La mostra all'Accademia di San Luca / Giovanni Anselmo: entrare nell’opera
La piccola figura umana appare vista dall’alto, colta di spalle e immobilizzata in un passo di corsa, la gamba sinistra sollevata, il braccio destro teso all’indietro. Intorno, nella grande fotografia in bianconero, un frammento di un paesaggio senza orizzonte, una vaga distesa erbosa di cui l’occhio cerca senza successo di misurare l’estensione. Entrare nell’opera (1971) è uno dei lavori più emblematici di Giovanni Anselmo, cui l’Accademia Nazionale di San Luca di Roma dedica una rara e importante mostra in occasione del conferimento all’artista del Premio Presidente della Repubblica (fino al 22 febbraio). La genesi dell’immagine, che con i suoi quasi quattro metri di base entra in competizione con la dimensione eroica della pittura, è semplice e al tempo stesso enigmatica: Anselmo ha sistemato la macchina fotografica su un cavalletto, mettendo a fuoco un determinato punto del paesaggio, ha poi azionato l’autoscatto ed è corso verso quel punto. Clic. “Entrare nell’opera” vuol dire dunque letteralmente arrivare puntuali a un appuntamento fatale: l’istante dello scatto e quello del raggiungimento del punto prestabilito coincidono. Il tempo si arresta nell’instante in cui l’azi0ne giunge al suo culmine, l’immagine “si fa” scartando l’azione che l’ha prodotta.
In questa meditazione sui paradossi del medium fotografico affiora il carattere analitico e vertiginoso che ha sempre caratterizzato il lavoro di Anselmo, in cui la meditazione “concettuale” sull’immagine fa corpo con la sua consistenza fenomenica, in un movimento che nel momento stesso in cui fa apparire qualcosa lo revoca nella vertigine di un regressus ad infinitum, di una sistematica complicazione dell’evidenza. Penso alla serie Particolare (realizzata a partire dal 1972), di cui in mostra sono presentate diverse varianti: dei proiettori di diapositive riproducono la parola “particolare”, una scritta in bianco a tutte maiuscole, di volta in volta su un blocco di pietra grigia, sulla parte bassa di un muro, in un angolo o al centro di un’altra parete. All’immediatezza della percezione di una porzione di spazio/materia corrisponde l’oscurità della sua connessione a un “tutto” che seguita a sfuggire (e lo stesso accade nei disegni realizzati tra il 1970 e il ’75 dei “particolari di infinito”, ovvero dettagli “visibili e misurabili” della parola “infinito” ingrandita sino a perdere qualsiasi leggibilità). Anselmo può mettere così in rilievo la tensione ineliminabile tra l’ambiente in cui accade l’opera e l’equivalenza/insufficienza di tutte le sue parti rispetto a una totalità che tuttavia non si lascia cogliere.
Piemontese, nato nel 1934 e sin dagli inizi tra i protagonisti del gruppo dell’arte povera, Anselmo appartiene a una generazione di artisti per i quali la riduzione, l’impoverimento appunto, della pratica dell’arte ai suoi componenti primari – materiali, concettuali, poetici – è insieme una strategia di azzeramento dell’espressività tradizionale e la condizione per spingere opera e spettatore verso una diversa relazione con ciò che giace oltre i confini del sensibile, che vive solo in una dimensione mentale: la totalità, l’energia, l’invisibile, l’infinito. Nella mostra sono esposti alcuni tra i lavori più precoci ed emblematici di questa poetica: in Torsione (1968), uno dei più eloquenti e belli, del fustagno viene attorto strettamente grazie all’azione di una sbarra di ferro poi bloccata dalla parete retrostante (la forma finale è quella di una “T” rovesciata) in modo da impedirle di ruotare in senso contrario, manifestazione concreta di una potente accumulazione di energia che rivisita e stravolge un tema caro alla scultura rinascimentale e barocca. L’effetto è quello di una potenza trattenuta a stento, di un “corpo” che lotta per liberarsi e agire liberamente.
In altri casi il processo è più sottile. In Respiro (1969), ad esempio, due lunghe barre di ferro poggiate a terra sono separate da un corto intervallo in cui è inserita una spugna che “respira” al ritmo del loro impercettibile dilatarsi e ritirarsi. Nel suo assecondare il fenomeno fisico, l’opera dà sostanza a un processo invisibile ma concreto e diviene immagine della dialettica immanente tra materia vivente e mondo inorganico. Ancora, in Per un’incisione di indefinite migliaia di anni (1969), un’asta di ferro ricoperta di grasso è appoggiata a una parete, dove, a sinistra del punto di contatto, si legge la frase del titolo. Il ferro, ossidandosi nel tempo, si arrugginirà e accorcerà; proteggendolo, Anselmo rallenta il decadimento ineluttabile della materia, ne preserva la memoria: “È un lavoro che si autocontinuerà – ha dichiarato l’artista –, un’opera volta contro la morte, contro il tempo determinato, delimitato dall’uomo”.
La scena primaria della vocazione di Anselmo, un evento reale anche se presto trascolorato in mitologia personale, ha un luogo e una data precisi: il 16 agosto 1965 l’artista assiste al sorgere del sole dalla cima dello Stromboli, una posizione in cui il suo corpo sembra non gettare ombra, dato che questa è proiettata verso l’alto, nello spazio aperto. Questa esperienza si sarebbe trasformata per l’artista in una epifania: “La mia persona, mediante l’ombra invisibile, ha avuto un contatto con la luce, con l’infinito”. In altre parole, come scriveva nel 1979 Jean-Christophe Ammann in un saggio ripubblicato nel catalogo della mostra romana, “ciò che appartiene al tempo (la persona e la sua ombra) viene atemporalizzato (la persona con la sua ombra invisibile, perché proiettata all’infinito)”. Da quel momento in poi Anselmo avrebbe praticato un’arte in cui concetti e dati di realtà si fondono in un’unità antillusionistica e antinarrativa, e l’evocazione poetica, particolarmente evidente nei titoli, è sempre accolta e insieme contrastata da calcolate opposizioni di masse, forze o consistenze materiali (come in mostra, ad esempio, Grigi che si alleggeriscono verso oltremare, 1982-86, con i suoi dieci grandi blocchi di granito grigio tenuti appesi alla parete da sottili cavi d’acciaio).
Obiettivo dell’artista è anche sottrarsi all’azione del tempo inteso come ideologia progressiva della storia e della tecnica, come tempo consacrato esclusivamente alla produzione e al consumo, per fare dell’arte un’interfaccia mentale e corporea tramite la quale rivelare un più complesso e produttivo intreccio tra linguaggio, pensiero, sensazione e mondo. In questo senso Anselmo ritrova quella dimensione “cronofobica” analizzata da Pamela Lee in un saggio del 2004 (Chronophobia. On time in the art of 1960s, MIT Press) che permea l’arte e la cultura degli anni Sessanta, dove il tempo è percepito come qualcosa di “fatale”, di ansiogeno, una percezione determinata da un sentimento di incertezza o di opposizione nei confronti degli orizzonti sociali e tecnologici, dal pessimismo per un futuro avvertito anziché come spinta in avanti, come ritorno, come ripetizione dell’identico. Un’incertezza che è anche la spia di una trasformazione profonda nella concezione del tempo e della relazione tra questo e la soggettività in un momento in cui l'avvento di nuove tecnologie e nuovi comportamenti di massa modificava in profondità la relazione tra individui e mondo sociale, tra eventi e “spettacolo”.
Alla “cattiva infinità” – questa formula hegeliana torna spesso nel libro di Lee – di un presente bloccato, di un fermo immagine ripetuto ossessivamente come nei frames dei quadri fotoserigrafici di Andy Warhol o nei laconici messaggi di On Kawara (“I am still alive”), Anselmo contrappone dunque la ricerca di una dimensione aperta e dialettica dell’esperienza temporale, in cui la concretezza dei materiali, le leggi fisiche, il caso, appaiono strettamente imbricati con la ricerca di una più lunga durata, di un continuum che ammette al proprio interno l’instabile e l’indeterminato.
Il rischio implicito in questa posizione è far pendere l’equilibrio del lavoro oltre l’orizzonte materiale e i suoi paradossi, evadere in una dimensione rarefatta e non più conflittuale in cui la fascinazione per l’indistinto si converte in una formula estetica. L’opera più tarda di Anselmo non è sempre esente da questo rischio come pure da quello, concomitante, di una reiterazione di soluzioni già sperimentate. Ma se si guarda al nucleo di straordinari lavori prodotti tra Sessanta e Settanta, di cui la mostra all’Accademia di San Luca raccoglie un numero cospicuo di esempi di qualità molto alta, è chiaro come l’opera dell’artista torinese riesca a mantenersi in equilibrio sul limite tra distaccata meditazione e originalità progettuale, senza mai che una componente prenda il sopravvento sull’altra. In quegli anni, come scrive Gabriele Guercio in catalogo a proposito della serie Tutto (1971-73), Anselmo riesce ad abbinare “ignoto e magnitudine”, producendo un continuo eccesso rispetto al mondo dei fenomeni e tuttavia rimanendovi legato, sviluppando connessioni inedite sul filo di un pensiero della molteplicità che resta, ben oltre il tramonto dell’utopia, una delle risorse essenziali della pratica artistica contemporanea.
Una versione più breve di questa recensione è uscita su «il manifesto - Alias».