Due mostre a Berlino / Lo spirito dell’alveare
A Berlino, in contemporanea, due mostre si misurano con due questioni cruciali per la cultura della nostra epoca. La prima riguarda l’eredità storica dell’arte moderna e la sua rivendicazione di autonomia estetica, tradizionali capisaldi i cui presupposti sociali e culturali e le cui pretese di universalità appaiono assediati sia dall’affermarsi di una visione policentrica, multiculturale, del mondo attuale sia dalla crescente erosione della stessa categoria di “arte” a vantaggio di quella ben più elastica e accogliente di cultura visiva. La seconda tocca invece le istituzioni-simbolo del “mondo dell’arte”: il museo e la mostra. In che modo aprire – “rendere inclusivi”, come si dice – questi luoghi a pubblici eterogenei, portatori di istanze culturali, di identità spesso mutuamente conflittuali?
Nonostante le differenze – la prima è un allestimento tematico di una grande collezione di arte del XX e XXI secolo, la seconda una stratigrafia multidisciplinare di un singolo momento della vicenda novecentesca – sia Hello World (Hamburger Bahnhof – Museum für Gegenwart, fino al 26 agosto), che Neolithische Kindheit. Kunst in einer falschen Gegenwart, ca. 1930 (“Infanzia neolitica. Arte in un falso presente, 1930 ca.”, Haus der Kulturen der Welt, fino al 9 luglio), entrambe le esposizioni si oppongono alla trasformazione dell’esperienza dell’arte in qualcosa al tempo stesso, e perversamente, di sempre più irrilevante e sempre più monetizzabile. Ma come inscrivere una indispensabile revisione critica della vicenda moderna in una cultura in cui l’estensione globale delle comunicazioni, la tirannica aspirazione al consumo, la reificazione delle relazioni sociali, il livellamento midcult del gusto, la fine dell’autosufficienza estetica, hanno eroso l’idea di arte come luogo di sperimentazione audace, complessa, scomoda, irriducibile al presente?
La risposta di Hello World potrebbe essere riassunta così: rendiamo leggibili anzitutto i conflitti rimossi, le narrazioni cancellate o emarginate, gli scenari politici e sociali remoti o invisibili nel museo tradizionalmente inteso come “deposito”, come immacolato riparo dallo sporco della Storia. Per una collezione le cui vicende riflettono la tragedia tedesca – dall’epoca guglielmina al nazismo, dalla partizione Est/Ovest alla riunificazione post-1989 – questa esigenza di nuova storicità si traduce nella sistematica contestazione delle tradizionali gerarchie di valori, dei concetti di “periferia” e “centro”, di high e low, nella sottolineatura di ibridazioni e scambi inediti tra culture.
Sono esempi di questa attitudine le sezioni allineate nella lunga “manica” della Hamburger Bahnhof, a partire da quella dedicata all’Arte Popular messicana e all’originale rapporto tra folklore, sensibilità modernista, sguardo antropologico e programmi rivoluzionari che in Messico, tra anni Venti e Quaranta del secolo scorso, alimentò al tempo stesso esperimenti di radice surrealista e imprese monumentali del muralismo, così come il lavoro di artisti di profilo diverso come Dr. Atl (Gerardo Murillo), tra i propugnatori del ritorno alle radici precolombiane, e Tina Modotti, con inserti contemporanei come il video Xilitla (2010) di Melanie Smith, dedicato alla allucinatoria stravaganza architettonica di Las Pozas, realizzata in piena giungla dall’eccentrico mecenate inglese Edward James.
Stesso discorso può valere per la sala dedicata alle culture indigene dell’America del Nordovest e al loro impatto sulla pittura americana o per gli ampi insiemi dedicati alle esperienze artistiche di opposizione nei paesi dell’Europa orientale e in Unione Sovietica nel periodo della Guerra fredda, in cui le difficoltà e i rischi di un dissenso tanto culturale che politico trovava spesso forme alternative e complementari alla produzione di opere, come azioni collettive, pubblicazioni o forme di scambio internazionale. In un’altra sezione, le connessioni tra il gruppo dada giapponese Mavo e la scena artistica berlinese dei primi anni Venti vengono indagate come un caso di precoce e originale appropriazione delle strategie più radicali dell’avanguardia in un contesto culturale remoto.
In tutti questi casi il punto di vista adottato dai curatori di Hello World rappresenta un necessario correttivo alle narrazioni convenzionali dell’arte novecentesca, tipicamente incentrate su pochi, selezionati centri europei e nordamericani, e insieme un’inevitabile presa di rischio. Annettendo il contesto artistico alle metodologie e alla prospettiva dei cultural studies e delle indagini postcoloniali, ed esaltando, come reiterano i testi di sala, il valore politico di tali scelte, non può infatti che attenuarsi o diventare irrilevante la differenza, il dissidio, tra opera e testimonianza, tra documento e fiction: quanto si guadagna come estensione della visuale, come più precisa misurazione della mutua interferenza tra sfera simbolica e sfera sociale, si perde in termini di profondità di lettura storica e critica dei fatti artistici.
Il problema è che la contestazione del “canone occidentale” e la simultanea necessità di una nuova teoria mondiale dell’arte finiscono nella mostra per basarsi su una sostanziale incomprensione dei meccanismi di competizione, sovversione e costante riscrittura con cui lo stesso canone si è venuto formando, nonché su una fatale quanto non percepita restrizione del perdurante scarto di portata, complessità e novità prodotto proprio dalle opere e dal loro eccedere l’epoca e il contesto, dalla loro capacità di incubare altri potenziali di senso, che rimangono integri anche dismettendo – come argomenta su “Current Affairs” Daniel Walden – lo stesso deformante e ormai inservibile concetto di “Occidente”. Sullo sfondo, inconfessata, accanto alla salutare apertura multidisciplinare, si profila un’ideologia della pratica curatoriale come unico rimedio alla condizione indebolita o degradata dell’opera d’arte, resa tuttavia in questo modo ancor più dipendente da un sistema istituzionale che la assoggetta alla sua drammaturgia, al suo disegno di autoperpetuazione.
Non è credo difficile notare quanto questa radicale sfiducia non tanto nel concetto, già in abbondanza screditato, di autonomia estetica, quanto nell'idea stessa di opera in quanto evento che altera in permanenza il proprio campo di osservazione, che si mostra irriducibile alla rete concettuale che lo ha catturato, sia molto più che il risultato finale di un processo di consapevole decostruzione dei procedimenti discorsivi dell'autorialità. Essa è in effetti la prova di una già avvenuta, tacita adesione a un sistema di valori coincidente di fatto con il “paradigma tollerante” neoliberista, con una disposizione cioè che rende tutto egualmente accessibile e consumabile a patto che le differenze potenzialmente eversive, i conflitti latenti, l'energia distruttiva e anarchica di quegli “oggetti” speciali che sono le opere rimangano o silenti o vengano preventivamente espunti dal campo dell'esperienza.
Diversi sono i punti in cui Hello World subisce le conseguenze impreviste di questa agenda. Ancor più della sezione Agora che accoglie i visitatori all’ingresso con una vacua, scontata retorica del dialogo e dell’accoglienza (e ciò nonostante la presenza di lavori interessanti come Pavilion for International Institute of Intellectual Co-operation, 2016, di Goshka Macuga), è nelle sale in cui è riunita una notevole selezione di sculture del XX secolo che si possono misurare i limiti della pedagogia espositiva adottata dai curatori. L’essenziale e intricata relazione tra ricerche moderne e arti “primitive”, l’arcaico, l’inc0nscio (la sezione è convenientemente intitolata Woher kommen wir?, “da dove veniamo?”), viene qui ricondotta a un semplicistico ridimensionamento del valore antiautoritario delle esperienze d’avanguardia, epitomizzato, con involontaria comicità, nell’accostamento tra Le Penseur (1880) di Auguste Rodin e il Ritratto dello scimpanzé “Missie” (1916-17) di Anton Puchegger. Molto più interessante osservare da vicino i lavori, tra cui spiccano ad esempio, accanto a nomi celebri (Brâncuși, Giacometti, Ersnt, ecc.), figure meno note come Hans Josephsohn, sua una impressionante “massa” vagamente antropomorfa (Senza titolo, 2002), o i molli volumi neri di Thomas Schütte (Senza titolo, nn. 4 e 10, 2001).
Forse il colmo di questa urgenza di giustificazione lo si misura nel trattamento riservato alla collezione Marx, un importante insieme di opere di artisti del secondo Novecento come Warhol, Beuys, Rauschenberg, Twombly ecc. Qui l’ortopedia istituzionale – in una sezione intitolata addirittura “diritti umani dell’occhio” – è esplicita: com’è possibile rettificare una donazione irrimediabilmente marchiata dal puro arbitrio del collezionista? In mancanza di soluzioni definitive ci si affida alla intraprendenza del duo cyan (Daniela Haufe e Detlef Fiedler), pedanti lettori di Aby Warburg e Georges Didi-Huberman che collocano sulle pareti “tavole” a sfondo color pastello con riproduzioni di fotografie e documenti incaricati di rieducare, mostrando loro i non-detti e i non-visti della contigua, ingombrante high art, gli inconsapevoli spettatori. Anziché un effetto ironico o critico qui è l’inconscia infantilizzazione del pubblico a rivelarsi il vero significato dell’operazione.
I momenti migliori di Hello World restano così quelli in cui più difficile si dimostra la costruzione di un frame ideologico generale: la sezione dedicata all’uso degli strumenti di comunicazione come medium artistici tra anni ’60 e ’70, a partire dal progetto Three Country Happening (1966) di Marta Minujín, Allan Kaprow e Wolf Vostell, o gli Interludes con opere maggiori di On Kawara (il grande ciclo Date Paintings) o Bruce Nauman (l’installazione My Soul Left Out, Room That Does Not Care, 1984), e il sempre straordinario insieme di opere e installazioni di Joseph Beuys, e in particolare Das Ende des 20. Jahrhunderts (“La fine del XX secolo”) (1982–83), con i suoi grandi monoliti di basalto posati sul pavimento, la cui minerale, misteriosa impassibilità continua a turbare i nostri tentativi di scioglierci finalmente dai legacci con l’oscurità novecentesca.
Pur con premesse simili, assai diversa appare la strada percorsa alla Haus der Kulturen der Welt dalla mostra che prende il titolo da un’espressione dello storico e teorico tedesco Carl Einstein, figura essenziale del panorama culturale tedesco tra le due guerre, per il quale quella dell’“infanzia neolitica” è la condizione di un’arte che si misura con un mondo sempre più ostile e frammentato e ricerca una possibile rifondazione dell’umano guardando alle forme di vita collettiva e all’immaginario della preistoria. La mostra esplora così le connessioni e gli intensi scambi tra arti visive e discipline diverse (etnologia, psicoanalisi, filosofia, ecc.) tra anni Venti e Trenta del Novecento come forme di inquieta ricerca di vie di uscita dalla spirale imperialista, totalitaria e razzista, dalla vera e propria crisi di civiltà che attanaglia l’Europa. Su questo sfondo, le esperienze artistiche, in particolare quelle legate al surrealismo, vanno alla ricerca di un orizzonte alternativo, ritrovandolo nelle culture premoderne, “primitive”, negli strati profondi della psiche e del linguaggio, nell’“animismo” – come lo chiamò ancora Einstein rovesciando di segno un classico termine dell’etnologia evoluzionista ottocentesca – cioè una forma di percezione sensibile a una pluralità di forze prive di un riferimento “centrale”, di un fondamento identitario, in senso tanto estetico che politico.
Nel solco di altre mostre enciclopediche tenutesi nello spazio diretto da Anselm Franke, anche Neolithische Kindheit organizza il suo percorso come una fitta trama di riferimenti alla cultura visiva, alla storia e alla teoria dell’arte, accostando opere e materiali eterogenei, libri, film, fotografie, documenti. Lo spettatore è chiamato a un lavoro di autonomo montaggio all’interno di un percorso policentrico che connette opere di artisti di profilo e notorietà assai diverse, come il belga Frits van den Berghe, idiosincratico pittore di sensibilità surrealista, Max Ernst, Paul Klee (con alcuni straordinari disegni degli anni Trenta), Toyen, fotografie di esponenti di primo piano del surrealismo parigino come Brassaï, Florence Henri, Eli Lotar e Raoul Ubac, film di Jean Painlevé, Sergei Eisenstein (con un frammento inedito del mai terminato film sul Messico) e Jean Renoir (sorprendente il suo cortometraggio Sur un air de Charleston del 1926), a una prospezione del paesaggio intellettuale degli stessi anni, i cui diversi filoni e discipline sono testimoniate da una cospicua presentazione di pubblicazioni e altri materiali. La scommessa, ambiziosa, è “decolonizzare” etnologia, antropologia, pensiero filosofico e arte modernista, senza però evacuarne il potenziale dialettico, il valore di critica radicale tanto dell’eurocentrismo che della razionalità strumentale e dei meccanismi di assoggettamento e dominio consustanziali alla forma di vita capitalista.
Gli anni Trenta giungono così a interrogare la nostra epoca. Se di fronte a conflitti e ineguaglianze intrattabili, alla crisi della democrazia e dello stesso progetto utopico moderno, sorse irresistibile in Germania e in Europa un progetto di sottomissione a un Ordine imposto violentemente come orizzonte escatologico collettivo, emerge dall’atomizzata società contemporanea l’immagine inconcepibile dello sciame e con essa una logica dell’alveare, una proiezione del soggetto a scala collettiva non per mezzo dei tradizionali strumenti della religione e dell’ideologia o attraverso il conflitto, ma piuttosto grazie un potente, pulsionale ed estatico movimento verso il gruppo, verso l’abbraccio sincronizzato con gli altri. In questo paesaggio postumano, l’arte, anziché dissolversi, appare al contrario come uno strano quantum energetico singolarmente durevole, al cui interno, ha scritto Edward Said, l’identità umana si mostra proteiforme, instabile e indifferenziata nella sua ambivalenza come qualsiasi altra cosa esistente al mondo.