainspotting è uno splendido caso letterario in cui tra storia e voce narrante c'è un equilibrio perfetto – dice Pomella – e dove tutto è distorto dalla droga, a partire proprio dalla lingua in cui è scritto, fino alla resa dell'immagine stessa di Edimburgo. "La Edimburgo di Irvine Welsh è come la Parigi dei surrealisti, inquadrata dagli sguardi deformanti di Breton, Dalì e Tzara, non è la città zuccherina che attrae sciami di turisti, è più una grigia allucinazione, un incubo grottesco".
Racconta Pomella che quell'unica volta che visitò Edimburgo teneva un taccuino di viaggio e leggerlo oggi gli fa uno strano effetto, si vede come un giovane "smanioso di vita" che sciorinava i fatti del giorno "come fosse un novello Rimbaud". Il confronto con l'Italia arriva con Amore tossico (1983) di Claudio Caligari, interpretato da attori non professionisti con un passato di vera tossicodipendenza, un film ambientato a Ostia ("Ostia è come Leith", due periferie) che non risparmiava niente del sordido corollario del minimalismo dei drogati: il cucchiaino, l'accendino, la siringa, la dose, i gesti rallentati, le vene, il buco, i lividi. In confronto al realismo del quale, l'ideologia che trasuda dal capitolo di Trainspotting "Lust of Life", ("Scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia, scegliete un maxitelevisore del cazzo, scegliete lavatrici, macchine, lettori cd e apriscatole elettrici. Scegliete la buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita, scegliete un mutuo a interessi fissi, scegliete una prima casa, scegliete gli amici, scegliete una moda casual e le valigie in tinta, scegliete un salotto di tre pezzi a rate e ricopritelo con una stoffa del cazzo, scegliete il fai da te e chiedetevi chi siete la domenica mattina...") sembra una furbata, un compromesso tra la realtà dei tossici e i codici dominanti della comunicazione di massa.
Pomella lo fa dire a Caligari che Trainspotting – che fu anche un film di successo diretto da Danny Boyle – è "conformista". Per sé, si riserva un ultimo, schizzato capitolo in cui immagina di incontrare il protagonista Mark Renton a Roma e in cui declama come un atto liberatorio quella litania, per prenderne in qualche modo le distanze: "Scegliete la vita. Scegliete un lavoro. Scegliete una carriera. Scegliete la famiglia. SCEGLIETE UN MAXITELEVISORE DEL CAZZO..." e si mette a ridere forte: "Io rido, cazzo se rido, non ce n'è per nessuno".