Milano | Viaggio in Italia

13 Gennaio 2011

La prima volta che siamo andati a Milano per ragioni contrattuali, eravamo intimoriti. Quel tipo di paura che sempre agguanta quando si finisce dentro qualcosa di più grande. E lì il problema non era neanche la città in sé, ma sopravvivere alla stazione. Paura che appena scesi dal treno qualcuno ci indicasse o facesse domande strane a cui non sapevamo rispondere, in una lingua diversa. Paura anche solo di osservare il passo fermo di chi cammina di fianco, come se non fosse cambiato niente nei 45 anni che separano il presente da quello che ebbe a scrivere Luciano Bianciardi ne L’integrazione : “Anche la qualità del passo, in questa città, era diverso e cioè in qualche modo militaresco: le spalle bloccate, il busto rigido, le ginocchia dure, lo sguardo fisso, alacre, ma stanco. Specialmente le donne. Le sentivi incalzare alle spalle, queste donne, anche senza voltarti per guardare, annunciandosi con la battuta secca e frequente dei lunghi tacchi sottili. Noi ci chiedemmo, per parecchio tempo, come potesse una marcia così rigorosa e febbrile sostenersi su quell’unghia di cuoio, ma poi scoprimmo che dentro c’era un’anima di metallo, come nelle scarpe dei soldati tedeschi”.

 

Chiunque calasse dalle carrozze conosceva la direzione. Scesi dal treno prima e dalle scale mobili poi ci siamo fermati a fare colazione. Lo Shop Express al piano terra serve un caffé duro come il marmo. In coda solo stranieri. Il menù a due euro e 70 centesimi prevede succo, caffé e brioche. Con quello da tre euro si ha invece diritto a cappuccino, caffè e brioche. Tutto un viavai di etnie con gli spiccioli contati in mano che arriva e ordina e consuma. Si mastica fumo e urina, striata sui muri come frattali di costa marittima. In sottofondo un radio che trasmetteva Elbow e Ben Harper. Non viene in mente una sola radio in Italia che al mattino possa permettersi di trasmettere in serie due dischi del genere. Passi ancora Ben Harper, ma un gruppo di non facile commestibilità come gli Elbow, a quest’ora del mattino, non può che essere un correlativo auditivo dell’indigeribilità di questo cappuccino.

 

Fuori dalla colazione c’è l’attesa del taxi. Torino è diversa. Mai visti così tanti taxi. E così tanta gente in coda. Sotto, la scalinata inghiotte i pendolari della metropolitana. Eccoci. Un euro a biglietto. Quattro, per favore. Due code lunghe come l’inverno, due botteghini. Chi ci lavora ha sempre la stessa faccia da 20 anni. Il pollice consumato dalla saliva che lo ammorbidisce per staccare i biglietti. Erano così già 20 anni fa. L’edicola a fianco tossisce cd-rom e pornografia mista.

 

Sembrava di stare dentro il primo libro di Giulio Mozzi, per l’esattezza: tra le pagine del racconto Per la pubblicazione del mio primo libro. “Questo, dunque, è il mio primo libro. Io ho trentadue anni, scrivo e scribacchio da quando ne avevo quattordici, e non avevo pubblicato niente prima”. Non è vero, noi un paio di dischi prima li avevamo pubblicati, ma quasi clandestinamente, ora cercavamo una casa discografica vera. Ci avevano dato un paio di appuntamenti. Eravamo arrivati a Milano: “All’industria editoriale arrivai dopo un pellegrinaggio per metropolitane e tram, quando ormai era già buio (era gennaio). C’era anche nebbia. La sede dell’industria editoriale era in un grande viale squallido, in un quartiere mezzo residenziale e mezzo industriale, veramente brutto”.

 

Avevamo il nostro disco in mano. A Milano. Dentro c’era una canzone dal titolo Agosto. E, anche se era ancora tarda primavera, inizio giugno, avevamo nelle orecchie le parole di Riccardo Del Turco, il cantante, pronunciate proprio nel giugno del 1968, all’indomani della pubblicazione di Luglio: “Perché non ho ancora ‘sfondato’? Francamente non saprei. Forse perché non mi piace spostarmi da Fiesole. Dovrei forse rinchiudermi tra le mura dei grattacieli di Milano, correndo come un pazzo da una casa discografica all’altra? (…) Ora sto tentando la carta con il Disco per l’Estate. La canzone è intitolata Luglio. Mi sembra che faccia presa sul pubblico”.

 

Eccoci. Avevamo due appuntamenti con un paio di case discografiche. Ci presentiamo al primo, sostanzialmente quasi ben vestiti, come si fa in queste occasioni. Saliamo le scale e ci introducono nell’ufficio. Parliamo un po’. Allora spiegatemi, fa la signora con cui avevamo preso l’appuntamento. Ma niente siamo un gruppo, forse avrai visto, scusa se ci diamo del tu, no prego fate pure, no niente forse avrai visto, dicevamo, che abbiamo già fatto due dischi prima e adesso abbiamo appena finito quello nuovo e insomma, ci crediamo molto ma siamo senza casa discografica. Ah, allora, ve lo dico subito. Di produrre non se ne parla proprio perché soldi non ce ne sono. Però resta l’opzione della licenza di distribuzione. Ma però bisogna sentire il disco. L’avete portato? Ce l’avete dietro? Sì, come no. Le passiamo il disco. (Un consiglio: se non vi è mai capitato, non fatelo. Ascoltare la propria musica davanti a qualcuno che per qualche ragione professionale deve esprimere un giudizio è la cosa più avvilente del mondo. Non fatelo se potete. Se non potete, ecco come va a finire): il disco imbocca il lettore cd. Lo ascoltiamo assieme. Due minuti a canzone. Non di più. Un solo ascolto globalizzato. Comincia Agosto. Agostooo è il mese più freddo dell’annooo. La signora fa: ah, mi ricorda Thomas Stearns Eliot, April is the cruellest month… Eh, sì, in effetti sì, può ricordarlo. Si va avanti. Attacca un pezzo con le trombe. Ah, mi ricorda Burt Bacharach, molto Bacharach queste trombe. Eh sì, in effetti sì, può ricordarlo (ma perché ogni volta che in una canzone pop ci sono i fiati viene in mente solo Burt Bacharach?) Finisce il disco, stretta di mano. Sì, in effetti devo dire che si tratta di un prodotto di qualità. Musica di qualità. Si potrebbe parlare di una licenza di distribuzione. Lasciatemi qualche giorno per pensarci e poi ne parlo in riunione ai miei colleghi e ci sentiamo entro breve. Ciao, è stato un piacere, ciao.

 

Traghettiamo borse e scarpe al secondo appuntamento. Qui la cosa si fa più seria, perché veniamo accolti in uffici dove al posto di sedersi su poltrone o panche ci si accomoda su tavole da surf convertite in divani. Il discorso riprende tale e quale (unica differenza: nel frattempo questa casa discografica ha chiuso). Ciao. Disco. No casa discografica. Ciao. No produzione. Magari licenza di distribuzione. Sentiamo il disco. Nooooo (non nel senso che l’abbiamo detto, ma solo pensato). E sentiamo il disco. Di nuovo dal principio alla fine, due minuti per. Arriviamo all’ultima canzone: ah, mi ricorda David Sylvian, molto Sylvian questa atmosfera. Sapete, David Sylvian è uno dei miei musicisti preferiti. Eh sì, in effetti sì, può ricordarlo. Finisce il disco, stretta di mano. Sì, in effetti devo dire che si tratta di un prodotto di qualità. Musica di qualità. Si potrebbe parlare di una licenza di distribuzione. Lasciatemi qualche giorno per pensarci e poi ne parlo in riunione ai miei colleghi e ci sentiamo entro breve. Ciao, è stato un piacere, ciao.

 

Prendiamo il treno e torniamo a casa. Per tutti i giorni successivi stiamo incollati allo schermo del computer. Outlook Express è il nostro migliore amico. Ricezione di 1 di 1 messaggi in corso. Ma il messaggio non è mai quello. Ricezione di 2 di 2 messaggi in corso. Ma non sono neppure quelli. Passano uno, due tre, quattro settimane. Niente. Il cellulare trilla, ma ogni volta che il display indica numero sconosciuto o nessun numero si spera che sia la volta buona. Invece è sempre un parente che voleva parlare con qualcun altro della famiglia ma ha sbagliato cellulare di riferimento. Se mettete assieme tutto il tempo che nella vita avete speso nell’aspettare qualcosa o qualcuno, alla fermata del bus, in casa, dentro i corridoi dell’università, al tavolo di un bar, ne verrà fuori almeno un’altra vita intera. Ma da quella vita intera, da quella attesa, è assente il concetto di crudeltà di chi vi lascia aspettare. E di tutti quelli che abbiamo lasciato aspettare. Impastando i pomeriggi trascorsi davanti a uno schermo o in attesa di una chiamata, verrebbe fuori abbastanza tempo da prendere una laurea breve on-line in fisica, ma non è neanche quello il senso. Il senso sta in chi si fa attendere. Nel fatto che lui stesso ha con ogni probabilità sperimentato lo stesso fenomeno, e quindi lo scarica a sua volta su altri, come l’iva, in una catena interminabile di dolori che viene ripetuta all’infinito solo in virtù del suo essersi iterata immutata nel corso del tempo. “Ma la mia impressione, allora, fu quella di una tremenda offesa. Avevo viaggiato col treno, mi ero affrettato, avevo affrontato quell’atmosfera fetida e fredda, per venire a portare il mio piccolo ma non piccolo oblò – una fotografia, nella quale era contenuta la mia anima – al palazzo di un dio che, pur avendo preteso quell’obolo, non si sarebbe nemmeno accorto, probabilmente, di averlo ricevuto”.

 

Qualche anno dopo, dopo che quel disco di cui sopra era poi uscito (ma con nessuno dei due appuntati), ci trovavamo nella condizione di pensare a un disco successivo, che magari potesse usufruire di una maggiore visibilità e promozione. Succede quindi che entriamo in questo ufficio. Di comunicazione. Uno dei più importanti uffici di comunicazione d’Italia, ci fanno sapere. Un intero appartamento in zona centro. Ci accoglie una segretaria nell’ingresso, ciao buonasera. Volete prendere qualcosa, un bicchiere d’acqua dal boccione? Adesso vi chiamo il capo, è di là. Occhei occhei, nessun problema. Il capo, per la verità, c’è già. Sue foto punteggiano tutti i muri dell’ufficio. Una sta proprio dietro la segretaria, da monito. Altre stanno sparse in giro, e si mischiano così a quelle di alcuni fra i più famosi volti della musica italiana, come li chiamano nell’ufficio. Ci accomodiamo in una stanza con tavolo ovale. Dopo un po’ arriva il capo. Ho solo cinque minuti cinque, ci dice, forza, dài, fate in fretta, ditemi un po’. Allora noi diciamo un po’, ma parlando rapidi perché lui ha solo cinque minuti e in quei cinque minuti dobbiamo giocarci tutto il meglio. Un colloquio. Alla fin fine, e ce lo siamo scelti noi, beninteso. Per fare il salto, per provarci, per crederci davvero, di più, come dice Jovanotti. Parliamo un po’, poi parla lui. Le altre sono anche delle buone strutture, dice. Ci sono delle buone case discografiche, dice. Ma se parliamo di comunicazione, dice, di noàu, be’, allora non ce n’è per nessuno. Io sono il verbo, proprio così dice, il verbo. Io insegno anche comunicazione all’università, dice, non so se ve l’hanno detto. Tutto quello che vedete qui è frutto del mio lavoro, dice. Io sono il classico self-made man, dice, proprio così. Io non posso stare qui a girarmi i pollici, dice. Perché sennò qua nessuno mi da lo stipendio, dice. Perciò tutto quello che vedete qui, dice, è emanazione della mia persona. Se parliamo di comunicazione, dice, io sono il verbo. Vi presento le ragazze, dice, la mia emanazione. In serie sfilano i nomi, poi si ferma e dice a una e tu già come ti chiami? Risate. Battuta.

 

Parliamoci chiaro, dice. Senza strutture come la mia non si va da nessuna parte. Voi non siete nessuno, dice. Io ho un curriculum lungo che non finisce più, fatevi dire, fatevi dire, anzi no, dai, vado di là, anzi, dai, tiratemi giù qualche copia del curriculuuuum, grida di là sporgendosi dalla sedia per farsi sentire da un’emanazione. Dopo un po’ l’emanazione emana il curriculum su fresca carta stampata times new roman. Io ho lavorato con tutti i più grandi, dice. Però poi certi li ho mollati prima che si perdessero. Per esempio coso gli ho detto ciao ciao prima che si rincoglionisse. E anche tizio gli ho detto, con l’ultimo disco, senti un po’ qua tizio: o la promozione si fa come dico io oppure ciao, non è che si fa come dici tu. Lui non voleva quindi ciao, una stretta di mano, amici come prima. Infatti tizio non ha avuto più successo per niente, chiediamo noi con un tono inadatto al contesto. E lui: noooo, ma quello che c’entra, dice. Sorride. Ahahahah. I minuti sono passati da un pezzo, ormai siamo a 30, lui continua a intrattenersi con noi. Gli chiediamo come si studia una strategia promozionale, un piano. Ma non posso mica dirvelo in cinque minuti, dice. Io devo conoscevi bene, avere tutti i vostri curricula, vedere cosa fate nella vita. Ora che vi vedo bene avete delle belle facce, tu sembri un po’ incazzato, vabbè, stavo dicendo, pensavo che avevate delle brutte facce ad aver sentito i provini del disco. Non è che posso dirvi così da zero cosa potremmo fare insieme. Avemmo bisogno di un tot di incontri. Per conoscerci meglio. In modo da capire come presentarvi meglio, a seconda di quello che fate nella vita. Se tutto fosse così facile io a sto punto sarei ricchissimo e ci staremmo incontrando nel mio grattacielo. Non so se mi sono spiegato, chiaro? Invece no. Sennò pigliamo e telefoniamo al Corriere della Sera, pigliamo un appuntamento, pronto, stiamo arrivando, andiamo lì, 100 milioni in mano, ma magari anche 80, se ci fanno lo sconto e gli diciamo buongiorno, che vogliamo comprare una pagina di pubblicità per i Perturbazione. Ma se non sappiamo cosa scriverci come facciamo? Cioè, potremmo scriverci, chessò: Perturbazione in arrivo sull’Italia

Sospensione del tempo. Viene in mente Umberto Eco e il suo pezzo Come giustificare una biblioteca privata: “Ho dovuto convincermi che ci sono due leggi a cui nessun essere umano può sottrarsi: la prima idea che viene in mente è la più ovvia, e avuta una idea ovvia, non viene in mente che altri possano già averla avuta prima. Dispongo di recensioni, in tutte le lingue di ceppo indeuropeo, che si muovono tra ‘L’eco di Eco’ e ‘Un libro che fa eco’. Salvo che in questo caso ho il sospetto che questa non sia la prima idea che è venuta in mente al redattore; è che la redazione si è riunita. Ha discusso una ventina di titoli possibili, e finalmente il caporedattore si è illuminato in volto e ha detto: ‘ragazzi, mi è venuta una idea fantastica!’ E i collaboratori: ‘Capo, sei un demonio, come è che ti vengono?’ ‘E’ un dono’, avrà risposto”.

 

Riprendiamo. Riprende. Dice. Be’, ora che mi viene in mente è una bella idea, ve lo immaginate: Perturbazione in arrivo sull’Italia, oh, prima non c’avevo pensato non c’avevo: questo vuol dire fare comunicazione.

 

Mica gli uffici stampa della case discografiche, dove c’è gente che legge riviste di fitness, a zappare devono andare, non sanno fare il loro lavoro, tanto a fine mese gli arriva lo stipendio, mica come qui. Perché a me piace lavorare sui progetti piccoli, voi ora non siete nessuno, ma domani chissà. Certo che il fatturato io lo faccio coi vari tizio e caio, ma qua fuori c’è la coda di gruppi e artisti in ginocchio che pregano per avere me che gli faccio la comunicazione.

 

Perché io conosco tutti, dice. Voi non siete nessuno, magari siete amici di qualcuno, di un giornalista, lo chiamate, vi fa un pezzetto sul disco e domani finisce lì. Io invece conosco tutti, la repubblica, la stampa, il corriere, mucchio selvaggio, musica, l’espresso, panorama. Gli sto addosso, ci vuole il rapporto personale, perché la musica è la cenerentola delle arti, dice, mettiamocelo in testa. Mica come il cinema. Ma io insisto, insisto, poi non è che si può ottenere tutto, oggi a te domani a me, però poi ho piazzato dei colpi che ancora se li ricordano. Eheheheheh. Qua non succede più nulla per caso, dice. Quella è diventata famosa perché quel direttore si era invaghito di lei, e quando dico invaghito intendo, eheheheheh, in tutti i sensi.

 

Vabbè, oh, i cinque minuti stanno per scadere, adesso si è fatto proprio tardi, devo andare, ciao.

 

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