Orbetello / Viaggio in Italia

15 Aprile 2011

Valicata Livorno si scende ancora più giù, verso Castiglioncello. E poi, appena dopo, finisce suppergiù il mondo. A Rosignano Mare: almeno, così ci hanno insegnato una vita di notiziari alla radio. Uno di quei posti, tipo Borgo Panigale o Pero, che sembrano inesistenti - chi abita lì davvero? - ma dove c’è sempre qualche problema di traffico o incidente. A Rosignano termina l’autostrada. Da una parte, incredibile, si va verso un spiaggia (letteralmente) bianca, quella di Rosignano Solvay, diventata tale per via dell’omonimo bicarbonato. Dall’altra s’imbocca una superstrada che scende verso Grosseto. Uno dietro l’altro sfilano altri luoghi di villeggiatura, dopo quelli scivolati sotto le ruote in Liguria e Versilia. Follonica, Castiglion Della Pescaia, Talamone. Uno dopo l’altro sì, ma con una flemma da scoraggiare anche il più audace dei viaggiatori. Non si guarda la cartina per esasperazione, il viaggio non passa più, allora ci si concentra sulla segnaletica verticale. Ma dopo un po’ si vuole sapere dove ci si trova e si torna alla cartina e ci si rende conto che lo spazio non passa. Ma il tempo sì, siamo già in ritardo, al solito. Lo spazio non passa, ma è difficile nominare un’altra regione d’Italia in cui così nitido si avverte il senso di fine di qualcosa: il trapasso tra Toscana e Lazio, per chi viene dal nord, è qualcosa che valica il semplice confine regionale o la cartellonistica verticale.
Forse è solo la suggestione dell’estate e delle località turistiche e del mare che scivolano a fianco alle ruote del furgone. O forse sono solo tutte le pagine di Luciano Bianciardi, che questi luoghi e la mutazione subita dal paesaggio italiano dagli anni ‘50 ha descritto come nessun altro, proprio nel suo oscillare tra Grosseto (le origini, la casa, la sua Kansas City, come amava definirla) e il nord (il trasferirsi, la ricerca del lavoro, quella Milano dove anche solo lo scalpiccio dei tacchi delle donne diventava alienante). Così, tuffati nella Maremma viene in mente quel passo de L’integrazione in cui Bianciardi torna a casa per le vacanze: “Per me fu un mese bellissimo, su una spiaggetta del Tirreno, dove si giocava a pallone dalla mattina alla sera”.
C’è una disperazione tutta toscana e bellissima e che perfora il petto e che si osserva dal finestrino e da conclusione di tutto nelle parole di Bianciardi o di Ciampi dei Baustelle o dei Virginiana Miller, quando questi ultimi intonano canzoni come L’estate è finita, Venere Nettuno Belvedere o cantano versi come (da Altrove): “Sono stazioni tirreniche al sole / dove passano i treni / direttissimi altrove / E’ un palmizio borghese / accanto alla vasca vuote dei pesci / rossi negli occhi / E’ un museo dell’estate”. E non sarà poi certo un caso se il ragazzo con la pistola ritratto sulla copertina de Sussidiario illustrato della giovinezza - primo album dei Baustelle, anno 2000 - è steso sul letto, tra un Technics 1200 e un disco di Jay Jay Johanson, vicino proprio a una copia e La vita agra di Bianciardi.

Gli autogrill lungo questa superstrada hanno un aspetto ancora più desolato. Comincia tra l’altro a farsi largo l’accento romano (il che, a scanso di equivoci, poco c’entra con la desolazione). Ma siamo sempre inchiodati: come quando sui voli transoceanici si osserva con insistenza quegli schermi che stanno di fronte al posto del viaggiatore; con un puntino rosso che dovrebbe muoversi per congiungere la località di partenza con quella dell’arrivo; e alla fine sappiamo bene che quel puntino si sarà mosso da un luogo all’altro; ma ci saranno volute magari otto, nove, dieci ore e, mentre eravamo lì con gli occhi tassellati su quello schermo, di muoversi il puntino non voleva saperne. Così è per il furgone, fermo su tratti di atlante stradale 1: 800 000. Segmenti che si immaginerebbero minori, invece. Fette di strada che se affrontate freschi, al principio di un viaggio, nulla sarebbero; ma ora, dopo oltre sei ore si fanno devastanti. In questi contesti la geografia non può essere riformulata, è pura tirannia, punto e basta. L’unica cosa buona di questa strada a una corsia sola per senso di marcia è che non si paga. Ci siamo lasciati alle spalle l’Isola D’Elba e le pagine di Oreste Del Buono. Superiamo Grosseto e finalmente accostiamo Orbetello, nella cui villa romana di Settefinestre (per l’esattezza in un porcile all’epoca appena scoperto) passò pure Italo Calvino nel 1980, scrivendo Il maiale e l’archeologo, pezzo poi contenuto nell’antologia Collezione di sabbia. Saggio che così si concludeva: “La pala e la cazzuola dell’archeologo cercano di ricostruire la continuità della storia attraverso i lunghi intervalli oscuri”. Già.


Nel libretto interno del suo cd se ne sta seduto ma più che altro quasi inabissato su un divano a due piazze. Indossa capelli semilunghi e capricciosi, un paio di pantaloni forse di velluto forse di tela, una cosa forse felpata forse maglia forse blu. Lo sguardo smarrito nel vuoto dell’obiettivo, di fronte a serramenti bianchi socchiusi. Ai piedi scarpe da ginnastica Nike primo modello. O almeno, il primo modello che si vide in Italia. Quelle bianche, in pelle, col baffo celeste. A inizio anni ’80 le vendevano a Nichelino, provincia di Torino, in supermercati tipo Garosci (cognome tristemente diventato famoso prima perché vittima di un rapimento, poi per una candidatura all’interno di Forza Italia). All’epoca le tiravano dietro, quelle scarpe. Non le voleva nessuno, costavano un tot al chilo, non più di 19mila lire. Poi, qualche anno più tardi, la Nike sarebbe diventato uno dei brand di cui i paninari si sarebbero appropriati (e ancora si ricordano plotoni di ragazzini che indossavano quel modello di scarpe tutti i santi giorni didattici dell’anno, che essendo bianche a un certo punto s’imbrunivano, ma non potendo farne a meno, pena la caduta in basso anche per un solo giorno nel rigido sistema gerarchico della scuola, impedivano alle rispettive madri a casa di dare alle scarpe medesime anche solo una lavata, ché se no all’indomani mattina non si sarebbero asciugate per tempo e non avendole ai piedi chissà che avrebbero detto quelli delle altre classi durante l’intervallo, magari che il malcapitato era povero, uno che non indossava le cose giuste ma solo capi d’abbigliamento tarocchi, tipo nai operaj, logo sagacemente inventato dagli autori del periodico a fumetti Paninaro).
Ma torniamo a lui. Le calze sono bianche, di spugna. Roba da rompiballe o segaioli, come disse Strephen Frears in un suo film di qualche tempo fa, The Van. Oppure: da tennis, come si usa dire più comunemente. E però: il disco in questione si chiama Il tuffatore e di quello dovrebbe parlare, come pure si intuisce da un titolo come L’acchiappatore dell’acqua. Invece no: parla di tennis, e parecchio. Il colore dominante, forse in omaggio al baffo Nike, a Garosci o ai suddetti paninari, è proprio quel celeste. L’album veniva offerto a prezzo speciale al pubblico, tramite una scritta che contornava quella della collana in cui il disco era inserito: Urlo. Che sia poi proprio un disco da urlo ne sono convinti oggi anche alcuni scrittori italiani* che hanno riabilitato presso un pubblico grande quanto una capocchia di spilla il suo autore. Solo che: oggi quel disco è in pratica introvabile, non ci provate neppure, a meno che non lo ristampino o non ne troviate – caso rarissimo – una copia negli usati. Se ne parla tra carbonari. E qualcuno oggi, dato il rinnovato interesse, e specie se traffica con la letteratura (perché fino a ieri anche chi ascoltava musica neanche sapeva dell’esistenza del disco) capita che chieda se ne sai qualcosa de Il tuffatore.
E sì, qualcosa ne si sa, a dirla franca. Dell’album e dell’autore. Quest’ultimo si chiama Flavio Giurato. Flavio Giurato ha un fratello, che è proprio colui che immaginate (Luca, prestigioso anchorman televisivo in forza alla Rai). Flavio Giurato è pressoché irrintracciabile, se non nelle sue rarissime, occasionali comparsate dal vivo. Rarissime tracce on line, quasi nessuna invece presso i rivenditori di musica. Flavio Giurato pare che a tutt’oggi si mantenga lavorando come aiuto regista per la Rai (ma questa non è un’informazione sicura). Flavio Giurato pare che abbia una famiglia, ma non un cellulare. Flavio Giurato più che cantare adotta una specie di talk-over che molto lontanamente può ricordare Lou Reed. I suoi testi sono in italiano, ma ogni tanto ci prova con l’inglese* e il suo accento, o forse il timbro pastoso coperto in fase di missaggio dagli altri strumenti, ha qualcosa di ruspante in brani come L’acchiappatore dell’acqua (che è poi tra l’altro una specie di bellissima canzone generazionale, per quanto nascosta e sommessa).
Flavio Giurato scrive soprattutto canzoni d’amore. Però in un modo che non è poi così usuale. Il pezzo più famoso de Il tuffatore si chiama Orbetello e sfocia poi in uno successivo intitolato Orbetello ali e nomi. Si capisce questo nel brano: che c’è una storia d’amore dietro, dopo un’introduzione di pianoforte quasi classica. Una voce, quella di Flavio Giurato, che però in questo caso si confonde con quella del protagonista della vicenda, che dice “Tu sei nel mio cuore dal torneo di Orbetello/ quando è libecciato e non si è giocato”. Poi continua. E c’è lui che parla di un torneo di tennis che doveva svolgersi, però, a causa del cattivo tempo, niente. La lei della canzone è alta e ha perciò uno sguardo superiore. Va in profumeria e lui mentalmente (o anche proprio di persona?) la segue. Mentre parla e canta è da poco passata l’ora di cena e lui ne approfitta per telefonarle, ma lei non risponde perché impegnata a girare da sola in macchina la notte. Può darsi che non riteniate il plot così elettrizzante. Ci può stare. Ma è la maniera in cui la storia affiora dall’acqua toscana del disco a incuriosire. Quel libeccio che ha sgominato dei patti presi.
Non c’è neanche bisogno di sottolineare come qui il tennis rappresenti anzitutto una metafora di iniziazione alla vita. Già, ma perché colpisce? Esattamente per gli stessi motivi per cui ci segnano Virginiana Miller e Baustelle. Cioè: ci colpisce quando in una canzone scoperchiamo la specificità di quel dolore e del luogo che l’ha generato. Ecco perché ascoltare Flavio Giurato fa un effetto un po’ diverso rispetto alla gran parte di dischi (italiani soprattutto) che ci passano per le mani.
Il tennis è la chiave d’accesso. E non dovrebbe sorprendere poi che uno dei più grandi scrittori degli ultimi anni, l’americano David Foster Wallace, abbia inserito spesso proprio il tennis al centro della sua scrittura. Sia in romanzi come Infinite Jest sia in libri meticci intitolati appunto Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più). Laddove, ancora una volta, il tennis è soprattutto un pretesto per raccontare al lettore come l’autore abbia messo un piede e poi l’altro nella molteplicità della vita. (A tal proposito: verrebbe quasi da pensare che Wallace abbia avuto modo di ascoltare e tradurre i versi di Orbetello, quando nel racconto dal titolo Tennis, trigonometria e tornado parla proprio del vento come elemento fondamentale per il suo vissuto sotto rete. Ossia: laddove il libeccio ha cancellato il torneo di Orbetello e dopo non si è più giocato anche a causa della pioggia e poi la vita del protagonista ha preso la piega che ha preso, in questa storia Wallace racconta di come nei primi anni dell’adolescenza fosse entrato nella top 20 tennistica dei suoi coetanei residenti nel Midwest, proprio in virtù di un’analisi geometrica dello sport in questione. Cioè, per metterla giù breve: pur non disponendo di un fisico idoneo bastava che durante le partite operasse calcoli sulla traiettoria che avrebbe percorso la palla - la sua velocità rispetto alle linee che delimitavano il campo e il fondamentale ruolo svolto dal vento, sempre presente nella zona dove Wallace abitava con la sua famiglia - per mettere in difficoltà e poi sconfiggere gli avversari. Un trucchetto ingegnoso durato qualche anno: fino a quando cioè i coetanei di Wallace, un tempo adolescenti glabri, cominciarono a trasformare voce, peluria e muscolatura tanto da schiantarlo nonostante tutto l’apparato di analisi geometriche ed eoliche gettato in campo. Così a Wallace non è poi restato che tuffarsi nella letteratura).
 

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