Speciale
Gian Maria Tosatti: nell’ombra della Storia
Affondare. Riemergere. Questo doppio movimento, fisico quanto mentale, è il motore segreto delle installazioni di Gian Maria Tosatti. Per lo spettatore farne esperienza coincide con l’attraversamento di una soglia e l’ingresso in uno spaziotempo più denso, il cui effetto è un’intensificazione percettiva, una modalità di visione non-a-fuoco, uno scivolamento imprevisto negli strati preconsci in grado di incrinare la stabile distinzione tra mondo interiore e mondo “reale”. Quelli di Tosatti sono luoghi carichi di un inedito spessore temporale, palcoscenici su cui si mostrano, spesso in modi in apparenza arbitrari, strane apparizioni, figure e allegorie disperse di una Storia che espone al presente le sue macchie e le sue speranze tradite, le sue lacune e la sua fondamentale manchevolezza.
Salgo verso Castel Sant’Elmo, che domina, oggi come nelle vedute settecentesche, il centro storico di Napoli, tra il vulcano e il mare aperto. Giunto nel punto più alto dei bastioni intagliati nel tufo ridiscendo una stretta scala a chiocciola per raggiungere le viscere della fortezza, una monumentale cisterna sotterranea sul cui fondo appare, incongruo, meraviglioso, un campo di grano maturo illuminato dalla luce riflessa da un grande disco metallico sospeso sotto la volta. Il percorso dell’installazione My dreams they’ll never surrender, inaugurata nel 2014, da anni inaccessibile e riaperta ora al pubblico grazie alla Direzione regionale dei musei della Campania che ne ha promosso il restauro, riassume molte delle caratteristiche del lavoro più recente di un artista che ha fatto della sensibilità ai luoghi – ambienti decaduti, edifici destinati alla demolizione, spazi domestici o industriali, resti mummificati o macerie di trasformazioni brutali – una delle chiavi essenziali del suo percorso artistico.
L’ambiente, misterioso come un ipogeo antico, è trasformato in un teatro di apparizioni, antro di una Sibilla ormai ammutolita che pure continua a emettere una sorta di debole, persistente radiazione fossile. Il massiccio forte spagnolo divenuto nei secoli carcere politico è in effetti contenitore e tema del lavoro di Tosatti, che nel grano eternamente maturo identifica la metafora di quell’aspirazione permanente alla libertà delle idee e dei corpi contro ogni forma di oppressione cui allude il titolo. Ma nella distesa di steli e nelle spighe giallo pallido, prima ancora che il riferimento obbligato all’azione e al pensiero dei grandi prigionieri del Novecento – da Gramsci a Mandela ai tanti altri coraggiosi e ignoti prima e dopo di loro –, va colta forse in forma ancor più pregnante la fatale dialettica tra individuo ed istituzione, tra regola e infrazione, tra la geometria minerale dell’architettura militare e la fragile presenza vivente del grano, elemento cui non è ovviamente estraneo il simbolismo cristiano della morte e della resurrezione. Le spighe resteranno, penso mentre risalgo la scala, resteranno in attesa che qualcosa accada, che il Mietitore si palesi nel buio.
A questo strato significante puntano del resto le allusioni leggibili in filigrana nell’intervento di Tosatti: i campi di grano tante volte evocati nel cinema di Andrej Tarkovskij, da Solaris a Lo specchio, ad esempio; Wheatfield, realizzato da Agnes Denes nel Battery Park a New York nel 1982 (e replicato a Milano in occasione dell’Expo 2015); o ancora il sole artificiale che nel 2003 illuminava la Turbine Hall della Tate Modern a Londra in The Weather Project di Ólafur Eliasson. Immagini che alludono in modi diversi alla presenza di una Natura depositaria di una persistente alterità, custode di un tempo ciclico non regolabile dalla legge umana, tematiche che a Castel Sant’Elmo sono rifuse in una configurazione assai meno contemplativa e pacificata, decisamente più affine a certe inquiete apparizioni surrealiste che alla poetica della Land art o a una generica sensibilità ecologica.
Intensificando l’effetto di sorpresa, Tosatti fa dell’installazione – una modalità espressiva in fondo fragile, legata com’è al tempo breve e all’indeterminatezza dell’esperienza individuale – un dispositivo di rivelazione aperto sulla dimensione permeabile dell’inconscio assai più di quanto le sue stesse dichiarazioni pubbliche intorno a questo lavoro, con tutta la loro lucidità e urgenza, siano disposte ad ammettere. Più ancora che a una dimensione civile, virtuosa e memorabile, My dreams they’ll never surrender mi sembra in effetti puntare dritto al cuore della cieca, paradossale, puramente umana resistenza all’oppressione, a una crudele, ironica condizione in cui illusione e disillusione non smettono mai di riproporsi.
Affondare. Riemergere. Nell’immenso spazio cavo della cisterna di Sant’Elmo il tempo appare immobilizzato nell’interminabile mezzogiorno di un’estate eterna in cui la promessa di un raccolto abbondante non sarà mai esaudita, mentre lo spettatore, giunto al termine della sua catabasi non può che misurare la potenza dell’illusione che lo ha guidato fino a quel punto, la pungente necessità di un sogno, questo sì, che non potrà mai arrendersi al Reale.
Se il mondo, le idee, la stessa Storia sono proiezioni spettrali, l’allegoria deve allora diventare la strategia essenziale dell’arte. Allegorica, malinconica e postuma è infatti una condizione che non può aspirare alla totalità dell’esperienza e inscrive in sé la consapevolezza dell’esaurirsi dell’autorità di ogni linguaggio. Allegorica è la forma di un sentimento di straniamento, di discredito del senso storico. E allegorico è dunque lo sguardo irrequieto con cui Tosatti guarda un’epoca traboccante di testi e di immagini, e dove ogni testo, ogni immagine è sempre a sua volta testo di testi e immagine di immagini. Il mondo come palinsesto, come medium di media, e l’artista come esploratore di un paesaggio pietrificato, come filologo impegnato a colmare le lacune, a riannodare i fili spezzati di una narrazione diventata oscura, evasiva, incompleta.
Questo è anche l’approccio utilizzato da Tosatti in Storia della notte e destino delle comete, la grande installazione realizzata nel Padiglione Italia alla Biennale di Venezia (sostenuta come main sponsors dal cantiere navale Sanlorenzo e dalla Maison Valentino), in cui una serie di “ambienti” compongono un percorso nella vicenda collettiva italiana del secondo Novecento. Sono scenari industriali abbandonati – una fonderia, un silos di granaglie o un deposito alimentare, uno stabilimento tessile, un’officina meccanica –, emblematici di quella dimensione un tempo essenziale del lavoro operaio che ha progressivamente perduto nel corso degli ultimi quarant’anni la sua centralità, sostituito da forme più rarefatte e frammentate, da uno sfruttamento meno appariscente ma certo non meno brutale. Introdotta da un piccolo ambiente esterno, equipaggiato con un orologio timbracartellini, e dalle note sarcastiche di Senza fine di Gino Paoli, l’opera si chiude con un accento diverso: una grande area di carico immersa nell’oscurità, vuota e allagata, in cui lampeggiano le lucciole pasoliniane, ultime testimoni della catastrofe o annuncio di un’epoca ancora da immaginare.
Molto è stato già scritto sulla complessità di questo lavoro, sulla sua natura composita, sui suoi riferimenti culturali, in particolare a Pier Paolo Pasolini appunto (anche se in realtà il vero legame artistico, più che con Pasolini, è qui con il Visconti neorealista e reinventore del melodramma), e sulla visione della società italiana tra boom economico e declino industriale che vi è contenuta. “Consumato archeologo del presente”, come lo definisce il curatore del Padiglione, Eugenio Viola, Tosatti compone una serie di tableaux emotivamente sovraccarichi, ripieni di dettagli sottili (l’abitazione deserta del custode della fabbrica, realizzata nel mezzanino, è di certo la sezione insieme più spooky e veristica dell'installazione), che prima della chiusa dichiaratamente onirica gioca esplicitamente sul confine tra vero e verosimile, tra frammento autentico e riproduzione.
Alla base di tutti questi “ambienti”, i più semplici e i più complessi, c’è sempre, va detto, un procedimento di montaggio affine alla struttura della narrazione cinematografica. Il percorso è orientato come un tracking shot dotato di una specifica temporalità e attivato dal punto di vista mobile che lo spettatore introduce in uno spazio architettonico immersivo, in cui l’esperienza cinematografica si salda a sua volta alla logica del sogno. Tosatti stesso – come ha fatto nel suo saggio Esperienza e realtà. Teoria e riflessioni sulla quinta dimensione (Postmedia Books 2021) – potrebbe definire “a cinque dimensioni” questa inedita articolazione, la cui ambizione è però non tanto presentare un tour de force visivo quanto determinare un mutamento di prospettiva non transitorio nello spettatore, una sua “presa di coscienza” si sarebbe detto un tempo, una mobilitazione cosciente e politicamente responsabile.
Ho sempre guardato con molto rispetto alla tensione civile che anima gli interventi di Tosatti e ammiro la sua determinazione ad affiancare all’opera artistica una produzione di scritti e interventi coraggiosi e inusuali, specie in un paese in cui gli artisti sono rimasti e rimangono perlopiù silenti e defilati dalla scena pubblica. Ma il critico deve sempre necessariamente tradire la parola dell’artista e per meglio rispettare il suo lavoro deve aprirvi prospettive non percepite, anche a costo di contraddire il giudizio dell’autore. Ed ecco allora che ai miei occhi Storia della notte... appare non solo una struggente trenodia su un paesaggio umano e materiale perduto o una visione di un futuro distopico prossimo venturo, ma soprattutto una grande metafora della crisi dell’arte stessa, dei suoi mezzi, del suo spazio, di una certa idea di creazione individuale ancorata nella costitutiva ambivalenza e potenzialità metamorfica del soggetto umano.
Nel lavoro di Tosatti, la fedeltà al luogo e al suo carattere, le ricerche di taglio etnografico preliminari a ogni suo intervento, la stessa passione analitica dei suoi scritti, sono sempre infatti in rapporto con una prospettiva profondamente soggettiva, con uno sguardo che precipita luoghi, idee, artefatti in una condizione inquieta, esasperata, già oltre la linea d’ombra, già interamente trapassati in finzioni. Così, anche l’ambiente forse più vero dell’intera installazione – un intero stabilimento di sartoria industriale, completo di tavolini, sgabelli, macchine da cucire, lampade, banconi ecc., trasportato in blocco dalla periferia di Napoli – è insieme un emozionante brano di realtà, un palinsesto artisticamente composito in cui affiorano riferimenti ad altri artisti (l’installazione di Marzia Migliora La fabbrica illuminata, del 2017, e quella Senza titolo di Jannis Kounellis a Cuba del 2015), e una ricreazione poetica cui il quasi invisibile intervento a foglia d’oro sulle pareti conferisce l’aspetto di uno spazio consacrato dal e al lavoro, in un’accezione che comprende, oltre alla manualità artigianale, la stessa invenzione artistica. Chi cuce i lembi dispersi della Storia, chi ne taglia e imbastisce in una nuova costruzione i lacerti è in altre parole l’artista stesso, a riprova del fatto che in arte la mediazione dell’immaginario è già dentro la realtà che si credeva di possedere in forma diretta ma che si rivela alla fine un effetto potenziato da una ulteriore e nuova risonanza simbolica.
All’opposizione moderna tra struttura ed espressione, tra descrizione e partecipazione, tra guardare il mondo ed essere nel mondo, Gian Maria Tosatti contrappone un taglio obliquo, una concezione dell’arte come peripezia personale, come possibilità unica di compenetrazione tra sfere in apparenza incompatibili. Se l’empatia è la condizione indispensabile per assumere quanto vi è di tragico, inspiegabile, triste nel mondo, la creazione artistica diviene lo strumento per tentare empaticamente di riaccendere una scintilla di futuro.
Dal 1958 i cantieri navali Sanlorenzo costruiscono motoryacht su misura di alta qualità, distinguendosi per l’eleganza senza tempo e una semplicità nelle linee, leggere e filanti, che si svela nella scelta dei materiali e nella cura dei più piccoli dettagli.