Bill Master

3 Novembre 2014

L’eroe è morto, lunga vita all’eroe. A passare in rassegna la galleria dei più riusciti protagonisti delle serie americane contemporanee si fa la conoscenza di personaggi complessi e oscuri, attraversati da molte ombre e inquietudini, disposti a scendere a compromessi con il Male, a non farsi scrupoli, a cavalcare fino in fondo tutte le proprie pulsioni autodistruttive. Stiamo vivendo il trionfo dell’antieroe seriale: soggetti poco raccomandabili, con cui non vorremmo certo avere a che fare nella vita reale, con i quali tuttavia stabiliamo una profonda sintonia televisiva.

 

Vince Gilligan, il creatore di Breaking Bad, la serie che è diventata un vero e proprio manifesto della scrittura di un antieroe, ha spiegato al «New York Magazine»: «I gusti di visione sono ciclici. Fra cinque anni forse ci chiederemo “ti ricordi quando a tutti piacevano gli antieroi?”. Per molti decenni, invece, i cattivi in tv dovevano sempre essere puniti, e i buoni dovevano essere coraggiosi, sinceri e senza conflitti interiori. Queste erano le regole del gioco (e del mercato). Ma i gusti delle persone sono volubili e ora chi produce una serie può permettersi più sfaccettature rispetto a un tempo, perché il pubblico ormai è pronto a seguirti».

 

Masters of Sex, prodotta dal canale via cavo Showtime (la “casa” di Dexter, Californication, Weeds, Homeland, Ray Donovan, solo per citare alcuni dei suoi prodotti di punta), è stata una delle serie più interessanti e discusse delle ultime stagioni televisive. Per il suo tema, certamente, ma anche per il dibattito nato intorno alla costruzione del suo personaggio principale, Bill Master, l’ultimo degli antieroi televisivi.

Masters of Sex è un period drama ambientato nella St. Louis degli anni Cinquanta, ispirato alla storia vera di William Master e Virginia Johnson, i primi ricercatori a compiere uno studio empirico esteso e scientifico sulle reazioni fisiologiche del corpo umano durante il sesso.

 

 

 

 

La serie, subito acclamata come “il nuovo Mad Men” (anche se, a uno sguardo più attento, le affinità con la saga dei pubblicitari anni ‘60 si misurano solo sul comune ritratto cristallino di un’epoca), si basa tutta su un gioco di opposizioni: tra istinto e ragione, apertura e chiusura, freddezza e calore. Opposizioni che prendono vita nei personaggi di Bill (Michael Sheen) e Virginia (Lizzy Caplan): tanto Bill, il ginecologo specialista in problemi di infertilità che vara il pionieristico studio sulla sessualità umana, è freddo, razionale, devoto alla scienza fino al parossismo, ma al contempo molto tormentato e quasi represso, quanto Virginia, che inizia come sua segretaria e arriva infine a essere sua partner “alla pari” nella ricerca, è socievole, calorosa, libera nell’espressione dei suoi sentimenti e desideri. La serie la schiaccia sul ritratto, lievemente stereotipato, di una donna due volte sposata e divorziata, madre di due figli, sicuramente lontana dalle convenzioni e dal senso comune della sua epoca.

 

Inutile dire che Bill ha tutte le caratteristiche dell’antieroe seriale contemporaneo: è portatore di una forma neanche troppo lieve di sociopatia (il ruolo più importante svolto da Virginia nelle fasi iniziali della ricerca è proprio quello di tenere i contatti umani con i volontari, spesso disincentivati dai modi ruvidi e bruschi di Bill). Ha una personalità imponente e a suo modo geniale, che lo spinge a perseguire ossessivamente la missione illuminista cui pensa di essere predestinato (portare la sfera della sessualità umana dal campo della superstizione e del pruriginoso a quello della salute e della razionalità, sostituire il senso di colpa e la vergogna con la consapevolezza), ma è anche capace di vere e proprie bassezze e crudeltà, incurante di ferire i suoi cari e le persone con cui lavora.

 

Per esempio nella prima stagione della serie cerca di ricompensare Virginia con una busta di dollari per le sessioni notturne nelle quali i due hanno partecipato alla ricerca in prima persona, come coppia, umiliandola profondamente. Per non parlare di quando ricatta senza troppi scrupoli il rettore della facoltà di medicina per costringerlo a finanziare il suo studio, o di quando inganna la moglie Libby circa i suoi problemi d’infertilità. Come in altri casi (la madre trucidata di Dexter, i genitori dissoluti di Don Draper in Mad Men), i traumi dell’infanzia, nel suo caso derivati da un padre alcolizzato e anaffettivo, pesano come macigni sulla psicologia di Bill Master, anche se la serie non porta mai lo spettatore a giustificare per questa ragione le sue meschinità e la sua sostanziale assenza di scrupoli.

 

A differenza del serial killer giustiziere Dexter, dello “stronzo di successo” Don Draper, del professore di chimica convertito allo spaccio di droga Walter White, del cinico burattinaio Frank Underwood, il dottor Master, però, non diventa mai un “antieroe da amare”. Gli manca il carisma per affascinare, è difficile perdonare (e quindi immedesimarsi con) le debolezze che dovrebbero renderlo più umano, la razionalità e la scienza sono per lui strumenti per proteggersi dai sentimenti e spostare ogni relazione su un piano unicamente cerebrale. Tanto lui stesso è incapace di empatia, quanto fatica a costruirla con i suoi spettatori. Lungo tutto il corso della serie, si fatica ad appassionarsi a Bill come essere umano: fondamentalmente, è un antipatico, da intendersi nel senso etimologico del termine. Le donne della sua vita (sua madre, Libby, Virginia) fanno di tutto per compiacerlo, fino a che la sua mania di controllo si trasforma in vocazione all’infelicità.

 

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Oltre al distacco, il tratto più importante del suo carattere è la negazione, quell’attitudine che in inglese si chiama denial. Bill nega il suo trasporto per Virginia (“it’s just for the study”, “è solo in funzione della ricerca”, è la giustificazione che gli sentiamo utilizzare continuamente per spiegare l’intensa e gratificante relazione fisica che stabilisce con la sua assistente). Nega l’irrimediabile fine del suo matrimonio e il sostanziale disinteresse per la graziosa e sottomessa moglie Libby, in fondo nient’altro che una trophy wife da esibire alle cene e con cui unirsi nei modi più convenzionali in uno dei due letti singoli che arredano la loro camera matrimoniale. Nega il sottile fastidio che gli causa la presenza dei due figli piccoli avuti da Libby, testimonianza vivente dei suoi fallimenti come uomo e come padre.

 

Di tutto questo pagherà le conseguenze, psicologiche e materiali, soprattutto nella seconda stagione della serie, quando finirà vittima dei disturbi che ha lungamente cercato di spiegare (il tutto è, ovviamente, molto freudiano). Come molti altri personaggi emblematici della serialità contemporanea, Bill è un professionista molto abile nel suo lavoro, ma solo quando non riguarda se stesso, al pari di dottori che non riescono a guarire le proprie ferite, soprattutto interiori (Grey’s Anatomy), avvocati che finiscono vittime della legge (The Good Wife), scrittori con il blocco dello scrittore (Californication), manager della crisi travolti dagli scandali (Scandal, Ray Donovan).

Certo, se Bill non è un antieroe da amare lo si deve in parte anche al fatto che è tratteggiato a partire da una figura realmente esistita, “storica” (la serie è basata sul libro Masters of Sex di Thomas Maier). Non erano concesse troppe licenze poetiche a quel modo di fare leggermente robotico.

 

Il sesso è uno dei temi forti della televisione USA distribuita via cavo (che può parlare a un pubblico più esigente ed è quindi più libera di affrontare alcuni argomenti e mostrarli in modo esplicito) ma, paradossalmente, il tema di Masters of Sex non è tanto la sessualità quanto il concetto di intimità: l’intimità fisica è, in fondo, un’allusione a un’intimità ben più delicata e fragile, quella psicologica. Proprio ciò di cui Bill ha più paura.

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