Paul Auster e il Grande Nulla

1 Febbraio 2024

Tre pagine contengono il senso delle centocinquantatré di Baumgartner di Paul Auster (traduzione di Cristiana Mennella, Einaudi 2023): quelle paurose in cui un telefono disattivato si mette a squillare nel silenzio della notte: "Il telefono rosso. Il telefono staccato che non può squillare ma che comunque ha squillato e continua a squillare". All'altro capo, quando Baumgartner alza la cornetta, c'è Anna, la moglie morta, che "gli parla con la stessa voce sonora che aveva da viva, gli si rivolge chiamandolo caro e mio caro, spiegandogli che la morte non è come l'ha sempre immaginata chiunque, che loro due e tutti gli altri materialisti sbagliavano a credere che non esiste un aldilà, ma che sbagliavano anche i cristiani, gli ebrei, i musulmani, gli indù, i buddisti e tutti gli altri con i loro aldilà". Il Grande Nulla nel quale si entra dopo la morte è incomprensibile, un paradossale stato di percezione nella non-esistenza "che prima o poi dovrà finire, secondo lei, ma finché lui sarà vivo e ancora in grado di pensarla, continuerà a risvegliarle la coscienza con i suoi pensieri, tanto che a volte lei riesce perfino a entrare nella sua testa e a udire quei pensieri e a vedere attraverso i suoi occhi quello che sta vedendo lui". Sy Baumgartner, il professore dell'Università di Princeton, "rinomato autore di nove libri e numerosi altri testi di argomento filosofico, estetico e politico, anziano fenomenologo che ha passato la vita nel regno del concreto, viaggiatore solitario che arranca immerso fino alle ginocchia nelle profonde paludi ontologiche della percezione umana" affronta il dolore e la morte e, in questa sequenza bergmaniana, dove lo spirito della moglie lo scuote da quello stato ipnagogico "che trasforma la mente in un circo a tre piste di strane allucinazioni", ritrova l'enigma insolubile mente-corpo sul quale stava indagando per il suo studio sulla "sindrome dell'arto fantasma".

Tutto era iniziato con la telefonata della piccola Rosita, la figlia della sua domestica, che lo aveva chiamato per dirgli che suo padre si era tranciato due dita della mano destra in un incidente sul lavoro. Nei casi di amputazione, quasi tutte le persone che perdono un braccio o una gamba hanno per anni la sensazione che l'arto mancante continui ad essere attaccato al corpo, spesso percependo dolore, prurito, contrazioni. Baumgartner vede negli aspetti neurologici di questa sindrome una precisa metafora della sofferenza e della perdita. Senza sua moglie, annegata in mare in un pomeriggio d'agosto, lui è come se non avesse più gli arti e adesso "è un moncone umano, un mezzo uomo che ha perso quella metà di sé stesso che lo rendeva intero". Dobbiamo smetterla – scriveva C.S.Lewis, l'autore del Diario di un dolore, che questo romanzo di Paul Auster richiama immediatamente alla memoria – di considerare la morte o le cose spiacevoli e inaspettate come interruzioni della vita reale, perché sono esse stesse la vita. A Baumgartner serve un buon quarto del libro per mettere a fuoco questo dettaglio: con Anna era morta una parte di lui, dopo un matrimonio durato quasi quarant'anni. Ogni piccolo episodio quotidiano gli fa venire in mente lei: si scotta la mano afferrando un pentolino lasciato per sbaglio sul fornello acceso e immediatamente ricorda di averlo comprato in un negozio di stoviglie usate, in Amsterdam Avenue a New York dove, studente spiantato, l'aveva vista per la prima volta. 

Il romanzo inizia che Anna è deceduta da dieci anni, il periodo lungo in cui lui ha "ricominciato a camminare" ma, emotivamente, ne sente ancora la presenza: è stato separato da qualcosa di essenziale e l'arto mancante continua a fargli male, anche se non c'è più. Scende perciò a rispondere al telefono che squilla nella notte, nello studio della moglie che lui esige sia sempre pulito e perfettamente in ordine, anche se sa che non potrà più sentire il ticchettio della macchina da scrivere di Anna, e che quel telefono non può suonare, perché i fili sono stati tagliati da anni. Elisabeth Kubler-Ross (1926-2004), la psichiatra svizzera considerata la fondatrice della psicotanatologia e esponente di rilievo dei "death studies", definisce un modello in cinque fasi per comprendere le dinamiche mentali nelle persone cui è diagnosticata una malattia terminale, ritenute valide anche per quelle impegnate nell'elaborazione di un lutto: si passa dallo shock e dalla negazione, alla rabbia, al patteggiamento, per poi attraversare la depressione e giungere all'accettazione finale. Baumgartner le attraversa tutte e, se pasticcia proponendo a Judith, una sua amica-collega, di sposarlo, questo non significa che abbia smesso di pensare ad Anna: la sua vita sarà un continuo avanti-indietro, un mollare per poi tornare in contatto con il dolore, quello acuto e inspiegabile della parte fantasma, la parte amputata, che continua a bruciare. 

Compiuti i settant'anni, Sy Baumgartner deve fare i conti con la sua morte e immaginare il futuro per il (poco) tempo che gli resta da vivere. Nel romanzo dipana i suoi pensieri, perennemente interrotti da divagazioni, catturando il lettore per il modo in cui li assembla sulla pagina, quando si perdono nella memoria tutta rivolta al passato tipica delle persone anziane, incapaci di ricordare per quale ragione e a far cosa sono appena entrate in una stanza; come lui, sbadato, che dimentica la cerniera dei pantaloni abbassata uscendo dal bagno; oppure che piega e ripiega compulsivamente gli indumenti della moglie defunta. 

Le prime pagine di Baumgartner – una sit com frenetica – cesellano un testo che fa il verso ai minimalisti, anche se quella corrente anni '80 non ha mai reclutato Paul Auster tra i suoi adepti, nemmeno quello di The New York Trilogy (1985; i primi romanzi di David Leavitt e di Jay McInerney, più giovani di Auster di una decina d'anni, sono del 1984), influenzato dalle storie che sbocciano e che diventano una storia sola, tra detective che si chiamano Auster (come la madre di Baumgartner in questo romanzo: continua la rifrazione familiare tra personaggio e autore) e quella lente d'ingrandimento su descrizioni minuziose di piccoli fatti quotidiani mossi da coincidenze, intoppi, con i protagonisti indirizzati dal caso verso una ricerca interiore che non si conclude mai ma si ridefinisce all'infinito. 

La visione casuale – e parallela alla lettura del libro di Auster – di un grande classico, Il posto delle fragole (1957), che Ingmar Bergman scrisse durante alcuni mesi di ricovero in ospedale, mi suggerisce la similitudine tra i due professori protagonisti del romanzo e del film. Al cinema, il regista allora quasi quarantenne, si identifica nell'anziano docente Isak Borg che, alla fine della sua carriera, si reca a ritirare un premio e si trova a fare un bilancio della sua vita: è un film impietoso sulla memoria e sul tempo, come Baumgartner, una sorta di viaggio nel passato che continua a riempire l'esistenza del vecchio professore: "In verità abito sempre nel mio sogno e, di tanto in tanto, faccio una visita alla realtà" avrebbe potuto far dire Paul Auster a Baumgartner (ma è Ingmar Bergman che lo fa dire a Isak Borg, nel film. Lo scrittore americano ha invece fatto sua la poetica di Bergman: "Quando si arriva a cinquant'anni si è circondati dai fantasmi. Vivono dentro di noi, passiamo un sacco di tempo a parlare con loro". Lo aveva già detto in Diario d'inverno, che scrisse a 64 anni, un monologo dove il protagonista, ancora una volta, era lui e il suo dolore). 

La moglie di Paul Auster, la scrittrice Siri Hustvedt, ha rivelato che il marito ha scritto Baumgartner dopo che gli era stato diagnosticato un cancro: ci si chiede che libro ne sarebbe uscito se Auster avesse avuto il tempo o la pazienza di sciogliere i molti intrecci, che restano densi e aggrumati in alcuni punti, se l'urgenza di concluderlo non gli avesse imposto di procedere per accumulo, invece di abbandonarsi alla trama e svolgere il romanzo intero con la stessa, irresistibile perfezione del primo capitolo. Baumgartner sarà il suo ultimo libro – così ha comunicato Paul Auster – e lo accogliamo con gratitudine, lo comprendiamo, nello sforzo dell'autore di liberarsi dei ricordi: l'unica possibilità di disfarsi – finalmente senza dolore – di se stesso, per continuare a vivere.

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