Bayo Akomolafe: ripensare l’Antropocene

10 Febbraio 2023

Ricordate “Crossroads, crossroads” caposaldo del blues, registrata da Robert Johnson nel 1936? È diventata un classico del rock quando Eric Clapton l’ha ripresa con i Cream nel 1968, evocando un’eredità diasporica e un sentire sempre più urgente che compensava le idealizzazioni della “Summer of Love”. La cultura pop ha poi creato la leggenda secondo cui Robert Johnson una notte si era fermato a lungo a un crocevia nel Delta del Mississippi a dialogare con una diabolica apparizione. Con la quale Robert avrebbe stretto un patto faustiano chiedendo di diventare il più grande bluesman di tutti I tempi. La canzone, tuttavia, non dice nulla di tutto questo, implora solo aiuto. 

Certo, la narrazione dei missionari bianchi che avevano trasformato il dio dei crocevia in “diavolo” era stata rivendicata dallo stesso Johnson che alimentò quella leggenda scrivendo un “me and the Devil blues”. Le radici di questo malinteso nascono in buona parte dall’etnocentrismo missionario che di fronte all’apparente ambivalenza trickster di Eshu, dio dei crocevia della tradizione Yoruba, lo aveva assimilato al diavolo. 

I crocevia sono invece un topos cruciale negli studi della resistenza culturale africana, che nelle molteplici sponde di approdo della tratta hanno intrecciato gli Orisha della tradizione riadattandoli e celebrandoli nei diversi contesti della diaspora. Di fatto il dio ben poco manicheo della tradizione Yoruba era un intermediario tra i mondi, un messaggero generativo, un dio dell’orientamento nell’imprevedibile, propenso ad aprire i portali del divenire con burle, dispetti e azioni paradossali a disconferma dello status quo e delle chiusure identitarie.

Eshu (detto anche Esu, Exú, Elegua o Elegba) è stato una delle divinità cruciali di tutti i culti sincretici che nacquero nella diaspora africana, dalla santeria al candomblé. Venne sovente celebrato nelle vesti di Sant'Antonio o San Michele. Come dio fallico e generativo ha molte analogie con Hermes itifallico, che pure era un dio dei crocevia come testimoniano ancora le Erme di epoca romana.  

Basta leggere quanto scrive Roger Bastide, l’antropologo che ha studiato i culti afro-brasiliani, quando ci racconta le libagioni rituali della schiavitù diasporica ai crocevia delle città. 

Il crocevia e il ruolo generativo del trickster Eshu sono la materia mitica nel bricolage del filosofo, psicologo e poeta nigeriano Bayo Akomolafe. La libagione, ci dice, è una celebrazione del possibile nell’imprevedibile ma è anche un rituale propiziatorio nella consapevolezza delle sue ombre, una celebrazione aperta del divenire e della metamorfosi. Il seme di una visione politica metabolica.

Bayo Akomolafe è uno dei giovani pensatori emergenti di una nuova generazione transnazionale. È forse un segno dei tempi di questa nostra tarda modernità che chi sente parlare di Akomolafe – prima di averlo ascoltato o prima di averlo letto – potrebbe ancora dire: “potrà mai qualcosa di filosoficamente contemporaneo venire dalla Nigeria?” Parafrasando inconsapevolmente il buon Natanaele del Vangelo. 

Akomolafe vive in India con sua moglie, una figlia e un figlio. La ricchezza dei suoi spunti lo porta a tenere lezioni magistrali nelle università di mezzo mondo (compreso a Berkeley dove è attualmente “provocatore in residenza”). Trova il modo di parafrasare il Bruno Latour di Non siamo mai stati moderni scrivendo che “Non siamo mai stati umani” perché lo stesso concetto di umano nasce e si consolida come paradigma di separazione, distinzione e costruzione del non umano. 

Associa la passione per l’ecologia politica di Latour, Haraway e altri con il trans-femminismo di Karen Barad (che è sua amica e mentore) e intreccia il neo materialismo con il pensiero decoloniale di Mbembe e Glissant e con le intuizioni di quella tradizione Yoruba che è sopravvissuta alla schiavitù da tratta ibridandosi nelle Americhe e generando mille istanze di ethos resistente. In Italia uscirà ad aprile, per i tipi di Exòrma, la traduzione del suo libro Queste terre selvagge di là dagli steccati.

Akomolafe sottolinea che se ci toccherà diventare respons-abili in questi tempi critici, dovremo attivare una competenza balbettante, il genere di maestria che rallenta e ascolta, capace di sostare in altre forme del sapere, diventando sufficientemente animali (etica ed etologia hanno la stessa radice) per restare sensualmente presenti e percettivi rispetto a possibilità di cui la superficie non sa nulla. E ci ricorda che lo stesso concetto di Sé è generalmente limitato alla psiche individuale, senza considerare la molteplicità di intrecci che la co-sostituiscono.

Stiamo gradualmente iniziando a capire che le cose che chiamiamo intoppi sono inviti a mutar forma, (...) Nemici, vicoli ciechi, memorie ribollenti, feticci nodosi, credenze ossessive, spettri ululanti, bobo neri scontrosi, schegge impazzite, nuvole minacciose, giganti verdi, buchi spalancati, foreste che ghignano. La sfida non è quella di "attraversarli" e uscire indenni dall'altra parte. (…) È per questo che noi africani offriamo libagioni. Non solo per ricordare le gioie di una stabilità di origine ancestrale, ma per onorare il dono di una crisi, nel momento in cui la bevanda tocca terra e solleva polvere, come a turbare il terreno stesso su cui poggiamo, ai piedi di un a-venire impensato e non ancora immaginato. 

Akomolafe parla di Afrocene come di un ritorno radicale all’immanenza, come una dimensione del “passato a venire” che ha radici profonde nell’esperienza primaria dell’umanità e del vivente. E forse davvero questo suo concetto di Afrocene è la miglior risposta ai guai dell’Antropocene e anche ai parametri con cui il mercato si propone di sanarli, parametri che non problematizzano la “postura” stessa che ci definisce come specie separata ed escludente.

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L’Antropocene è un concetto problematico innanzi tutto perché presume che ci sia un “noi” stabile alla base di tutto. Da questa prospettiva saremmo tutti nei guai, tutti responsabili. Gli umani sarebbero dunque il motore dei cambiamenti climatici. E tuttavia tutto ciò non entra nel merito di che cosa sia l’umano. L’umano è una categoria politica a cui non tutti storicamente hanno avuto accesso. Presumere che l’umano sia una cosa, un fait accompli, qualcosa di già dato una volta per tutte e con cui tenere il passo come qualcosa di oggettivo, significa mettersi nei guai. L’umano non può essere definito così nettamente. In un mondo animista quando si cominciano a vedere le cose in termini di relazioni, contaminazioni e linee di fuga, invece che di punti dissociati da altri punti, come accade nella modernità, quando cioè si cominciano a vedere che le cose che si snodano e sconfinano… ci si comincia a render conto che l’umano non è mai stato una cosa precisa. Che l’umano non è un corpo, una specie, che l’umano è una postura. In un certo senso è la postura a costituire la specie, non il corpo a cui la postura appartiene. (…) L’Afrocene è una storia che dice che i limiti e i margini sono spazi straordinariamente generativi e creativi. Qui sta la differenza. L’Antropocene dice. “Ahi! moriremo!” L’Antropocene africano dice “Moriremo prima noi!” Mentre l’Afrocene dice: “Morire non è poi così tragico!” Un sacco di cose che chiamiamo morte hanno a che fare con il modo in cui i corpi sconfinano. C’è un’intelligenza che nasce da ciò che perdiamo, c’è un’intelligenza che si genera sedendosi accanto ai mostri. C’è un’intelligenza che troviamo quando ci smarriamo. E così l’Afrocene mette al lavoro le cosmologie africane Yoruba che non sono soluzioni-centriche e nemmeno antropocentriche... È un invito a smarrirci insieme e credo non vi sia modo migliore di perderci se non iniziando a riconoscere che viviamo in un universo che gioca e che questo universo che gioca è pieno di errori di pronuncia, pieno di sperimentazioni e pieno di fallimenti.

Nel pensiero di Akomolafe la relazionalità contingente della fisica quantistica si intreccia con il mito della nascita di Eshu perché mentre gli altri Orisha nascono dai frammenti del cranio di Oludumare – il dio creatore – Eshu è l’unico dio a nascere dal vuoto che si crea tra i frammenti quando il cranio si spacca. Un mito filosofico che ci ricorda la visione di Epicuro di un intramondo, spazio vuoto tra gli infiniti mondi.

Il dio trickster che scombina carte e agisce da mediatore per vie inaspettate diventa nell’animismo di Akomolafe il rappresentante di tutte le agentività e potenzialità umane e non umane (o più che umane) che disconfermano il progetto di terraforming che il neoliberismo ci propone nel tentativo di tenere in piedi il suo progetto di “accumulo e progresso”. Persino i migliori miti democratici e progressisti risuonano oggi retorici e precari – e ci dicono invece che la casa della modernità è piena di crepe. Non può reggere a lungo il miraggio della costruzione di tecnosfere del “benessere” per i salvi delle appartenenze nazionali (come unica modulazione del bene comune) alle spese di miliardi di sommersi. Danni collaterali dell’idea stessa di una elitaria salvezza in un mondo diviso ma interconnesso.

E questo mi riporta a Walter Benjamin, alla sua famosa IX tesi di filosofia della storia là dove evoca l’angelo di Klee, interpretato come angelo della storia umana ma del tutto incapace di fermarsi a riparare le rovine che si accumulano costantemente ai suoi piedi. Le sue ali sono catturate e sospinte dal vento di alti ideali trascendenti che lo trascinano verso un immaginario sol dell’avvenire. Per Benjamin solo il Messia “debole” delle piccole cose, entrando dalla impercettibile “porta di ogni istante”, può farsi postura d’arresto, motore paradossale di quella dialettica immobile che, riconnettendoci alle costellazioni ereditate, mette in sospensione la loro ripetitiva distruttività. Questa prospettiva risponde tuttora a un desiderio emergente di pensieri e pratiche “metaboliche” che ripensano la politica nell’intreccio costitutivo di molte forze, comprese quelle della Terra, non più considerata oggetto separato di “cose” inanimate da cui estrarre ricchezza. 

Lo sguardo di Akomolafe sulla crisi contemporanea con le sue molteplici fratture si ricollega allora all’immagine di Benjamin dicendoci che è il mondo stesso, la sua imprevedibile confusiva, promiscua agentività a fermarci, a sconfermare l’hubris umana che immagina ancora di gestire e risolvere la crisi ecologica con le metriche lineari della modernità. 

Akomolafe ci propone un ritorno radicale all’immanenza che non sconfermi le conquiste cognitive umane ma recuperi le radici desideranti e sensoriali profonde di un rapporto con le cose. Questa sarebbe la miglior risposta all’Antropocene perché 

Le nostre mappe, per quanto dettagliate e puntigliose, verranno sempre sabotate dal territorio; il mondo ha un suo genio, i suoi avvallamenti e i suoi frattali, nonnulla appena mormorati e fragorose bestemmie. Il mondo è più ampio di ogni trama, più complesso di ogni conclusione, più sul pezzo di un giusto castigo, più nobile del pensiero antropocentrico, e più ricco di un approdo. In breve, non siamo noi a fabbricare da soli il mondo, anche il mondo fabbrica noi. Forse anche il mondo vuole rendere noi un posto migliore. Capirlo non significa trovare finalmente la pace, o l’illuminazione, o tornare a casa... significa continuare a sperimentare, a teorizzare, a toccare la vescicola sempre nuova del nostro divenire. 

La sfida è di permettere che gli sguardi con cui guardiamo si rivelino per quello che sono: modi di vedere. E di trasformare le dimensioni paranoicamente difensive e assolutizzanti del nostro sguardo in nuove posturali trame di relazione e pluralità rifiutando la tentazione di ridurre il discorso sull’immanenza al “politicamente corretto” di un nuovo culto soluzionista. 

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