Elisabetta Benassi: autoritratto al lavoro

2 Agosto 2024

Confrontarsi con la propria vicenda creativa è per ogni artista un momento di verità e una sfida difficile. Per la sua prima mostra antologica Elisabetta Benassi imbastisce nel salone centrale del MACRO di Roma (fino al 25 agosto) un emozionante corpo a corpo con quasi venticinque anni di lavoro: sottrae le sue opere a una superficiale lettura cronologica e le inserisce in “capsule” di gesso, una diversa dalle altre per forme e trattamento delle superfici esterne, progettate in collaborazione con la sorella Ilaria. I grandi involucri bianchi contribuiscono a ritmare lo spazio, vasto e sempre difficile, e a costruire un itinerario denso e sorprendente, in cui la selezione del curatore Luca Lo Pinto si presenta con un andamento tematico basato su assonanze e rinvii interni tra le opere. Le direttrici essenziali della ricerca di Benassi – il confronto con la Storia, le sue lacune e la sua inestirpabile violenza; l’evocazione dell’Utopia e dei suoi fallimenti; la mitologia e le metamorfosi dell’Artista – sono così filtrate da un allestimento che fornisce al tempo stesso un calibrato contesto spaziale e un’intensificazione emotiva a ogni lavoro.

È quanto si può osservare ad esempio nel claustrofobico cubicolo che ospita i tre “alberi-rifugio” di The Sovereign Individual (2018), aride celle d’isolamento a misura di un ego che ha reciso ogni rapporto sociale. Sui tre fusti mozzati di tronchi di palma a grandezza naturale, ottenuti tramite calchi in gesso, altrettante porte si aprono su minuscoli spazi abitabili. Sono le dimore degli “individui sovrani”, incarnazione dell’utopia anarcoliberista propugnata in un libro del 1997 dallo stesso titolo, scritto a quattro mani dal complottista americano James Dale Davidson e da William Rees-Mogg, ineffabile politico conservatore britannico con velleità intellettuali, volume “inchiodato” al muro dall’artista in un’altra sua opera sempre del 2018 (non esposta a Roma). Nell’installazione è ben leggibile la capacità di Benassi di maneggiare le contraddizioni politiche e sociali della contemporaneità evitando la trappola in cui cadono i tanti, volenterosi tentativi di affrontare l’anomia del mondo tardocapitalista coi toni del sermone moraleggiante o dell’esortazione virtuosa. Al loro posto si praticano l’ironia e il distanziamento mentre al titolo spetta il ruolo di traccia ambivalente, al tempo stesso riaffermata e negata dalla soluzione plastica.

Elisabetta Benassi, Autoritratto al lavoro. In primo piano:  The Sovereign Individual, 2018. Ph. Agnese Bedini – DSL Studio
Elisabetta Benassi, Autoritratto al lavoro. In primo piano: The Sovereign Individual, 2018  Ph. Agnese Bedini – DSL Studio

 

 

 

 

Nei tre soffocanti abitacoli arborei non si coglie infatti soltanto la contestazione dell’ideale di una società di individui senza Stato, regolati unicamente dal falso principio della self-ownership. Ciò che appare è invece la strana, inattesa connessione tra distopia liberista (un mondo composto da monadi galleggianti come bolle gassose sull’oceano del mercato) e utopia romantica (l’eterno ritorno alla Natura come cura dei mali della Civiltà), tra narcisismo assoluto e dissoluzione dell’umano.

Osservata in questa prospettiva, l’intera mostra si configura come un’esplorazione asistematica delle rovine della modernità, delle sue potenti illusioni, dei suoi violenti, ripetuti tramonti, delle sue spietate reincarnazioni. Un processo di continua metamorfosi che Benassi osserva con sguardo obbligatoriamente disincantato e in cui scorge all’opera un dispositivo intento a triturare ogni illusione, a destituire ogni troppo facile certezza.

Elisabetta Benassi, Autoritratto al lavoro. Ph. Agnese Bedini – DSL Studio
Elisabetta Benassi, Autoritratto al lavoro. Sul fondo: Yield to Total Elation, 2006  Ph. Michela Pedranti – DSL Studio

È questo il tema di un video del 2006, Yield to Total Elation, la cui colonna sonora, dalle tonalità incalzanti e minacciose, riempie tutto lo spazio di esposizione. Suddiviso in tre “schermi” affiancati e proiettato a grande scala a quattro metri di altezza, il video presenta i giganteschi macchinari di una cava di ghiaia, il cui funzionamento finisce per creare una sorta di pista circolare sul quale un’automobile sportiva inanella giri ad alta velocità. Un ciclo continuo, interrotto solo dall’apparizione incongrua di un uomo a cavallo e dall’inseguimento tra cavaliere e autovettura. Lo scenario da western o da film d’azione si trasforma così in un’allegoria: la competizione, sembra suggerire Benassi, è lo stato permanente dell’epoca tardocapitalistica, un distruttivo circolo vizioso. Il cui esito inevitabile, anziché una “totale euforia”, come recita il titolo, è un’eterna e cattiva ripetizione, una irresistibile ma vuota dissipazione, consumata mentre una Tecnica acefala prosegue impassibile a consumare il mondo.

Questo lucido e disincantato pessimismo, espresso ancora una volta in forma di meccanismo autodistruttivo, si ritrova anche in Senza titolo (La vie à crédit), del 2006, un “tavolo” di legno e metallo su cui opera un meccanismo motorizzato dotato di una punta d’acciaio che incide all'infinito cerchi imperfetti – come se disegnasse a mano libera – incidendo lentamente la superficie fino al prevedibile collasso del ripiano stesso. Il tema trapela tuttavia anche in lavori molto diversi, basati su “archivi” costituiti ad hoc dall’artista. È il caso di The Dry Salvages, parte di una più ampia installazione già presentata alla Biennale di Venezia del 2013: una distesa di mattoni realizzati a mano a partire dai fanghi depositati dall’alluvione del Polesine del novembre 1951, ognuno dei quali reca impressi codici di “relitti” di defunti satelliti artificiali, appositamente catalogati e tracciati per il rischio che pongono alla navigazione nello spazio intorno alla Terra.

Per la sua natura paradossale, la spazzatura tecnologica è una perfetta metafora dell’arco del progresso tecnico, il cui punto più alto – la conquista del cosmo – comporta il suo imprevisto, ma ineluttabile, decadimento in scoria senza valore. Il titolo, che cita il terzo poema dei Four Quartets di T.S. Eliot, si offre a una duplice lettura – salvages sono sia i “relitti” che i “salvamenti” – e “secchi” sono appunto i mattoni di argilla, a loro volta disposti a pavimento con una disposizione a griglia ripresa da un famoso lavoro di Carl Andre, la serie Equivalent (1966-69). Questa anarchica costellazione di riferimenti mette in rilievo un carattere ricorrente dell’opera di Benassi: il ricorso all’appropriazione come dispositivo allegorico grazie al quale dislocare il centro di gravità del lavoro, con un continuo processo di traduzione e trasformazione (dal verbale all’iconico, dal metaforico al letterale) attraverso il quale la pratica creativa indaga sé stessa.

Elisabetta Benassi
Elisabetta Benassi, Autoritratto al lavoro. In primo piano: The Dry Salvages, 2013

Da una prospettiva simile si può osservare anche Memorie di un cieco (2010), un obsoleto lettore di microfilm poggiato su un’icona del design italiano nella sua epoca eroica, una scrivania della serie Arco Olivetti disegnata da B.B.P.R. nel 1963. Sul suo schermo scorrono migliaia di riproduzioni di dorsi di fotografie d’agenzia coperti di timbri, annotazioni, riferimenti che documentano gli usi delle immagini che rimangono occultate sul loro recto. Qui l’Archivio perde la sua funzione di garanzia: al letteralismo, alla ottimistica e moralistica fiducia nella sua autorità mnestica Benassi oppone una visione anarchica ed entropica, dove l’immagine fotografica, prova regina di “realtà”, viene spodestata da segni spuri, ridondanti, dal rumore di fondo di infinite descrizioni di descrizioni. Lo si può osservare anche nella serie di acquarelli All I remember (dal 2010) esposti a parete poco lontano, riproduzioni accurate manuali del verso di fotografie già viste nell’opera precedente. L’Io che rammenta è un’entità impersonale che confonde e fabbrica i ricordi a partire da tracce labili, insufficienti a ricostruire gli eventi, ma capaci solo di riproporre ciò che degli stessi si è potuto dire o tacere in un dato momento. Una memoria lacunosa, reticente, che illumina d’altro canto il il peculiare comportamento delle immagini fotografiche, le quali tendono a resistere a ogni enunciazione verbale e al tempo stesso, in quanto “messaggi senza codice”, dipendono da un testo o da una didascalia che ne seleziona e orienta la lettura.

Elisabetta Benassi
Elisabetta Benassi, Autoritratto al lavoro. Al centro: Memorie di un cieco, 2010.  Ph. Agnese Bedini – DSL Studio

Questi esempi bastano a mostrare la varietà di media che caratterizza l’opera di Benassi e il continuo processo di spostamento e trasmutazione che la alimenta. Con impertinente libertà, l’artista attinge a fonti e materiali spesso sovraccarichi di significati, riutilizzandoli in modo tale da generare punti di vista inattesi, nuove risonanze. Ne fa fede il dittico video che nel 2000 la rende internazionalmente nota, You’ll Never Walk Alone e Timecode, nei quali va in scena l’incontro impossibile e struggente tra Benassi-Bettagol e Pier Paolo Pasolini, figura carismatica che torna in altre opere dell’artista come memento e come incarnazione di possibilità ancora attive, di un’eredità da raccogliere e rilanciare.

Il doppio movimento, di appropriazione e di simultaneo distanziamento, che si compie in tutti questi lavori torna anche in opere più recenti, come la serie di tappeti che riproducono alcuni telegrammi spediti da celebri figure dell’avanguardia come Dziga Vertov e Jean-Luc Godard, le cui infiammate dichiarazioni si trasformano in ironici oggetti allegorici. Così, nel tappeto All the terrors of the planet (2021), Benassi riutilizza un telex inviato da Joseph Beuys a Robert Rauschenberg nel 1984 in cui l’artista tedesco rimarca il ruolo e la responsabilità delle arti e degli artisti: “Caro Bob – vi si legge –, la storia non ci concederà alcun perdono anche se avessimo abbastanza coraggio da affrontare tutti i terrori del pianeta. Un giorno ci si domanderà se abbiamo permesso a noi stessi di essere degradati a individui utili perché il nostro lavoro era soltanto un viaggio romantico verso la bellezza e l’orrore”. La trasposizione del messaggio in un prestigioso oggetto d’arredo agisce qui da correttivo ironico a doppio taglio: al tempo stesso mima il caratteristico cinismo postmoderno (la “degradazione”, o potemmo anche dire la reificazione di cui parla Beuys ora è estesa anche alle stesse parole ammonitrici dell’artista) e lancia un interrogativo circa l’effettivo spazio di critica, e di efficacia, attribuito all’arte, specie in una congiuntura come quella attuale, in cui il posizionamento politico o biografico dell’artista prevale e schiaccia l’autonomia della sua opera.

Elisabetta Benassi
Elisabetta Benassi, Autoritratto al lavoro. In primo piano: The Bulletproof Angela Davis, 2011.  Ph. Agnese Bedini – DSL Studio

Non lontano da questi esempi è quanto accade in altre opere in mostra, come The Bulletproof Angela Davis (2011), facsimile, con varianti, della cabina antiproiettile che proteggeva la militante nera durante le apparizioni pubbliche e nella quale un registratore riproduce il brano – Uno spettro si aggira per il mondo – che Luigi Nono dedicò nel 1971 oltre che a Davis, ai due militanti del Black Panther Party Ericka Huggins e Bobby Seale. Un altro esempio è Gorilla Gorilla Gorilla (2015), tre gabbie d’acciaio concentriche che evocano la pluridecennale prigionia di Bushman, un gorilla che fu la principale attrazione dello zoo di Chicago negli anni Trenta e Quaranta del Novecento. In entrambi i casi un elemento fa da “contenitore” – riparo o prigione che sia – a un soggetto percepito in forma ambivalente come oggetto di ammirazione e come pericolo, come bersaglio e come corpo da preservare ed esporre, e prende per metonimia il suo posto. In entrambi i lavori il titolo amplifica e complica le implicazioni politiche dei lavori (Angela Davis “a prova di proiettile”, come metafora della sua resilienza e come emblema della sua pericolosità per l’ordine costituito). Il soggetto escluso, subalterno, ma che rivendica una propria voce, una propria autonoma soggettività (l’identità Black, l’animalità), viene così evocato, e mediato, attraverso dispositivi trasparenti il cui compito è al tempo stesso rimuovere ed esporre. 

Elisabetta Benassi, Autoritratto al lavoro
Elisabetta Benassi, Autoritratto al lavoro. In primo piano: Fixator V (Centurio senex), 2024.  Ph. Agnese Bedini – DSL Studio

Per Benassi dunque l’opera cela e rivela in egual misura, e nel suo duplice ruolo di cerniera e di soglia proietta il “tema”, ogni tema, in una dimensione complessa ed enigmatica, nella quale, in relazione con lo spettatore, la costante retroazione tra percezione, memoria, inconscio, determina un esito aperto e imprevedibile. Ritrovo questi pensieri nel lavoro più recente tra quelli in mostra, Fixator V (Centurio senex), datato 2024, una struttura in bronzo patinato bianco che sostiene al suo interno il calco molto ingrandito del cranio di un pipistrello su cui è visibile il segno di un trauma violento. L’effetto è ancora una volta quello di una “gabbia” che in questo caso ricorda, come indica il titolo, i fissatori impiegati in campo medico per il trattamento delle fratture ossee. Parte di una serie di altre quattro sculture esposte a inizio 2024 nella sua mostra personale a New York alla galleria Peter Freeman, il lavoro porta in luce un paradosso temporale: gli effetti di una mutazione biologica situata nel nostro futuro mostrati nella forma di un fossile, ovvero del reperto ormai musealizzato di una violenta epoca trapassata. Questi tre “momenti” collassano all’interno della struttura-gabbia che è al tempo stesso un congegno terapeutico e un mediatore, così come una garanzia di stabilità e la rivelazione ormai raffreddata di una catastrofe a venire. La fine del mondo è già avvenuta.

Elisabetta Benassi, La Mano di Dio
Elisabetta Benassi, La Mano di Dio, 2024.

Se questa dimensione liminare – tra tempo, pensiero, corpo, azione – è quella in cui Benassi situa il proprio lavoro, chi è dunque l’Artista di cui compone l’Autoritratto al lavoro? È una macchina autoironica, come le due motozappe marca “Benassi” (2016 e 2021) che spiccano con la loro colorazione rosso acceso al centro della mostra, ed è anche il portatore di una irriducibile singolarità, la cui posta in gioco, più che l’arte, è la vita stessa. Seminascosta in fondo alla sala, un’ultima sorpresa: il calco della mano di Picasso riprodotto sulla copertina di un celebre libro di Brassai e trafitto da un grosso chiodo (La Mano di Dio, 2024). Il Demiurgo è uscito di scena: è adesso l’ora di un’artista che dell’umano conosce l’errore, la smemoratezza, la crudeltà.

 

Questo articolo è apparso in forma più breve su "Il Sole 24 Ore", che ringraziamo.

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Elisabetta Benassi, Autoritratto al lavoro, vista dell'allestimento. Photo Agnese Bedini-DSL Studio

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