La scomparsa di Camilleri / Memoria ed eredità di un narratore seriale

17 Luglio 2019

“La memoria” è il nome della collezione editoriale dove Andrea Camilleri ha pubblicato la maggior parte dei suoi libri, certamente tutti quelli ‘vigatesi’ (montalbaneschi e no) ma non solo. Battezzata così da Leonardo Sciascia per l’editore Sellerio di Palermo. E adesso che non è più con noi, il dovere e la necessità della memoria si impongono più che mai. Leggerlo e rileggerlo ancora, senza dubbio. Non foss’altro che per allontanarci il più lucidamente possibile dalle passioni forti che la sua immensa opera ha regolarmente provocato, nei lettori entusiasti come nei critici accigliati. Passando così da una prima impressione allungata per oltre trent’anni – che in queste ore la rete in generale e i social in particolare stanno intensificando al massimo grado – a una seconda opinione, si spera, un po’ più meditata. Camilleri, si sa, ha diviso il pubblico, senz’altro con un po’ troppa di improvvisazione. Ora è fatalmente arrivato il momento di cambiare marcia, e sperabilmente direzione. 

 

Provo a tirar giù dagli scaffali qualche suo libro, fra i cento possibili, in modo da trovare spunti o far emergere ulteriori ricordi. Sono troppi, molto diversi, tutti ricchissimi. Li rimetto a posto. Per adesso. Del resto, in quel labirinto fittissimo che è l’opera di Andrea Camilleri, qualsiasi entrata può andar bene, sia essa quella dei romanzi polizieschi come di quelli storici, delle opere teatrali o dei saggi, delle spigolature storiche o delle interviste autobiografiche. Tanto vale fare come consigliano i maestri e partire dalla fine. Da quella che oggi, fatalmente, è diventata la fine: è cioè dal Cuoco dell’Alcyon, da diverse settimane in testa alla classifica dei libri più venduti in Italia, testo che da questo momento in poi deve essere considerato come l’ultimo del Camilleri in vita (si è favoleggiato spesso di altre storie nel cassetto, addirittura in cassaforte: vedremo).

 

Si tratta di un libro strano, assai diverso dalla maggior parte dalle altre storie di Montalbano, non foss’altro perché il protagonista sembra più volte esser uscito di senno: ride, canta, fa lo scemo, va a zig zag in macchina, sembra proprio matto. Non va, come Astolfo, sulla luna, ma certo riprende nei toni altisonanti e nei gesti teatrali i pupi dell’opera siciliana – la quale, si sa, alle gesta dei paladini di Francia e degli eroi ariosteschi si ispira per lo più. Del resto, lo straordinario successo dei libri di Camilleri non dipende soltanto dal fatto, come pure è stato ribadito, che essi riprendono la formula del racconto poliziesco, rilanciandola sul mercato editoriale e dando adito a centinaia di avatar. Dipenderà anche dal fatto che questi libri seguono un’altra marca narrativa: quella del racconto a puntate e a episodi, presente sia nel folklore orale sia nel poema cavalleresco, sia, oggi, nelle serie televisive.

 

 

Dunque un mondo dove personaggi, motivi, oggetti, situazioni, idee, valori si ripetono come tormentoni, intrecciandosi fra di loro, modificandosi a poco a poco, per poi ritornare, un po’ stralunati, al punto di partenza. Una serialità (postmoderna?) che non poteva non giovare anche ai film tv, i quali non a caso vengono programmati e riprogrammati di continuo, di modo che lo spettatore medio non può non perdere il senso dello scorrere del tempo, come se tutto tornasse sempre al punto d’avvio, per poi festosamente ricominciare come se nulla fosse successo. Se il Montalbano letterario è invecchiato nel corso dei suoi venticinque anni di storia (La forma dell’acqua, del ’94, lo dà nato a Catania nel 1950; e gli acciacchi progressivamente prendono il corpo del commissario di Vigàta man mano che i due romanzi l’anno vengono regolarmente fuori), quello televisivo resta prestante come sempre. Il fisico di Luca Zingaretti regge benissimo, come resta quarantenne il suo fortunato personaggio. E se pure s’è fatto spesso il nome di Pirandello, ricordato a più riprese da Camilleri stesso, per dare ragione della moltiplicazione delle identità degli eroi di Vigàta (otto e novecenteschi), a esso vanno accostati quanto meno quelli di Boiardo e di Ariosto, maestri assoluti, appunto, dell’arte di intrecciare storie e situazioni, felicemente misconoscendo la narrazione lunga e conchiusa del romanzo moderno.

 

Ma le stranezze non si concludono in queste gesta sgangherate del commissario siciliano. Ce ne sono alcune di dettaglio, come il fatto che Salvo Montalbano, dopo aver a lungo amato profondamente la buona tavola ma sempre disdegnato fornelli e ricette, improvvisamente si mette a cucinare, e dopo quattro affrettate lezioni della sua amata cammarera Adelina, si trova a esercitare professionalmente – non senza messinscena teatrale a fini di detection – il mestiere di chef (da cui il titolo del libro). Roba da render furiosamente perplessa la sua enorme schiera di fan: Salvuccio che cucina? Non sia mai! Ma ci sono stranezze più sottili e insieme assai più eclatanti. Come quella della doppia nota finale, dove leggiamo alcune bizzarre dichiarazioni autoriali. Innanzitutto, ci viene detto che lo spunto di questa storia proviene dal soggetto di un film mai girato, motivo per cui il testo romanzesco “risente della sua origine non letteraria”. E fin qui nulla di particolare. Ma poi leggiamo anche che, nonostante alcuni elementi datati, la storia comunque tiene: “a malgrado che i capitoli non corrispondano perfettamente alle dieci pagine del mio computer, a malgrado che Montalbano abbia un’energia che oggi se la sogna, a malgrado che i boss del mondo non abbiamo bisogno oggi di riunirsi fisicamente su una goletta ma gli basta un ‘clic’, vorrei dire che il linguaggio è totalmente contemporaneo, l’ho aggiornato tutto e mi pare un buonissimo Montalbano”. Che dire? Sembra di capire che le dieci pagine originarie (il soggetto del film) siano fuoriuscite dal computer di Camilleri per tornarvi sotto forma di romanzo, che poi lui ha sistemato, ha approvato, dando il beneplacito per pubblicarlo. Più che un autore, Camilleri è divenuto giudice di se stesso, o meglio di quella che è, al di là della sua esistenza fisica, la sua funzione stilistica, letteraria, editoriale. 

 

Ritroviamo così, esplicitata quasi interamente, quella dicotomia fra due differenti Camilleri, quello reale e quello funzionale (finzionale?), che – come ha ragionevolmente sostenuto Nunzio La Fauci in un numero di “Micromega” dello scorso anno – attraversa l’intera opera camilleriana. Opera nel doppio senso del termine: insieme di testi artistico-letterari e gesta complessive di chi li ha dati alla luce. Una cosa difatti è (è stato) il Camilleri come persona e come corpo (che tanto ha fatto scrivere: la voce roca, l’età avanzata, l’eterna sigaretta, la cecità…), un’altra il Camilleri come cifra stilistica, rintracciabile per La Fauci soprattutto nella sua straordinaria capacità di produzione linguistica (che trascende il dialetto siciliano per inventarne uno tutto suo, ed estremamente cangiante), e che forse può essere estesa, più in generale, alla sua expertise narrativa. La serialità di cui s’è detto, tanto antica quanto attuale, va in questa direzione: laddove il genere del romanzo giallo fa da specchietto per le allodole, traspare al di sotto di esso la rete affabulatoria di mirabolanti avventure dei cavalieri arturiani e dei paladini di Francia, dei pupi siciliani e delle affannate produzioni di Netflix. La narratività camilleriana (del Camilleri  funzione) trascende così la narrazione camilleriana (del Camilleri persona). Per diventare che cosa? Beh, questo dovranno vedersela i suoi eredi. Quelli che sapranno e potranno riprenderne le sorti. Beninteso artistiche. 

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