Napoli / Viaggio in Italia
Il cibo e la moda sono una questione di dimensioni. Questo non solo negli Stati Uniti, ma anche a Napoli e in tutto il sud. Cosicché se si vuole trovare un qualche concausa all’ampliamento delle carni già in giovane età, qui più che altrove, ciò va ricercato da una parte nell’ e-mangia-qualche-cosa tipico di ogni genitore. E dall’altra nelle dimensioni di questo qualche cosa. Facciamo un esempio, le crocchette di patate (qui chiamate crocché, anche sui menu; cosicché quando uno deve ordinarla, se è abituato a dire crocchetta non sa mica bene cosa dire; al singolare poi cosa diventa: crocchà? Mi dia una crocchà? Oppure due crocchè? E se invece si punta su un più ortodosso crocchetta, al momento di pronunciare la parola, onde evitare brutte figure, si abbasserà opportunamente la voce su quello che per i napoletani è solo un vezzeggiativo per definire un cibo che loro sanno benissimo qual è).
Comunque: una crocchetta, o come diavolo si chiama, in media è grande tre volte il suo omologo nel nord. Immaginate perciò gli effetti se ne ingerite tre e magari ci allegate assieme anche delle patatine fritte con maionese e ketchup, grazie. O vogliamo parlare della grandezza di un panino medio? Classico esempio di opposti che si toccano: per la metà della cifra è possibile acquistare un panino grande il doppio di quello che comprereste a Parma o Milano. E siccome il cibo e la moda sono più legati di quanto non s’immagini, succede che a Napoli si stanano esempi poetici di emulazione anche culinaria, oltre che, come detto, nell’abbigliamento.
Il capolavoro assoluto di tale operazione di mimesi lo si incrocia lungo la strada che conduce all’aeroporto di Capodichino. Proprio nel tratto finale, al principio del rettilineo di 500 metri circa che conduce all’ingresso. È lì che s’incontra l’MMP, sigla che sta per Macarun Marenn Pizza. Ma questo è il meno. Ciò che conta è che MMP è scritto con una grafia ben precisa. E per l’esattezza le M riprendono tale e quale la più famosa M di McDonald’s, quella ad arco. Il locale è spoglio: pochi tavoli dove mangiano quasi esclusivamente le forze dell’ordine che operano nella zona. Un panino è grosso letteralmente il doppio di quello che vi venderebbero a Parma o Milano. Sfiora, senza scherzi, il mezzo metro di lunghezza. Qui anche la Coca Cola in vendita, pur nella sua autentica ed effettiva originalità, testimonia questa spinta verso il diverso: alla normale bottiglietta in vetro da 18 cl se ne sostituisce una (sinora inedita) da 33. In pratica il formato lattina. Un’ansia totale verso il taroccamento anche laddove non è possibile. (Tariffa per panino e coca cola, comunque, tre euro, a voi ogni valutazione finanziaria).
Ma non è finita. Il personale che lavora lì indossa una divisa: con tanto di polo rosse e cappellino, esattamente come i dipendenti di McDonald’s. Non si capisce proprio il perché di tanta formalità, se si considera che dentro l’MMP tutto è decadente e stracco. La stessa insegna all’esterno cade a pezzi, non si capisce nulla. Anche l’aplomb di chi ci lavora è differente: capita di trovare i dipendenti che fanno una pausa per mangiarsi un panino aldilà del bancone, assieme ai clienti, mentre guardano alla televisione l’ultima puntata di Top of the Pops. Esattamente il contrario rispetto allo stile rigidamente anonimo richiesto ai lavoranti del McDonald’s. Ciò nondimeno, si vestono allo stesso identico modo.
All’argomento, non all’MMP, ma al decadimento della carne per causa dell’ingestione della carne medesima, ha dedicato un saggio Marco D’Eramo: si chiama Il progresso delle taglie e sta nel suo volume Lo sciamano in elicottero. In quelle pagine D’Eramo spiega che il peso medio del Big Mac negli ultimi decenni è raddoppiato (così come la lunghezza degli hot dog e il condimento delle pizze in catene come Pizza Hut). Ciò ha condotto a una tendenza che passo passo si è radicata anche in Europa: “una vittoria schiacciante quella ottenuta dall’ininterrotto martellare di spot su merendine e cioccolatini. Oggi in Italia i bambini sovrappeso sono sempre più numerosi (e nel sud si vede che, anche qui, più sono poveri, più i bambini sono obesi). Quando si dice che il futuro è roseo! Non ci avevano detto che le magnifiche sorti sono progressive anche nelle taglie!”*
Per sigillare il discorso basta rendere pubblici (come ha fatto La Repubblica nella primavera del 2004) i dati di un’inchiesta realizzata dall’Ufficio Scolastico della Campania in collaborazione con la Col diretti regionale, le ASL locali e l’Università Federico II: “Sono i bambini napoletani i più in carne d’Italia. Anzi, d’Europa. Mangiano male, quasi sempre piazzati dinanzi alla tv, e ingrassano a vista d’occhio. Specie se la famiglia non se la passa un gran che bene economicamente, specie se la mamma non ha continuato a studiare dopo la scuola dell’obbligo. Il 38% dei bambini e degli adolescenti napoletani è soprappeso. E se Napoli è la città più grassa, la Campania le tien dietro col primato tra le regioni: 36% di ragazzini da mettere a dieta, contro la media nazionale del 24”.
Questo fa sì che non tutti possano permettersi d’indossare l’imperante moda attillata o per meglio dire skinny, sentendosi un po’ squalificati come ormai comunemente capita e se non avete capito bene il concetto basta che prendiate un qualsiasi editoriale dell’ormai leggendario "Men’s Health" per farvene un’idea. Cadiamo sull’argomento con i ragazzi dell’organizzazione. Che ci dicono: con gli Yuppie Flu (gruppo di Ancona esibitosi il giorno prima di noi) abbiamo fatto uno scambio di magliette, loro ci hanno dato le loro e noi le nostre. Però ci hanno detto: ah, ma non sono attillate, peccato, noi vestiamo tutto attillato, i ragazzi di qua non seguono questa moda. Che è una maniera appena un po’ gentile per dire: qua al sud siete tutti dei chiattoni; però quelli dell’organizzazione non l’hanno presa male, gli hanno risposto no, effettivamente noi vestiamo oversize (splendido trucco ideato dagli stilisti per rivestire eccessi dermatologici). E poi si sono girati e se ne sono andati. Anzi, sono rimasti lì, perché dalla loro postazione si vedevano benissimo tutte le standiste che lavoravano sotto il tendone della Coca Cola. Che in effetti però vestivano quasi tutte skinny.
Questo fa sì anche che il problema della carne in eccesso sia vissuto con un misto tra fatalismo e noncuranza. E il fulcro di tutto questo ragionamento consiste in un dettaglio che ai più parrà meno che trascurabile. Ossia la difficoltà di trovare il dolcificante in un qualsiasi bar del sud. Che non significa che i bar del sud non abbiamo il dolcificante a disposizione. No, vuol dire un’altra cosa. Vuol dire che ce l’hanno, ma lo tengono nascosto. Che non vuol dire che lo tengono nascosto perché hanno paura che qualcuno glielo rubi o che gliene consumi troppo (come invece succede nei bar del nord, perché una bustina di dolcificante costa più di una di zucchero comune). No, lo tengono secretato perché il dolcificante, o meglio, o’ dietòr, viene considero superfluo (e del resto provatevi ad andare a chiedere “Al Professore” in piazza Plebiscito una bustina di dolcificante: vi passa la voglia prima di provarci). Questa è una regola aurea che unisce quasi tutti i bar del sud. Perché nel caffè, se proprio uno vuole, ci mette lo zucchero. Che è ‘sto dolcificante? Che contiene poi pure l’aspartame, che fa da lassativo? No, niente dolcificante in vista. L’ansia del dinamismo, dell’europeismo, della modernità, della presentabilità, della snellezza, della bellezza, della linea perfetta (anzi, del perfetto in linea, come recita una delle più diffuse marche di dolcificante in circolazione) non ha ancora espugnato il sud, che strenuamente resiste.
Nei bar del nord ormai è abitudine la tripartizione: zucchero normale (busta bianca), zucchero di canna (marrone) e dolcificante (colore assortito, dal blu del dietro al bianco del ristora alla varietà, appunto, del perfetto in linea). Non c’è bisogno di chiedere, c’è già, lì, pronto, in bella vista. Chi ha problemi di linea basta che allunghi una mano e prenda. Magari senza farsi vedere, perché appena uno prende una busta di dolcificante c’è sempre uno di fianco (magrissimo o grassissimo, fateci caso, è sempre così) che fa: ma che, sei mica a dieta? Allora magari l’interessato – che di sicuro è a dieta – per qualche ragione imprecisata si vergognerà e replicherà: chi io? Naaah, figurati. E solo che… è solo che mi piace il gusto del dolcificante. Bugiardo. Il gusto del dolcificante fa schifo. Ma, come si sa, de gustibus… Perciò se siete da soli al bar o non volete farvi vedere dagli altri basta che cogliate quell’attimo di disattenzione del barista o del vostro interlocutore e che, zac, via, sostituiate la tradizionale bustina di zucchero con quella di dolcificante. Oppure che vi mettiate in tasca la bustina tradizionale (che poi butterete a casa), nell’impossibilità di risistemarla al suo posto senza essere notati. Questo quando il dolcificante è bene in vista. Ma che succede se non lo è? Terrore. Qualcuno sarebbe per non ordinare il caffè, direttamente. Ma se lo ha già ordinato e il dolcificante non si palesa all’occhio e di berlo amaro non se ne parla? Cosa succede dopo aver pensato, ecco, se lo sapevo prima non lo ordinavo? Siccome buona parte della società continua a colpevolizzare il povero uomo/donna che sta seguendo una dieta, costui/costei pur di non farsi sbeffeggiare in pubblico farà finta di niente e avendo ormai ordinato lo zucchererà normalmente (salvo poi pensare per tutto il resto della giornata a: a) come fare per smaltire quelle calorie in eccesso assunte, su cosa “tagliare” al prossimo pasto; b) quella canzone di Mao che fa: “Poi diventano occasioni che ricordi senza zucchero”). Concludendo: se siete al sud e siete al bar e volete un caffé e con esso una bustina di dolcificante ma non è in vista e magari vi vergognate a chiederlo, il consiglio è: fate finta di niente. Accontentarvi dello zucchero ufficiale.