Bologna / Viaggio in Italia

16 Agosto 2011

Ma soprattutto: Bologna. È da Bologna che passa tutto, anche se arrivi da Pesaro, Romagna. Se uno che suona volesse fare la scelta giusta, dovrebbe trasferirsi lì, a Bologna. Da lì ci si passa per forza, per andare verso sud. E anche se al posto di andare sulla costiera adriatica si deve andare su quella tirrenica, comunque si può passare di là, e poi sprofondare verso Firenze; poi Roma, Napoli, Salerno, Reggio Calabria. Bologna cerniera di tutto, che si apre per accogliere, alla stazione, chi arriva, poi si sutura al momento della partenza, nel suo arcipelago di binari tronchi e non. A Bologna passano treni tutta la notte. Provate a rimanere incantati una volta davanti al pannello delle partenze e degli arrivi. Treni, sempre treni, l’avvio ideale per ogni luogo, Monaco, Bari, Firenze, Milano, Torino, Pescara. La stazione di Genova Piazza Principe fa più impressione solo per la quantità di treni che passano (spalmati su più livelli): l’unica d’Italia che necessita addirittura di due pannelli per le partenze e due per gli arrivi. In compenso la stazione di Bologna è sempre, ma proprio sempre in moto: la quantità di tossici e spacciatori sembra la stessa di vent’anni fa. Le facce sono diverse da tutte le altre stazioni d’Italia. Un misto di spietatezza e compassione in chi lavora e in chi accede ai binari, che altrove non si registra. Non a Milano, non a Torino, non a Firenze, non a Venezia, non a Napoli, non a Roma. Si vende “sciolta” nei corridoi, subito fuori, di fronte agli alberghi, tra il bar “Qui” e il bar “Lì”, appena sopra gli schiaffi di piscio dei sotterranei, le code multietniche in biglietteria o al McDonald’s sul binario 1 e le postazioni internet fuori servizio.

 

Da Bologna ci si passa per forza; e anche noi, solo a ripensarci. Chissà quante volte abbiamo superato quel casello in furgone, mentre traforavamo l’Italia. In un certo senso questa storia comincia e finisce lì. A Bologna, in stazione. Con i semafori che stoppano centinaia di persone per ogni attraversamento pedonale. I bus che faticano a uscire dalle pensiline. E i taxi invece no. I treni notturni per Milano, come quello delle 4, su cui salire è una mezza impresa: l’odore acre del sudore che si spalma lungo tutti gli scompartimenti. Quasi solo stranieri. Con e senza scarpe. Le tende tirate per non fare entrare nessuno. I posti a sedere che diventano orizzontali, a formare materassi di gomma su cui dormire. E quelli che non dormono peregrinano tra una carrozza e l’altra aprendo d’improvviso gli scompartimenti: se sei dentro e ti svegli di colpo ti chiedono se hai una sigaretta, sennò, in caso di quiete, si rimane alleggeriti di un bagaglio, un cellulare, qualcosa. Tutto parte e finisce alla stazione di Bologna. Tutto passa di lì. E andrebbe forse fatta un’analisi sull’incidenza della geografia riguardo la longevità di un gruppo: quanto conta il fatto di affrontare viaggi “umani” per la sopravvivenza di un gruppo? O, detto diversamente: gli intasamenti autostradali nella zona di Venezia scoraggiano i gruppi friulani dal mettersi in viaggio verso il centro e sud Italia? Il blocco totale del GRA tipico del pomeriggio, scoraggia i gruppi del sud dal mettersi in viaggio verso il centro e nord Italia? In certe aree nascono meno gruppi perché già sanno che dovranno scontrarsi con la dura legge della strada?

 

Partire e/o muoversi da Bologna è un’altra storia: quasi tutti i gruppi musicali italiani si danno o si sono dati appuntamento lì con i collaboratori che abitano in altre parti d’Italia. Non sorprende che da sempre circoli così tanta musica in città. Se vivere a Roma, come ha scritto Flaiano, è la maniera migliore per perdere la vita, stare a Bologna assomiglia allora a un investimento. Un posto in prima fila, da lì passa tutto e tutti. Metà del fascino della città, anzi di più, sta lì. Nord e sud. Meridione e settentrione. Sei ore di viaggio al massimo per raggiungere qualsiasi luogo. Caselli autostradali. Di qua o di là. Verso Ancona. O Padova. O Milano. O il Brennero. Enne volte abbiamo fermato, come tanti altri, il furgone acceso in seconda fila vicino alla stazione, subito dopo averla superata. Enne sigarette sono state consumate nell’attesa che qualcuno arrivasse o si allontanasse. Enne code sulla tangenziale, o anche semplicemente per raggiungerla. Ma passarla in treno fa un altro effetto, da Pesaro a Bologna. Soprattutto il contrario, quando ci si lascia alle spalle i frattali metallici di binari e scambi, e ci si accosta invece alla Riviera. Allora lì la Riviera assomiglia incredibilmente alla California, specie fuori stazione. E poi per forza che il mito americano si è radicato più lì che altrove, in Italia. Costeggiare Pesaro e poi Fano in treno, magari in autunno, quando ancora il freddo non impedisce di andare a camminare e correre sul lungomare, le onde che affogano il sole, la quiete della sabbia liberata dalle ferite degli ombrelloni, dei cani che sgusciano svelti. E la ferrovia giusto lì dietro, a un alito dagli stabilimenti, che non sembra neanche vero, campi da beach volley e traversine, così tutto a portata di mano e di sguardo.

 

Abbiamo suonato a Bologna per la prima volta nella primavera del 2002, weekend di uscita di Fuori come va? di Ligabue. La cosa in sé può anche suonare marginale ai fini del racconto, ma non lo fu per noi: il giorno successivo al concerto andammo a fare un giro in centro, mischiandoci tra gli studenti in libera uscita a Piazza Maggiore, passeggiando poi per il Pratello. In quei momenti lì viene da pensare che non ci sia condizione migliore al mondo che quella di essere uno studente universitario a Bologna. Magari fuori corso. Non è che ci sia una ragione specifica, ma trafiggendo coi passi i portici del centro, quest’idea prendeva sempre più forma. Dentro alla Ricordi per vedere se c’era il nostro disco. E c’era. Proprio nel senso che c’era la vaschetta con la scritta Perturbazione. Ma: due persone su tre avevano in mano il disco di Ligabue. Prezzo promozionale, 17 euro e 40.

 

Così, piano piano, abbiamo imparato a conoscere il mondo sotterraneo della musica, in città. Letteralmente sotterraneo: dal momento che ogni volta che arrivavamo in città col furgone eravamo costretti a sistemarlo nel parcheggio interrato in pieno centro. Da lì si camminava, entrando nei negozi di dischi, anche quelli più specializzati, per vedere se c’era il nostro, di disco. Senza chiederlo. Girando così, facendo finta di guardare altro. E poi chiedendo in effetti altro, ricevendo di norma risposte seccate da parte di commessi che ci trattavano come se fossimo stati lì per comprare Ligabue (ai loro occhi un insulto; poi abbiamo capito che non era un fenomeno che accadeva solo con noi: i commessi dei negozi di dischi specializzati di Bologna tendono a maltrattare un po’ tutti, tranne quelli fuori dalla cerchia di appassionati). Così, un po’ alla volta, Bologna abbiamo cominciato ad abitarla, metaforicamente e per necessità, nei nostri giri per l’Italia. Gli stessi viali, i medesimi semafori, gli ingorghi, i viali e gli hotel della Fiera, il traffico, via Mascarella e Mentana, le uscite numerate della tangenziale, l’Osteria dell’Orsa, i portici, la Feltrinelli sotto le torri, i tetti vicino alle torri, il fritto di McDonald’s che lubrifica orma tutte le metropoli del mondo e il cui ricordo qui si spande fino alla Ricordi, le edicole traboccanti di carta e gadget, l’accento pugliese sistematico, i frikkettoni, le boutique e le librerie del centro.

 

Bologna è così diventata anche una cerniera temporale: quando si transita di lì si può cominciare a elaborare un calcolo su quanto tempo ci voglia per raggiungere Torino. Predisporre un countdown in base alle uscite autostradali che progressivamente s’incontreranno. Partire col sole e arrivare col buio. Sapendo che: uscita dopo uscita, casello dopo casello, lì dietro, in quella zolla di case che sempre si nasconde dietro un passaggio a livello a pagamento, c’è una matassa di vite e di storie e di luci accese in cucinino e salotto. Che spingono per essere vissute e poi raccontate. Magari proprio in una canzone. Noi passiamo col furgone, tiriamo dritti, passiamo senza lasciare traccia: come uno che spegne la televisione e non si sa più quali sono i canali che ha visionato fino a quel momento. Noi di qua. Loro di là. Capita a tutti gli automobilisti o camionisti o autisti o anche solo passeggeri. Capita a tutti quelli che una volta finito il viaggio aprono ed entrano in casa e accendono una luce e poi una storia. Anche per loro ci sarà qualcuno che passa a pochi chilometri di distanza senza lasciare traccia, su un tappeto di asfalto; e quelle vite si sfioreranno appena senza mai incocciare. E questo succede sempre, ogni istante. Ogni viaggio, ogni uscita, ci sono enne gradi di separazione per ogni condominio, isolato, quartiere, quartiere isolato. Ci sono persone che non conosceremo mai e tutte le ipotesi di vita che non praticheremo. Amori e amici ipotetici. Un po’ come ha scritto Jonathan Coe nell’introduzione al doppio cd degli inglesi High Llamas (Retrospective, Rarities & Instrumentals): “Odio pensare che i negozi di dischi sono pieni di album che non avrò mai la possibilità di sentire. E’ così ingiusto! Tutte quelle band che avresti amato, quella musica che sarebbe stata la perfetta colonna sonora della tua vita, se solo il fato – o la possibilità – ti avessero condotto lì. E’ come sapere che il mondo è pieno di persone che sarebbero potuti facilmente diventare tuoi amici, o amanti, eccetto il fatto che non li incontrerai mai”.

 

Abbiamo addomesticato Bologna, o forse è andata al contrario. E poi abbiamo cominciato ad abbandonarla nottetempo, perché il giorno dopo c’era sempre qualcosa da fare a casa. E allora eccoci al binario, intirizziti dal gelo, a studiare il pannello degli arrivi e delle partenze per poi dimenticarlo subito dopo, non appena il nostro treno si appropinqua al binario per tirarci su e condurci verso casa. E’ grosso modo in questi momenti che uno che passa la vita in viaggio non riesce a capire se la sedentarietà rappresenta la regola, un flusso di natiche dalla consistenza di un creme caramel interrotto da spostamenti occasionali. O se è vero il contrario (comune denominatore: le natiche a creme caramel: sulla poltrona di casa come sul sedile del furgone). La dimensione del nostro tempo è data dalla fissità spezzata dal movimento? Oppure è il movimento stesso a generare significato e a interrompersi di tanto in tanto per essere elaborato?

 

Se è vero che anche l’affissione dei poster (cioè la sua capillarità) rende l’idea del livello di fama raggiunto da un gruppo, be’, siamo messi male. Quando siamo arrivati a Pesaro la scena che si è consumata sotto i nostri occhi durante la cena che gli organizzatori si sono allestiti per sé nella zona del concerto ci ha squartato cuore e contabilità. I nostri poster (da noi inviati in centinaia di copie) invece di essere stati appiccicati in giro per la città vengono usati – rivoltati, in modo da sembrare bianchi – come tovagliette per il pasto. Scelta eccentrica, non c’è che dire. Costano 30 centesimi l’uno. Accompagniamo chi di dovere in stazione. Gli altri tornano in ostello per la notte. Domani ci attende l’ultimo spostamento, sotto il sole che ormai è agosto. Rallenteremo verso Bologna, sincronizzeremo gli orologi per l’arrivo e lo scarico, ma poi saremo traditi come al solito dai cantieri già all’altezza di Modena Nord. Stanno lavorando per noi, dicono. Poi solito paesaggio di svincoli, bretelle, baustelle, uscite e raccordi. Sempre lo stesso. Fino a tornare nei nostri paesi, nelle nostre case, alle nostre occupazioni. O quel che sono.
 

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